“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 16 February 2014 00:00

La Dama

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A quei tempi non avevo ancora vinto il concorso, così lavoravo da sola, in proprio insomma. Cioè a dire il vero il concorso lo avevo anche vinto, ma aspettavo che mi chiamassero. Scorrimento della graduatoria, così si dice. Prima chi vogliamo noi poi tutti gli altri, così dico io. Comunque, nell’attesa continuavo a fare il giro delle case, tutti i giorni. Avevo un motorino, un Ciao scassato che sopportava paziente i miei capricci e i miei chili. Non so perché, ma quelle che fanno il mio lavoro, e lo fanno bene come me, sono sempre belle in carne. Così ero io, e ancora oggi non so se sono io che ho scelto il mio lavoro, dandoci dentro con arancini e sfoglie ripiene, o è il lavoro che ha scelto me, proprio a causa di questa mia passione per i carboidrati, come si chiamano adesso. Pane, pasta, pizza, dolci, insomma.

A lavorare da sola, poi, a girare per le case, questa mia passione mi era molto utile. Per entrare in confidenza con loro, con i miei pazienti, voglio dire. I vecchi, si sa, adorano i carboidrati. I dolci, insomma. Cannoli, cassatelle, paste di mandorla, bignè alla crema, diplomatici. Così spesso glieli portavo, anche se non è che fossero così tutti d’accordo, e bisognava stare attenti a non farsi scoprire. I parenti, i figli, le nuore specialmente, tutte giuste e senza pieghe nei loro tailleur giacca e gonna con la borsa e le scarpe in tinta. Passavano a trovarli, questi vecchi curvi e distratti, una, massimo due volte alla settimana. A volte capitava che ci fossi anche io in casa, e allora potevo studiarli per bene, in queste loro capatine che parevano delle visite al giardino geologico. Le nuore, in particolar modo, entravano con le chiavi del marito, lasciavano la borsetta in ingresso e attraversavano il corridoio chiamando a voce alta: mamma! mamma! Dalle nostre parti si usa così, si dice mamma anche alla suocera, pensate che oscenità.
Attraversavano il corridoio, e via via il tono alto si faceva più strozzato, via via che gli odori della vecchiaia andavano loro incontro, si appendevano alle corde vocali e anche all’umore, e la voce si incrinava sempre più. Perché della vecchiaia si dicono tante cose, come, per dire, che le vecchie sono rugose e carine, con i capelli raccolti sulla nuca e le tasche piene di caramelle per i nipoti, e i vecchi sono bizzosi ed egoisti, chiusi nelle loro sedie a rotelle cariche di plaid a quadri e ricordi che non interessano a nessuno. Della vecchiaia si dicono tante cose, ma mai le cose fondamentali. Gli odori, ad esempio. Le case dei vecchi, non tutti, è certo, non quelle dei vostri, ci mancherebbe, hanno odori forti, ben strutturati, tanto da sembrare quasi solidi. Odori che non vanno via neanche con lavaggi intensi, di quelli da scorticare i pavimenti, le pareti e anche la pelle. Odori che ti si appicciano addosso, un po’ come l’odore dell’ospedale, ma diversi. L’ospedale, per dire, ha un odore molto preciso, un’essenza di dolore distillato molto intensa ma anche piatta, monotona, solo a volte con un certo retrogusto di marcio alla fine. Le case dei vecchi invece hanno più strati, più patine. Odori con tante sfumature, con picchi forti, ma anche retrogusti dolciastri. C’è urina, c’è candeggina sopra all’urina, c’è sudore, c’è deodorante sopra al sudore, a casa dei vecchi. Ma anche sugo di pomodoro, cotolette, peperoni ripieni, tutto insieme, in un abbraccio stretto che ti fa sobbalzare quando ti afferra.
Io le capisco le nuore mamma! mamma!, sia ben chiaro, quando entrano con i loro tailleur in tinta e il foulard al collo che declina le nuance. Non è facile trovarsi di fronte a questa nebbia di ammoniaca, sugo, latte acido e olio esausto, e attraversarla come se niente fosse, senza storcere il naso, senza avere voglia di scappare. Io le capisco, e tante volte avrei voluto dire loro qualcosa, una parola, un sorriso, una consolazione. Ma non l’ho mai fatto. Noi infermiere ciccione, addette alle iniezioni a casa, siamo una razza un po’ sciocca, abituate ad un lavoro ripetitivo e sempre uguale. Chiappa scoperta, pizzicotto di incoraggiamento, strusciata di disinfettante, ago dentro e via. Una sorta di mucca da latte, o di toro da monta. Infermiera da punture: non pensiamo, non parliamo, non sentiamo odori.
Avrei voluto dire, a queste scusami mamma ma ho fretta, sai com’è tuo figlio, no? dai, mettiti dritta, ti do un bacio e me ne vado, avrei voluto dire, c’è un solo modo per dissolvere la cortina di urina e sugo, ed è aspettare. Sedersi, fare trascorrere il tempo, contare il silenzio, valutare la mano incerta dell’imbianchino sul muro, seguire la forbice che risale lenta il battiscopa. L’attesa, con i vecchi, è fondamentale. L’attesa è la chiave di tutto. È passare attraverso la cortina, vederne le sfumature. Aspettare, osservare, dirsi qualcosa ogni tanto. Ecco, quella è l’essenza.
La Dama era l’ultima del giro, e a me piaceva questa cosa, perché da lei potevo fermarmi un po’, e attraversare anche io il cumulonembo, e sedermi ad aspettare. Era una vecchietta molto gentile e altrettanto silenziosa. Una donnina robusta, quasi tonda, con grossi occhi chiari e riccioli bianchi e ben definiti attorno alla testa. Andai da lei per dieci anni, mese più o meno, non ricordo esattamente. Quello che ricordo è che erano sei mesi esatti prima che morisse il marito. Punture, questo il mio compito. Per lei, e anche per lui, naturalmente. Infrodan per lei, Aricell per lui. Diabete per lei, demenza per lui, semplice. Ogni giorno, dopo le cinque. Ultima famiglia del giro. A dire il vero a lui le punture le feci veramente per poco. Qualche giorno, due, tre, non di più. Poi gli cambiarono la cura, sostituirono le iniezioni con delle pillole. Me le fece anche vedere la Dama, pillole grosse come nocciole, bianche come il burro. Da una parte, da una parte soltanto, c’era inciso un cinque. Mi ricordo che mi offrii subito di controllare la ricetta, la prescrizione insomma, per verificare che fosse tutto a posto; si sa come scrivono certi dottori, ma lei mi rispose di non preoccuparmi, che ci aveva già pensato il barbiere basso.
Il barbiere basso, suo figlio insomma. Uno dei due figli che venivano a trovarla. Ne aveva quattro in tutto, ma gli altri due, un maschio e una femmina, non passavano mai. Dice che abitavano in un’altra città. Io subito pensai che la Dama doveva sentirsi triste per questa cosa qua, insomma l’unica femmina, l’unica consolazione, un aiuto, uno sfogo con cui parlare. Ma la Dama era una signora un po’ speciale, e per questa cosa qua della figlia sembrava non soffrire, per niente. In fondo, doveva pensare, in fondo c’è anche l’altro, il barbiere alto. Li chiamava così la Dama, per farli distinguere al marito. La demenza gli aveva consumato il cervello quasi del tutto, e così non ricordava i suoi figli, né niente altro, a dire il vero. Ricordava solo due cose: che venivano a fargli la barba una volta alla settimana, alternandosi, e che erano uno basso e tracagnotto, e l’altro alto e magro. Il barbiere basso e il barbiere alto, appunto. Ma non lo vidi molto, il povero signor Lino. Sei mesi forse, o poco più. Morì una mattina presto, all’improvviso. Diabete fulminante, a quanto avevo potuto capire. Nell’ultima settimana in effetti aveva perso il senno proprio del tutto, non riconosceva più nessuno, non parlava, non si voltava quando arrivavo. Si svegliava spesso di notte, a volte non dormiva per niente, e andava al balcone. Anche quel giorno si era alzato presto, così almeno mi raccontò la signora Lucia, la vicina del piano di sotto che ogni tanto saliva a fare qualche pulizia. Spazzava un po’, lavava qualche pavimento, portava via la spazzatura, sempre presa più dagli affari degli altri che dalle pulizie vere e proprie. Quella mattina si era alzato presto, ma presto proprio, verso le cinque, cinque e mezza massimo. Era estate, i primi di giugno, così era uscito in balcone, attirato dai primi bagliori. Nudo, ma nudo proprio, senza niente addosso. Solo i calzini, le ciabatte, e il cappello in testa. Dice che lei, la signora Lucia, era uscita in balcone giusto giusto presto anche lei quella mattina, per ritirare la biancheria che le serviva per vestirsi in fretta e uscire. Doveva prendere il primo treno per Messina. E lo aveva visto, da due piani di sotto. Beh, a dire il vero, e qui si era interrotta, la signora Lucia, lo aveva prima sentito, o meglio, le sue calze di nailon e la sua sottoveste lo avevano sentito, ne avevano sentito gli umori interni, ecco. Pisciava dal balcone!, era sbottata a metà racconto la signora Lucia, stizzita dalla mia poca prontezza, con tanta foga da colpirmi con un piccolo proiettile di saliva. Così lei tornò in casa, senza calze di nailon né sottoveste, manco a dirlo, e chiamò subito il barbiere alto. Lo faceva così tante volte, quel numero, così mi disse, che oramai lo conosceva a memoria. “Venga, corra, suo padre è in balcone, senza vestiti”. Che piscia di sotto e parla alla luna, questo avrebbe voluto dirgli, anche, al barbiere alto, ma non ebbe il modo, perché quello chiuse subito, e la lasciò così, all’altro capo, senza sottoveste né calze. Lo sentì arrivare dopo poco, un quarto d’ora al massimo, sbattere il portone e fermarsi con l’ascensore proprio sopra di lei, per così dire. Pare che uscì in balcone, prese il padre e lo rimise a letto, e niente più, mentre la Dama osservava la scena in silenzio. Poi se ne andò a lavorare. Lei, la signora Lucia, era salita qualche ora dopo, giusto per vedere come andava, ma non fece in tempo a entrare in casa che la Dama le disse che il signor Lino era morto. Fu così che fece il numero di casa del barbiere alto per la seconda volta in un giorno solo.
Io arrivai più tardi, quando era già tutto un tramestio di uomini dell’impresa di pompe funebri, fiori e qualche debole lamento.
La Dama parlava raramente, e se possibile, dopo la morte del signor Lino parlava ancora di meno. Le venne la passione della maglia, e così cominciò a sfare e rifare dei vecchi centrini dalla lana dura e stinta, usando dei ferri storti e vecchi. Allora le proposi di aiutarla, di portarle io qualche gomitolo dalla merceria di mia sorella. Così cominciai a portarle il campionario, e lei sceglieva le cose che le piacevano, e ordinava prima qualche gomitolo, poi sempre di più. Le piacevano in particolare le lane melange, con tutte le sfumature del verde e del marrone. Sfumature di collina, mi diceva mentre le sceglieva. Così dopo la morte del signor Lino passò le sue giornate con i ferri in mano, a fare maglioni e cardigan per i suoi nipoti, che a dire il vero non è che si facessero vedere spesso. Per quello che potevo vedere io, a parte i due barbieri che passavano quasi ogni mattina, l’unica che andava a trovarla era una nipote.
Come tutti i miei vecchietti, adorava i dolci. Il suo preferito, sopra ogni cosa, era il babà al rum, ed eravamo fortunate, io e la Dama, perché proprio sotto casa sua c’era una pasticceria sublime, una delle migliori della città. Così io prima di salire da lei mi fermavo e compravo due bei babà, belli inzuppati di rum, con la crema gialla di lato e la ciliegia candita sopra. Non tutti i giorni, eh, diciamo a volte. Diciamo spesso. Certo, c’era quel problema del diabete, la Dama poteva sentirsi male. Ma per quello c’erano le punture, no? Il giorno che portavo su i babà ne facevamo due, una prima e una dopo. Era un piccolo segreto, un piccolo segreto fra di noi.
Il barbiere basso a volte non si raccapezzava. Mi scusi signora Carmela, ma è già finita la scatola di Introfan? No, perché mi pareva fossero dieci dosi, mi ero fatto il conto che fino a venerdì prossimo eravamo a posto, e invece qui vedo solo due fiale, così mi diceva. Io non rispondevo, facevo spallucce insomma, tanto si sa come vanno queste cose, a difendersi poi si va a finire in un ginepraio. Su di noi, sul nostro lavoro, si sentono dire certe cose, a volte, offensive, ma così offensive, che è meglio non pensarci neanche. Giornalisti con il culo sulla sedia e poche passeggiate, e con i vecchi in case lontane, come la figlia della signora Lucia. Giornalisti che al solo pensiero di attraversare il muro di ammoniaca e ragù scapperebbero, altro che zone di guerra. Solo chi fa il mio mestiere lo sa. La vita dei vecchi è un dialogo con la morte, e poco altro, e allora tocca combatterla giorno dopo giorno, puntura dopo puntura. A volte anche sfotterla, quella morte là, sempre in attesa, illuderla e poi fregarla. Mangiare un babà al rum, e farsi una doppia fiala di Introfan.
La Dama era l’ultima del giro, e non so perché si facesse chiamare così. Ho cercato di capire, almeno le prime volte, se ci fossero in lei delle origine nobiliari, anche solo inventate, o intraviste, ecco, anche attraverso la signora Lucia, quella del piano di sotto, ma neanche lei sapeva niente. Passavo da lei tutti i giorni, e in quegli anni, della nostra città, avevo una mappa proprio precisa. Una specie di geografia dell’iniezione, una cartina con tutte le cose al loro posto, strade, incroci, sensi unici e divieti. Solo che sopra c’erano riportate le case dei miei pazienti, una per una. Una cartina dove invece di esserci riportato “1. Duomo”, c’era scritto “1. Signora Caruso. Diazepam, una sola fiala, ore 15,00”. La Dama era l’ultima, il numero 5 o il numero 6, dipendeva dal marito della signora Lemmi, se era in “buona” oppure no.
Mi piaceva andare dalla Dama. Viveva al quinto piano di una palazzina anni sessanta, in una via laterale alla grande piazza. Una piazza ovale, circondata da un muretto basso e un marciapiede, dove i ragazzi si incontravano, provando a simulare giovinezza e allegria, e finendo per fare dei lunghi giri in motorino, tutto attorno, esaurendo miscela e speranze. Una palazzina con niente intorno, a parte altre palazzine, intendo. Niente negozi, né panifici, né alimentari. Niente tabacchi, né signora dei fiori. Solo altre palazzine, con piccoli cortili con il garage nel retro, e androni punteggiati da cartelli. “Si pregano i signori condomini in possesso di una tromba di rispettare l’orario del silenzio. Grazie”. “Ogni qualvolta uscite dall’ascensore accertatevi che la porta sia chiusa bene, in modo da permettere a tutti di usufruirne. Grazie.”
La Dama viveva murata nel suo appartamento, spinta dietro la sua porta da tutti quei grazie. Centoventi metri quadri doppia esposizione doppi servizi, doppio salone, doppio tutto insomma, come tanti vecchi come lei. A volta me li immaginavo, che si studiavano dalle finestre, da dietro alle serrande mezze calate, come cowboys con i baffi e il cappello calato sugli occhi, in un deserto villaggio del west, con un occhio chiuso e l’altro aperto nel mirino del fucile, pronto a sparare il corpo mortale. La casa portava ancora tutte le tracce della sua famiglia, di quando erano tanti, ecco, di quando tutto quel doppio a qualcosa serviva. C’erano ancora lettini che scendevano da mobili armadio nel tinello, e libri negli scaffali. Perfino palloni a terra, e vestiti appesi nell’armadio. A volte mi sembrava proprio di vederli, i figli, il loro girare in casa, il caffè con gli ospiti nel salone, il rumore della plastica del divano, quella del primo giorno, quella mai tolta, che sfrigolava sotto al sedere. A volte mi apparivano come tracce, segnate in giro per le stanze come con lo scotch da pacchi.
La Dama non era una donna di molte parole, così della sua storia per anni ho saputo solo quello che mormorava la signora Lucia, fra una spazzata e l’altra. “Certo, che una come lei…”, mi imboccava. “Come lei chi, signora Lucia?”, rispondevo io. “Come lei”, strabuzzava gli occhi, la signora Lucia, e si faceva con la bocca a culo di gallina, indicando la camera dalla quale veniva la voce di una ragazzina che leggeva a voce alta. “Una come lei”, proseguiva, con aria finto mesta “con tutto quello che sapeva fare, a finire a mettersi con i ferri...”, e mi fissava. Godeva dei miei occhi vuoti, e allora mi concedeva qualcosa, bonaria. Briciole alle galline. “Ma come non lo sa? Era la ricamatrice più brava di tutto il suo paese, anzi no, della valle intera. Poi si è sposata, e ha smesso”.
Non replico, non dico niente, ma è chiaro che mi ha messo una pulce nell’orecchio, la disgraziata. Così alla prima volta buona riattacco. “Magari si era scocciata.”, le faccio, noncurante. La signora Lucia fa un gesto, un gesto piccolissimo, ma chiaro, come a dire: certo che questa qua non capisce una mazza. “Macché”, replica la sua bocca censurata. “Lui le ha rotto il telaio, subito dopo il matrimonio. Spezzato, proprio. E lei non ha ricamato più. Del resto, voglio dire, a quell’età…” Gioca al gatto e al topo, la signora Lucia. “Erano tanti anni, quindi, che erano sposati?” “Ma no, manco una settimana. Sposarsi a quell’età, voglio dire. Dice che a lui non lo voleva nessuna, perché era così sparagnino che non salutava manco, se lo incrociavi per strada. I saluti costano”, ruota la mano, e un poco anche la scopa. “Be’, a lei però doveva piacere, almeno all’inizio”, insisto io. “Macché”, tono scocciato, “manco lei lo voleva. Quando suo padre la informò del fidanzamento, lei scappò via dal paese, giù dalla collina, di notte, ma la ripresero, la picchiarono per bene e glielo fecero sposare a forza. Dice che aveva fatto diversi chilometri, in vestaglia e a piedi scalzi”.
Dopo quel racconto, la Dama mi sembrò ancora più dama, e mai, mai cercai di sapere qualcosa da lei. Di solito citofonavo, “Chi è?”, diceva. “Carmela sono, signora”. “No, già le sette sono”, faceva, e mi apriva il portone. Io entravo nell’androne, scendevo i tre gradini che portavano all’ascensore, e salivo cigolando fino al suo piano; entravo in casa dalla porta socchiusa. Lei era sempre là, seduta nel suo letto, con i ferri in mano. A volte però me la trovavo davanti alla porta.
“Cosa c’è scritto sopra?”, mi si para davanti una volta, senza manco dirmi ciao, né niente, tendendomi il bugiardino di una medicina. Me lo ricordo bene, era la prima volta che tornavo a farle la puntura dopo che il signor Lino, dopo il funerale, insomma. È agitata e scontrosa, lei che è sempre così gentile e pacata. “Cosa c’è scritto sopra?”, ripete ostinata, davanti al mio silenzio. Prendo il foglietto, cerco di capire cosa vuole sapere. Posologia? Indicazioni? Effetti collaterali? “No, qua”, mi fa stizzita, “Cosa c’è scritto sopra alla pillola! Non mi interessa cosa dicono le carte. Sono tutte bugiarde le carte”, e mi passa la scatola con le pillole del marito. “Cosa c’è scritto sopra?”
Prendo il blister, sono pillole ovali, bianche, farinose e anche abbastanza grandi, specie se si considera che erano da mandare giù con un sorso d’acqua. Ne tiro fuori una per guardarle meglio, mentre la Dama mi continua a fissare, tirando su per quanto possibile il collo tozzo. Cerca di darsi un’aria di autorevolezza, ma l’effetto che ha su di me, con il suo metro e cinquanta scarso e i suoi capelli azzurrati, è solo un sorriso, che trattengo a stento.
Mi piaceva molto andare da lei. La sua casa puzzava, naturalmente, come tutte le altre, a dire il vero anche un po’ di più, da quando era morto il marito. Da quel giorno in casa il disordine era cominciato ad aumentare, sempre di più, come se si innescasse un fenomeno a catena. L’effetto globale era di una certa allegria anarchica, con le pile di pannoloni che formavano alte torri incerte in sala da pranzo, le vestagliette poggiate un po’ ovunque, e i piatti a farsi compagnia nell’acquaio. Nella sua stanza, in particolare, i mucchi di Confidenze, la sua rivista preferita, occupavano oramai gran parte del pavimento. E poi gomitoli, gomitoli di lana dappertutto. Gomitoli di tutti i colori e le dimensioni, che venivano fuori da busta di plastica trasparente o da sacchetti di tela a fiori, fatti apposta per conservare matasse e ferri.
“Cosa c’è scritto, me lo dice, per cortesia?”, mi riporta all’ordine la Dama. Mi giro la pillola fra le mani. Sono le pillole del povero signor Lino. Da un lato, da un lato solo, c’è scavato un numero. Il numero cinque. È la caratteristica di quella medicina, la nuova generazione delle pillole per la demenza. Che voleva dirti, forse, chissà, ce la farai ancora per cinque anni? Per cinque mesi? Per cinque giorni? Un’operazione di marketing e poco altro, quasi sicuramente, ben riuscita del resto, era chiaro.
“Cinque”, le rispondo “C’è scritto cinque”, ma la Dama si è già voltata, dirigendosi verso la cucina. “Cinque”, ripete meditabonda mentre apre la caffettiera. “E io ogni cinque giorni gliela davo. Una ogni cinque giorni. E basta”, poi di nuovo verso di me, mentre svuota il filtro nel lavandino, “Con quello che costano poi. Lui non mi permetteva mica di comprare tante scatole”. La guardo, mentre prende la scatola di metallo del caffè, la apre e ci infila tutta la faccia dentro, per annusare. Per un attimo mi passano davanti la signora Francesca con la scopa, che racconta lenta, i capelli azzurrati della dama, la ricetta per le pillole, la Dama che chiude piano gli occhi tondi, il gatto e il topo. I gatti e il topo? Le tracce delle vite a terra e sui muri. “Quanto zucchero?”, mi chiede sorridente. “Uno e un poco”, faccio io. La Dama nicchia.
Aveva una passione per il caffè, nero, bollente, che prendeva a tazze intere, che poi lasciava in giro, a fare i loro cerchi misteriosi sugli scatoli dei pannoloni e le riviste cupe e sanguinolente. Comprava solo caffè di quello migliore, specie, manco a dirlo, da quando il signor Lino non c’era più. La sua cucina, al contrario del resto, era sempre pulita e in ordine. Faceva da mangiare alla nipote, che si presentava all’improvviso, senza avvertire, e si fermava per un po’. A volte qualche ora, a volte un giorno, a volte una settimana. Litigava con il padre, il barbiere alto, usciva di casa, attraversava i ponti e il viale alberato, si tuffava giù per la piazza ovale e si presentava alla porta della nonna, sempre accompagnata dal suo cane. La Dama non chiedeva niente, la nipote non diceva niente. Si sedeva nella sua camera, nel divano di fronte al letto, gli anfibi sporchi penzoloni, il cane silenzioso alla caviglia, quasi fosse il levriero di un nobilotto di campagna, in posa per un ritratto tutto muschio e odore di cuoio. La ragazzina prendeva un numero di Confidenze dalla pila, sceglieva una storia e cominciava a leggere a voce alta. Erano storie di fanciulle ingenue e uomini traditori, con qualche spruzzata di figli illegittimi e sorelle nascoste. Atmosfere cupe e sanguinolente, storie lacrimevoli e tutte simili, inizio infausto e fine lieto, che lei leggeva con impegno e sentimento, circondata da buste piene di pannoloni per l’incontinenza e gomitoli di lana, mentre la nonna sferruzzava, e ogni tanto annuiva. Finita la lettura del pomeriggio la Dama passava in cucina, preparava loro la cena. La nipote e il cane mangiavano in silenzio, senza né protestare né dire buono nonna, brava nonna, ma si capiva che apprezzavano. Di solito, mentre io mi preparavo per andare via, la ragazzina si attaccava al telefono, a parlare con qualche amica solo un attimo per delle ore. Ma alla Dama importava poco, a lei il telefono la sera non serviva, e quanto alla bolletta, beh, per fortuna i soldi non le mancavano. Da quando il marito era morto, fra la pensione e qualcosa che aveva da parte, i conti erano diventati l’ultimo dei suoi pensieri. A parte la sua stanza e la cucina, abitava poco altro, della sua casa doppio tutto, a parte il balcone, dove curava le sue piante. Il gelsomino, i gerani, ma più di tutto, più di ogni altra cosa, la sua pianta di basilico. Una pianta enorme, rigogliosa e forte, un vero e proprio albero del basilico. Qualche volta arrivavo e la trovavo fuori, intenta a dargli l’acqua o pulirgli le foglie, e mi faceva venire in mente quella favola dell’uomo con la testa mozzata, seppellita in un vaso dalla sua innamorata perduta.
Prendo una sedia dalla cucina, e mi siedo fuori anche io, e mentre lei ha le mani nella terra io cerco di intravedere le vecchie dei palazzi di fronte, chiuse dietro alle loro serrande mezze calate. “Contava le bustine”, mi dice. “Contava le bustine del tè con la punta della lingua fra i denti, come un cassiere di banca”. Toglie una foglia vecchia e me la mette in mano. “Sfogliava le bustine come banconote da centomila lire. Contava tutto”. Via un’altra foglia. “L’unica cosa che non contava erano i rammendi alle calze”. Si toglie la ciabatta destra, e lascia intravedere l’alluce, l’unghia gialla e ritorta che spunta dal buco del gambaletto. “Tanto, diceva, tu eri così brava, no? Ah, ma a lui, i rammendi glieli facevo a modo mio, altroché. Certi rammendi tutti storti, certi bitorzoli che a infilarsi le scarpe poi gli restavano tutti là, sulla punta delle dita dei piedi, e gli davano un fastidio, ma un fastidio. Ma lui niente, non faceva una piega. Comprare un paio di calzini nuovi, lui. Figuriamoci. E anche i bottoni alle camicie, glieli mettevo a modo mio. Eh be’. Non storti molto, solo un poco, ecco, quanto bastava a raggrinzirgli la camicia davanti, quel poco da dargli un’aria da pezzaro anche quando si metteva il vestito buono”. Rientra in casa, e mi lascia così, sul balcone, a guardare le murate di fronte, con tre foglie nere di basilico in mano. È il giorno prima dell’ultimo giorno, ma ancora io non lo so.
L’ultimo giorno il barbiere basso mi intercettò nell’androne. Entrai spingendo il portone con il gomito, in mano avevo la guantiera dei babà. Appena mi chiusi il portone alle spalle, uscì dalla sua ombra e mi si piazzò davanti. Stava appostato come un cane da presa, un cane da riporto. Io lo guardai, e pensai che mi pareva un lottatore, o un boxeur, ecco, un boxeur, uno dei tempi andati, con le braghe corte e l’innamorata con i capelli con le onde ad aspettarlo all’angolo. “Lei da domani non viene più”, sputò secco. Non risposi. “Mia madre non ha più bisogno di lei. Né di lei, né di sua sorella, né dei vostri gomitoli di lana e delle vostre riviste da signorine sciocche”. Io sempre zitta, figuriamoci, rispondere a un boxeur. Però pensai, pensai che il barbiere basso era tutto suo padre, a guardarlo con quella mezza ombra, ecco cosa pensai. E che di certo nei suoi calzini c’erano dei grossi buchi. “Non c’è problema”, gli risposi io. “A sua madre lo dice lei?”, aggiunsi.
“Bene, vedo che ha capito”, replicò lui, spostando il peso da una gamba all’altra, e poi ancora. Ti dà fastidio il calzino, eh? Boxeur?
“Perché vede…”, proseguì, con evidente desiderio di strafare, “…perché vede, va bene l’Intrufan che non si trovava, va bene le scatole che lei evidentemente si portava a casa. Chi di noi non è un po’ ladro, in fondo? Ma tutto quell’Aricell. Tutte quelle scatole di Aricell nascoste nel cassetto. Solo per capire, ma qualche volta glielo dava, a mio padre, oppure mai?”
Lo guardavo, e riuscivo a pensare solo alla Dama, alla sua vestina, ai suoi piedi nudi sottobosco mentre correva giù per la collina. Perché vede, boxeur, a tirare pugni e a non pensare mai, poi si finisce così. Si finisce che si trova una soluzione a un problema. Una, l’unica soluzione, ecco come la si definisce, a menar le mani, a pensare poco e a risparmiare sui calzini e sulle bustine da tè. Una, l’unica. Non si riesce a pensare, ad esempio, che i calzini non si rammendano e basta, a volte se ne creano di nuovi. Si tessono nuove tele, si inventano nuovi capi, e nuove vite, anche, volendo. Ma ci vogliono i telai, e di telai, sia lei che suo padre non è che ve ne intendeste tanto.
Ma non dissi niente, no. Io andavo via quel giorno, suo padre era andato via da tanti anni oramai, e la Dama, in quell’androne con la luce di lato e il marmo sporco a terra, la Dama, me lo sentii proprio nella pelle, anche lei ne avrebbe avuto per poco. Ancora qualche scatola, o poco più.
“Contava le bustine da tè, e allora io, piano piano, ho deciso. Cinque c’era scritto sopra. Cinque. E io una ogni cinque giorni gliene ho dato”, così mi aveva detto quel giorno, davanti alla pianta di basilico. “E ho deciso di aspettare, e basta. Ma quella mattina, poi, l’ho trovato in balcone. Tutto nudo, tranne i calzini e il cappello grigio in testa. Pisciava sulla mia pianta, e poi giù dal balcone. Pisciava come fossero anni che non pisciava. Pisciava sulla mia pianta di basilico, mentre io lo guardavo, con addosso solo la vestina, e a piedi scalzi, come quella notte. Era il mio basilicò, non potevo più aspettare. Ho atteso per tanti anni, ho atteso che si riparassero i telai e si aggiustassero i matrimoni, ma il mio basilicò, quello, su quello non ho potuto proprio aspettare”.
Aveva aspettato, la Dama, aveva aspettato paziente, senza fretta, che il tempo le ridesse qualcosa di suo, aveva aspettato, ma solo fino a un certo punto. Perché aspettare è importante, ma anche agire, a volte, non è male.

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