“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 28 March 2014 00:00

Garibaldi

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Mia moglie si lamenta.
Non tutte le mattine, alcune mattine sì, altre no, secondo me dipende da come ha dormito.
Ma si lamenta sempre, anche quando non lo dice. Del resto, lei non approva. Non sopporta, dice “questa puzza nauseabonda di cadavere”, dice proprio così.

Dice che la mattina dovrebbe odorare di caffè, di toast, di succo d’arancia fresco, di yogurt bianco con il muesli. Di fette biscottate che si tendono sotto la pressione del coltello che le imburra. Di radiogiornale e di musica classica. Di luce salata di mare che filtra dalle finestre.
Invece apre la porta della camera da letto, scende le scale, e appena varcata la porta della cucina il tanfo la assale. Così mi dice.
Tanfo. Che esagerata. Un po’ di odore di cucinato, è vero. Ma perché tanfo? Del resto, cosa altro posso fare? Dovrei usare solo scatolette? Le scatolette costano, e poi a Nerina non piacciono molto, lei lo sa. A Nerina piacciono le ali di pollo, belle grasse, con tutta la pelle rugosa di piume appena strappate. Al limite, qualche volta, ma qualche volta solamente, un po’ di pesce, ma sempre fresco, intendiamoci, e appena cucinato. A Nerina non piace il cucinato del giorno prima.
Mia moglie si lamenta.
Dice che arrivare in cucina di mattina presto ed essere accolta da questo tanfo la fa vomitare, e le manda di traverso l’intera giornata. Mia moglie è ancora bella. E giovane, nonostante gli anni che passano − che sono passati, per la precisione −. Ha voglia di fare, di uscire, di viaggiare.
Lei non capisce.
E poi, a essere sinceri, quello che per lei è mattina presto, per me è giorno inoltrato. Io sono sveglio da prima che l’alba sorga, quando fuori è ancora buio pesto. Ho sempre così tante cose da fare. Ci sono i primi giornali radio da sentire, il caffè da preparare, magari anche qualcosina da stirare del giorno prima.
Poi quelli mi aspettano, sono già pronti davanti al portone, tutti in fila: Mezzobaffo, Errante, il Principe, lo Sciancato, e Vagabonda.
Cinque. Sono cinque. Certo, per loro solo scatolette. Lo so, fa male, ma cos’altro potrei fare? Non posso mica divorziare. Mia moglie è così bella, e io la amo così tanto. E poi stiamo insieme da tanti anni. Come si fa?
Così gliel’ho spiegato, e loro hanno capito.
È lei che non capisce, non vuole capire. Si sente giovane, ha voglia di viaggiare, di scoprire.
Ma prima delle sei ho già finito tutto. Loro hanno mangiato, io ho ritirato i piattini e pulito il gradino di marmo. A volte sporcano. Se lei poi quando esce vede le tracce, capisce. Mi scopre. Ci scopre. Anche se non dice niente, so che non approva. Sappiamo che non approva.
Loro lo sanno. Sanno riconoscere anche il passo di chi scende le scale. Così, quando è lei, si nascondono sotto le macchine ferme sotto casa… Ma quando esco io… oh! Quando esco io! Sono così teneri, e attenti, e affettuosi.
Mezzobaffo tira fuori la testina, e mi saluta con l’unica vibrissa che gli è rimasta. Errante va avanti e indietro sul tettuccio, solo per farsi notare. Il Principe muove la coda secco, netto, con quel suo fare così elegante. Lo Sciancato, poverino, è già molto che ci faccia il regalo di trascinarsi qui davanti ogni mattina. E Vagabonda… Beh, Vagabonda non deve fare proprio niente, a lei basta apparire, per dare un senso alla giornata di chi la incontra.
Alle sei e mezza, massimo sette, vado al mercato, a comprare il pollo per Nerina. O il pesce, dipende. Loro sanno di Nerina, e non sono gelosi, anzi, l’hanno accettata di buon grado. Non sono come i figli, ingrati, petulanti, sempre pronti a battibeccare e puntualizzare su chi ha avuto cosa, e quando, e chi di meno, e chi di più.
Andare al mercato la mattina presto mi piace molto. A quell’ora le persone sono ancora molto poche, e si possono scambiare quattro chiacchiere con calma. Passo prima dal panificio, dove il proprietario dice subito alla ragazza “Concita! Il pane per il professore!”, così mentre poi mi fa lo scontrino ci diciamo qualcosa ancora: il caldo, se si prevede mare, se è già tempo di asparagi oppure no. Al mercato mi chiamano tutti il professore, anche se oramai sono in pensione da qualche anno. Proseguo il mio giro, e passo dal verduraio, e dal macellaio per Nerina.
Mia moglie non capisce. Dice che compro troppe cose, che porto a casa troppe cose da cucinare, che ormai siamo soli, siamo solo in due, e mi devo rassegnare. Lei è così bella. Vuole viaggiare, vuole vivere. Cosi mi ha detto l’altra mattina, vivere. Come se io non vivessi, ma sopravvivessi, o vegetassi, non so.
La verità è che lei odia Nerina. Ne sono sicuro. Dice che le graffia i mobili, che le rovina le poltrone, che si fa le unghie sul sofà. Che ora che io sono finalmente in pensione, e i figli grandi, lontani, con una loro vita, lei vuole viaggiare, uscire. Andare al cinema, a teatro. Andare a prendere un gelato.
Mia moglie non capisce. Io la amo. È così bella. E poi sono così tanti anni che stiamo insieme. Più di quaranta. La prima volta che l’ho vista è stato in quarta liceo. Lei era ripetente, e portava le calze nere e le zeppe. Io stavo al primo banco, e avevo le orecchie a sventola. Era così bella.
Ma non capisce. Non vuole capire. Non capisce che è finito tutto, che non esiste più niente. Che il partito è morto, che il mondo è morto. Che il mondo per cui ho lottato non esiste più. Quello per cui ho dato la vita, per cui ho scelto di sacrificare tutto, anche lei, e la nostra famiglia, non c’è più. Il partito, per cui ho dato tutto, è morto.
Ho educato i miei figli all’eguaglianza, alla giustizia sociale, alla verità. Li ho portati con me alle riunioni di partito, alle manifestazioni, agli attacchinaggi, a distribuire l’Unità in piazza la domenica. Li ho portati ai funerali di Enrico Berlinguer e alle catene umana per la chiusura delle basi militari. Li ho educati ad aiutare i compagni di classe meno fortunati, a dividere con loro libri e giocattoli. Li ho educati ad amare lo studio, e a fare sempre il proprio dovere... Li ho diplomati, laureati, specializzati, abilitati. Li ho educati a difendere i poveri, i più deboli, e ora che sono loro i poveri, i più deboli, non c’è nessuno che li può difendere, nemmeno io. Nemmeno io, che li devo vedere vagare per questo mondo precario, infelici, senza meta.
Ho insegnato per trent’anni, alle scuole medie e alle superiori, a ragazzi che a stento sapevano leggere, e al pomeriggio andavano ad aiutare il padre in pescheria. Ho trasmesso cultura, ho letto fiabe, ho raccontato loro di filosofia, ho sedato risse, ho calmato animi. Ho parlato di libri, e di eroi, di partigiani e uomini liberi. Ho spiegato davanti a loro i mondi passati, per prepararli ai mondi futuri.
E ora che il mondo futuro non esiste più, non so neanche io dove andare.
Ho consumato le scarpe, le suole, la voce, ho perso la voce in consigli comunali, in manifestazioni, assemblee pubbliche e comitati direttivi. Ho attaccato manifesti, distribuito volantini, diffuso quotidiani la domenica. Ho fatto comizi in piazze gremite, e ho parlato in piazze vuote. Ho rinunciato ad andare in vacanza, al cinema, a teatro, a cena fuori, a prendere un gelato, perché avevo da fare, perché c’era un futuro da preparare, un mondo migliore da costruire. Una rivoluzione da coltivare.
Un giorno è scomparso tutto. Non è stata una cosa improvvisa, ma un declino lento, uno stillicidio inesorabile, goccia a goccia. Hanno cominciato i compagni che occupavano qualche posto, che ricoprivano qualche carica, consigliere, assessore, onorevole, senatore. Piano piano sono spuntate le prime ville al mare, o i soggiorni all’estero “per imparare una lingua, sai, al giorno d’oggi è importante” per i loro figli.
I miei, di figli, i soggiorni estivi li hanno sempre fatti al mare qua vicino, ce li portavo io, da casa in città, mettendomi in coda con tutti gli altri, con appresso la bottiglia d’acqua del rubinetto e i panini con l’olio e il pomodoro.
Le sedi sono cambiate, i metri quadri sono diminuiti, e così le stanze e gli spazi e i mezzi. All’ultimo trasloco ci hanno rubato tutto, anche la stampante. E noi sempre a consumare suole, a portare bandiere, a discutere, analizzare, pianificare.
Loro, quelli delle cariche, hanno cominciato ad andare in vacanza al villaggio turistico “sai mia moglie com’è, del resto che male c’è?”, mentre io ancora in pullman, su e giù per l’Italia, con la schiena rotta e i piedi gonfi.
Un giorno mi sono guardato attorno, e non ho visto più nessuno. E allora ho capito che era finito tutto, che ero rimasto solo.
Mia moglie non capisce. Lei è così bella. Ma io sono così stanco. Ho vissuto mille vite, ho attraversato mille mondi, tutti possibili, nessuno realizzabile. Sono così stanco. Per questo ora ho bisogno di stare qui, con Nerina accoccolata sulle gambe, ad aspettare che le sue ali di pollo siano cotte, e che arrivi il momento di pulirgliele.
Perché a Nerina piace la pelle del pollo, con tutta la pelle rugosa di piume appena strappate, ma sono nell’acqua di cottura, per dare sapore. La carne, poi, preferisce mangiarla spellata.

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