“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 13 June 2013 02:00

Perché ricordare?

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“Guardate, guardate. Lo so cosa state guardando ma non vi preoccupate, non c’è cattiveria nei vostri sguardi: continuate a guardare. State tranquilli, non è colpa vostra: sono io”. L’ostentazione iniziale del corpo, posto da solo in ribalta e fasciato dalla luce di un faro centrale, mette in risalto l’eccesso di cute. Offerta di carne per un pasto immediato (“Tu sei come la coscia del pollo: dentro sei tutto morbido e fuori sei unto”), che sazi all’istante abituando – chi osserva – ai sapori, agli odori, alle abbondanze epidermiche e muscolari di questo cibo-in-forma-di-uomo offerto alla bulimia interessata della platea.

Cinica avvenenza da Ciprì-Maresco piuttosto che rabelaisiana forma tonda e gustosa, sembra indirizzare la recita subito verso uno scavo diretto e chiarissimo tra le pieghe e le piaghe di un corpo in eccesso: come potessimo setacciare e osservare il buio che si forma per le abbondanze del corpo, sfiorando (con lo sguardo, che è il nostro tatto) l’ombra sporca formata dal ventre o le linee nere che si nascondono tra un gonfiore e un gonfiore, tra il grasso ed il grasso. Verrebbe voglia di sperare in una cattiveria drammaturgica che sappia di realismo tangibile, verrebbe voglia di sperare in un sacrificio votivo dell’interprete al tema dei chili perché sia capito – da chi non ha chili oltre i propri chili corretti – quanto pesa questo peso che pesa.
Verrebbe voglia di un’autopsia puramente teatrale perché comunichi con tutta l’evidenza possibile il referto della condizione prescelta come argomento di trama e spettacolo. 
Invece 248 KG rinuncia, di fatto, alla sua consistenza carnale nel breve volgere di qualche secondo per diventare frammento memoriale, sequenza d’immagini trascorse da tempo, recupero e riporto e confessione di quando l’inizio della disfatta si è mostrato chiarissimo. Ne viene, quindi, che non sono i 248 KG ad essere posti sul palco bensì il momento, l’occasione, la giornata in cui l’amara evidenza dei fatti (la stazza come fardello dell’anima e come oggetto di recriminazioni, vergogne, timidezze, di inadeguatezze, soprusi, violenze) si manifesta con crudeltà veritiera, lancinante, irrimediabile.
È della prima sconfitta che tratta 248 KG o meglio: è della prima percezione di sé come individuo che non sta bene nel mondo e con gli altri e che – al mondo degli altri – deve cedere patendo e piangendo, chinando un po’ il capo.
Così ci s’inventa (scandendolo con un timer) un lontano giorno scolastico, da prima infanzia, nel quale il paffuto Benno avvicina e conosce, conosce e frequenta, frequenta e diverte la bella Giuditta finché, la bella Giuditta, non comprende la pochezza di Benno medesimo (la sua incapacità nel fare la cavallina, la sua natura di “pollo grandissimo”, finanche la mancanza di denari da spendere) preferendogli – in una sorta di vocazione naturale femminea ad offrirsi al più forte – il nonno di lui: “Il nonno non ha saputo resistere ma tu hai tutto il tempo di prendere le cose più belle” dirà il vegliardo al nipote, cui ha sottratto il suo primo boccone.
Diremmo che si tratta della storia di un Lui, di una Lei e di un Altro modificata – per l’occasione – in un’agra vicenda precoce di mortificazione e di perdita. E se può convincere in parte il tentativo di universalizzare la deficienza presunta (nel caso la grassezza ma – la grassezza – è differenza che genera disabilità indotta o effettiva e vale quanto vale ciò che genera segregazione o allontanamento e condanna: il nome o il cognome; il colore della pelle; la religione praticata; il luogo di nascita; la condizione economica; l’appartenenza ad un genere diverso dal genere che decide e che domina; l’appartenenza al genere che è trans-genere tra i generi codificati), va anche detto con pari chiarezza che a non convincere sono certe fragilità della trama, che risulta fin troppo consueta nella sua struttura circolare e nella conformazione di un monologo come insieme ricordato di dialoghi e fin troppo scontata in sue certe espressioni di contenuto o di forma: si pensi – solo per fare un esempio – alle concordanze volontariamente mancate: “ti devi concentrare tantissima”, “un tesoro grandissima”, “io ero una principessa bellissimo”. Parimenti – a non convincere ancora – è certa pochezza puramente visiva, per evitare la quale non basta il frammento finale, l’unico dotato di vera originalità compositiva: un Benno disfatto e accucciato, pronto a bere da una ciotola il miscuglio di uova crude e di cocci di bicchieri distrutti, come ingoiasse la propria stessa natura, la propria stessa fragilità ridotta in poltiglia.
Ed infatti, ad un’analisi a freddo, la messinscena si ricorda come un insieme di scrittura che deve crescere e maturare, unita a consuetudini teatrali ormai di maniera: il travestitismo evidente, l’utilizzo dell’illuminotecnica per separare presente e passato, l’interazione allusa e momentanea col pubblico.
Preferendo al “Lo so, io faccio schifo, eppure il mondo mi tollera” (battuta che lasciava presagire l’investigazione di questa intolleranza subita, di questa condizione patita) il “Devo ricordare”, 248 KG si allinea a troppo teatro già visto, perdendo la sfida di raccontare davvero – e davvero con il coraggio della crudeltà che sarebbe servito – la “Storia di un ciccione. Un ciccione che fa schifo, che schiaccia nelle mani le uova. Un essere tondo, paffuto, unto. Una cosa umana di cui avere pietà” (dalle note di regia) confezionando, al suo posto, soltanto la rivista versione del tema, socialmente atavico, del “capro espiatorio” nella forma, teatralmente atavica, dell’amante impotente e deriso per la propria bruttura.
“Sapete cosa significa trattenere il respiro per un tempo lungo, lunghissimo?”, questo chiede l'interprete, ad un punto, riferendosi alla possibilità di apparire più magro. No, non lo sappiamo, ma avremmo voluto saperlo.
Avremmo voluto saperlo ma nessuno ce lo ha raccontato davvero.  

 

 

 

 

Fringe E45
248 KG
regia Sebastiano Di Guardo
drammaturgia Tommaso Di Dio
con Angelo Abela, Marco Pisano, Eugenio Vaccaro
produzione Compagnia Esiba Teatro-Esiba Arte
durata 55'
Napoli, Ridotto/Teatro Mercadante, 11 giugno 2013
in scena 10 e 11 giugno 2013

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