“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 21 November 2019 00:00

Poco fumo ma tanto Orson in questo “Welles’ Roast”

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È sempre un piacere ritrovare sul palco Battiston, oltre che sul grande schermo (che, in realtà, non fa che penalizzarlo), che sia Danton per Martone o Churchill per Rota. Scritto a quattro mani col regista, Michele De Vita Conti, stavolta sceglie di mettere le sue carni a disposizione di un’altra incarnazione, complice la suggestione d’un physique du rôle ma, più probabilmente, un’affinità elettiva e caratteriale verso un artista stabordante e incontenibile: quell’Orson Welles la cui impronta ha lasciato un segno indelebile in tutte le arti con cui ha intrecciato il suo cammino.

Ammainato come fosse una vela in un accappatoio bianco (come il Marlon Brando degli ultimi tempi), il duo Battiston/De Vita Conti fa propria la lezione di Eco ne Il pensiero lombare, quando il prof di semantica rievoca le “pelandrane di Erasmo”, perché “l’intellettuale [...] quando si ritira a pensare si pavoneggia astutamente in ricche vestaglie, o liberi camicioni drolatiques alla Balzac. Il pensiero aborre la calzamaglia”). Battiston, donc, presta il suo corpo, le sue fattezze e la voce ansimante per meglio riportarci il monologo di quello che è, a tutt’oggi, ancora considerato il regista del migliore di tutti i film, Quarto potere.
Solo sul palco, con oggetti di scena sottratti dal fuoriscena di un set, Battiston/Welles, infagottato, annaspa, spadroneggiando, prendendosi tutto il suo tempo per sgranare, come in un rosario, gli episodi di una carriera vissuta all’insegna dell’iperbole. Le parole, impastoiate da un italiano smangiucchiato, storpiato da un distorto accento americanizzante, vengono sbuffate via insieme alle volute del fumo di un sigaro, rovesciandosi, sul suo viso, inghirlandato da una barba leggermente imbiancata, e sugli spettatori, come incenso da un turibolo. Non fa mistero, infatti, del suo scopo, che è quello di autoincensare se stesso, stilare un bilancio e, di quando in quando, accasciarsi, ammettendo i tiri bassi del destino e i rovesci di un sistema imperfetto (la produzione cinematografica in cui i mecenati illuminati difettano) abbracciando (in un abbraccio oceanico), con fatalismo, le occasioni mancate e i treni persi. Come un gigantesco ragno nella sua tela, Welles/Battiston (cui quest’interpretazione è valsa l'incoronamento dell'Ubu, il Premio Olimpico del Teatro come miglior interprete di monologo e il Premio Hystrio di Mantova, dieci anni fa), ci sciorina gli alti e bassi della sua vita, dispensando consigli non richiesti e lanciando invettive come fossero strali, intinti nella pungente e brillante ironia. Ha il passo pesante, negli stivali da domatore sconfitto di se stesso che lo fasciano, mentre calca le assi del palco, come un vecchio leone in gabbia, rievocando, in un lungo andirivieni tortuoso, una vita costellata di meraviglie. Dal battesimo lustrale al teatro shakespeariano inglese, dove già Welles si distingue per la beffardaggine e le capacità sbruffona di venditore di fumo. Specie quando sotto quel fumo (di sigaro) c’è lui stesso. Sì, perché l’arrosto del titolo del monologo si riferisce a se stesso. In questa serata d’onore, infatti, cuoco e piatto forte sono fatti della stessa materia. Battiston procede, quindi, alla sua stessa autovivisezione, mettendosi sulla graticola e facendosi rosolare a puntino, selezionando i pezzi più prelibati da servirci, fino al filet mignon (il suo sogno nel cassetto: la magia) guarniti dalla salsa roquefort del suo affabulante florilegio. Il Welles che esce da questo ritratto è un uomo rinascimentale eppure novecentesco che ha aggredito il suo secolo, domandaolo e cavalcandolo, sotto il suo imponente peso, sfruttandone le debolezze incipienti in un modo che nessuno aveva fatto mai prima. Perché Welles è stato all’avanguardia, facendo da apripista, tracciando, in modo disinvolto, nuovi sentieri in tutto quanto ha toccato. O almeno così dice. Dal teatro, con una compagnia di duecento attori di colore, a Broadway, prima ancora della seconda guerra mondiale: il Voodoo Macbeth. Il talento eclettico di Welles verrà tradito da vari indizi: dall’aderenza completa coi personaggi che intendeva incarnare (complice anche il suo esser versato al ricorso del travestitismo), fino alle minuzie fisiognomiche. È stato il secolo, sono state le arti a doversi adeguare a Welles, dopo le sue smargiassate e i suoi mirabolanti coup de théâtre, a fare i conti con l’impronta che ha impresso, poderosa, ovunque sia passato, e alla lunga ombra, che ancora proietta su di noi. Forse è stato fra i primi a intravedere come i media avrebbero influenzato l’uomo, rendendolo massa, riportandolo alla sua natura più primitiva e istintuale, instupidendolo. Lo ha fatto prima con la radio (richiestissimo da due emittenti contemporaneamente, al punto che doveva fare la spola da una parte all’altra di New York, a bordo d’un’autoambulanza per ridurre i tempi) dove, versatile come pochi, ha rivolto la suggestione del pubblico contro se stesso, mostrandogli la propria vulnerabilità, e l’alto costo di abdicare a un’autorità esterna, presuntamente superiore, falsamente paternalista, il proprio spirito critico. Col filtro magico del teatro, che è anche il filtro magico della messa in scena cinematografica, che, grazie alla radio, sfruttò il filtro magico del suo timbro vocale, Welles/Battiston/Welles, indusse a credere mezza America che i marziani erano sbarcati. Battiston ce lo rappresenta con un un volteggio di luci di scena e, infilzando una malcapitata melanzana dipinge sullo sfondo l’ombra di un (quasi) tripode alieno. Perché sotto l’apparente pinguedine di un corpo imbolsito da istinti voraci e disinibizione pulsionale, senza freni e senza misura, serpeggia, come una tigre sotto la cute, un impeto ruggente, e che si avventa, quando si ridesta, di volta in volta sul pubblico, dal quale Welles si considera accantonato se non semi-dimenticato, sulla critica, che non sempre l’ha compreso, e i suoi produttori, che l’hanno lusingato e lambito ma raramente aperto i cordoni della borsa per consentirgli di giganteggiare come meritava.
E così, il Welles/Battiston ci autonarra, per interposto alter ego, come ha accettato i più sfibranti camei, in grado di sovvertire le sorti del più becero dei B-movie, ottemperando sempre con puntualità incombenze e oneri di quel sistema produttivo cui il media cinema fa capo (Hollywood), al cui asservimento, alla fine, anche lui ha dovuto chinare la testa, in una lenta eclissi. Ma, come era uso fare lo stesso De Sica nostrano, quei soldi gli servivano (oltre che per soddisfare la sua, è proprio il caso di dirlo, pantagruelica joie de vivre) per finanziare i suoi progetti, ironia della sorte, proprio quelli cui, spesso, sarebbe toccato di rimanere incompiuti. Perché Welles era un perfezionista e un enfant prodige, e come tutti i maledetti, gli è toccato di toccare il cielo con un dito anzitempo, e così la sua parabola discendente è cominciata prima, e il suo declino, come un Icaro scacciato dal Parnaso, altrettanto inevitabile di tantri altri, ma solo più lungo, perché più in alto ci si spinge, più lentamente si cade. Welles ha forzato i limiti del medium, il cui potenziale ha contribuito a sviluppare come nessun altro mai prima, oltre l’inimmaginabile, spingendolo oltre le Colonne d'Ercole. “Over there”, come ripete all’ossessione, Welles/Battiston.
“Over there” è il suo baricentro ombelicale.
“Over there” ha portato la gittata dei mass media e l’influenza sulle persone.
“Over there” ha portato l’arte del cinema, spingendo la camera e l’obiettivo laddove nessuno aveva mai osato (sfondando pavimenti, o svicolando in lunghi e sinuosi pianisequenza: ancora fuliminante resta l'inizio de L’infernale Quinlan). Nessuno, se non l’Hitchcock di Nodo alla gola (di cui ricorre l'anniversario) il quale, per andare anche lui, over there, la censura, doveva trovare nuovi punti di ripresa.
Ma questo over there ha esatto uno scotto pesantissimo, e gli ultimi anni sono stati, per Welles, un bom retiro. Anni di languido indulgere, fra set europei e filmacci, fra baccanali a oltranza e progetti personali su cui il talento di un ormai cetaceo Orson Welles si è scagliato per poi spiaggiarsi senza un filo di vento che lo facesse più solcare verso i lidi cui al suo sguardo non restava altro che spingersi ad accarezzare. Con gli occhi gonfi di immalinconito rimpianto, con la sensazione bruciante del tempo che gli sfuggiva fra le tozze dita, incenerendosi come uno dei suoi sigari, Battiston ci dipinge un Welles/Ulisse arenato su se stesso, con sulle labbra irrigidite a bofonchiare un ultimo “Over there”, quello estremo, verso il quale non ci è dato seguirlo.
Riposa in Andalusia, Welles, sotto un albero fronzuto, nella residenza d’un amico torero. Ma di lui ancora si parla, e continuerà a parlarsene. È stato l’ultimo trucco dell’ultimo grande mago che ha incantato tutti imbastendo e allestendo il suo stesso mito, vendendolo e, in qualche modo, soccombendovi, come tutte le grandi creazioni, finendo per sopraffare il suo stesso creatore. Questo Welles/Battiston, Creatura, soccombente come nel libro di Bernard, del suo stesso artefice/Frankstein. Grottescamente non gli resta che irridere la sua sorte, minotauro perso nel labirinto che si è eretto da sé, prigioniero kafkiano (come nel suo Processo) di una realtà non sense assoggettato al suo stesso carceriere: non il sistema che ha, in Quarto potere, pubblicamente denudato, ma se stesso, vittima delle sue, troppo audaci per il proprio tempo, scelte. Eppure, ancora, non si addomestica ma, al contrario, nell’interpretazione viscerale di Battiston, ri-vive, vibrando di smania creativa e voglia di generare e incantare il pubblico e se stesso. In un gioco metateatrale e intergenerazionale, Welles avrebbe molto apprezzato che la sua vita finisse per esser immortalata in uno spettacolo teatrale con incursioni magiche, innaffiato di fumo, alcool e cibo, senza mai prender sul serio un mondo ridicolo nella sua miopia pragmatica di dover tutto ridurre a colonne di entrate e uscite, razionale di quella ragion pratica, ma irragionevole nel non saper riconoscere qualcosa di non incasellabile nella sua smisurata irruenza, come il talento puro.





Orson Welles’ Roast
scritto da
Giuseppe Battiston, Michele De Vita Conti
regia Michele De Vita Conti
con Giuseppe Battiston
luci Andrea Violato
musiche originali Riccardo Sala
produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Teatro Nuovo, 14 novembre 2019
in scena dal 14 al 17 novembre 2019

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