Teatro La ribalta di legno
«Le quinte di stoffa con le porte in rilievo, le finestre di vetro dipinto, i vasi coi fiori di carta. In alto una lampada faceva da giorno mentre la notte veniva con la parola “notte”. In terra, una botola, dalla ribalta portava sul retro, dov’erano pronti gli attori».
"Maratona" Bausch al San Carlo di Napoli
Written by Andrea Arionte - Simona PerrellaPer ricordare il quarto anniversario della scomparsa della fondatrice, il Tanztheater Wuppertal Pina Baush è tornato in Italia, tra giugno e luglio, con una tappa al Teatro Petruzzelli di Bari (nella quale si è esibito in Sweet Mambo) ed una al San Carlo di Napoli, ove ha proposto nel medesimo spettacolo due tra i suoi più noti lavori coreografici: Café Muller e La sagra della primavera, classici della danza contemporanea del Novecento, pietre miliari in quell’universo autoriale, definito da molti “bauschiano”, che è il teatro-danza.
I due titoli portati in scena sullo storico e regale palcoscenico partenopeo, nonostante la diversa fisionomia (il primo più teatrale ed il secondo più tecnico e dinamico), mostrano l’ideale espressivo ed il linguaggio quotidiano del corpo che contraddistinguono ed accomunano tutte le opere firmate dalla grande coreografa e che catturano il pubblico per la forte emozionalità.
- Pina Bausch
- Cafè Müller
- Henry Purcell
- Rolf Borzik
- Igor Stravinskij
- Marion Cito
- Hans Pop
- Tanztheater Wuppertal
- La Sagra della Privamera
- Teatro San Carlo
- Stagione di balletto
- teatrodanza
- Helena Pikon
- Vaslav Nijinskij
- Le Sacre du Printemps
- Martha Graham
- Bill T Jones
- Maurice Bèjart
- Hans van Manen
- Dominique Mercy
- Barbara Kaufmann
- Pablo Aran Gimeno
- Rainer Behr
- Andrey Berezin
Bacoli, Cast Cafè, una serata non troppo calda, una bellissima falce di luna che fa capolino tra le aperture del telone di copertura, atmosfera simpatica, bevande corroboranti, sentore di vacanze, di allegria. Complice l’arrivo troppo puntuale, scegliamo un tavolino, non troppo laterale, sì da vedere lo spettacolo e intanto godere della piacevolezza del luogo, carico di secoli di ameno godimento.
I miei ricordi si confondono nel racconto di un adolescente che è ormai un uomo. L’attesa nel giardino del Real Orto Botanico non è così stressante come avviene di solito, mentre si attende qualcosa o qualcuno. Il buffet servito era composto di zeppole fritte (paste cresciute) e vino rosso con frutti di stagione tagliuzzati, immersi in questo liquido rosso come il sangue che scalda lo stomaco e provoca eccitazione.
Un brivido di antichità: Eros e Thanatos all'Orto Botanico
Written by Simona PerrellaCome ritrovarsi nello splendido Real Orto Botanico di Napoli e guardare, seduti ad un tavolino gustando del buon vino, quattro donne ed un uomo che si domandano cosa ci fanno al funerale del loro amante. È la cornice dello spettacolo di Ciro Sabatino, in scena nuovamente il 10 luglio 2013.
La verzura rasserenante dell’Orto Botanico accoglie, mentre il giorno digrada verso la penombra dell’imbrunire, avvolgendo d’un senso di quiete; si attraversa il giardino sconfinato e ci si arresta dinanzi ad un portone in attesa di schiudersi sul cortile che alloggia il palco. Prima d’accedervi, ad ogni spettatore è chiesto di far la propria parte e di vergar di proprio pugno una parola, una frase, un’idea che possa fungere da spunto a chi di lì a poco salirà in ribalta; quando ci si accomoda in platea, in un angolo del palco giace una boccia di vetro gonfia di foglietti piegati, che recano impressi soggetti per microdrammaturgie potenziali, frutto dell'inventiva del pubblico; ma, come nella corsa degli spermatozoi alla fecondazione dell’ovulo, solo pochi giungeranno a destinazione, vedendo prender forma e fattezze compiute al proprio gene.
“Mentre Macondo celebrava la conquista dei ricordi, Josè Arcadio Buendìa e Melquìades scossero la polvere della loro vecchia amicizia. Lo zingaro veniva deciso a restare nel villaggio. Era stato nella morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la solitudine. Ripudiato dalla sua tribù, privato di ogni facoltà soprannaturale come castigo per la sua fedeltà alla vita, decise di rifugiarsi in quell’angolo del mondo non ancora scoperto dalla morte, e di dedicarsi alla gestione di un laboratorio di dagherrotipia”.
G. G. Màrquez, Cent’anni di solitudine
Nello scenario suggestivo dell’Orto Botanico di Napoli un superlativo Paolo Cresta, nei panni di José Arcadio Buendía, ci getta nella sfera di un mondo immaginario collegandolo all’idea nietzschiana dell’eterno ritorno dell’identico. Una ripetizione che si configura come desiderio di potenza e autonomia.
La prima sensazione è che “guardare”, “vedere”, “fissare”, “spiare”, “scrutare”, “osservare” ed altri sinonimi non siano adatti ad Alto Fest, rassegna immaginata e prodotta da TeatrInGestAzione e resa possibile – oltre che da sponsor privati – da volontari e donatori di spazi.
La Sala Performance si raggiunge abbastanza facilmente. Attendiamo pochi minuti sotto il portone, il tempo di essere tutti, il tempo di non essere in tredici e comunque c’è Sabrina ad attenderci, dicono, una garanzia, immaginiamo. Ultimo piano di un palazzo antico, non troppo alto. Lasciamo il superfluo all’ingresso e ci accomodiamo, passando attraverso il sipario, la spessa tenda di broccato color ocra che copre la porta di accesso alla sala vera e propria, dove si svolgerà la breve performance.
La parete di fondo nuda e annerita, con qualche macchia di bianco da pittura scrostata. L’assenza di quinte che permette la vista degli ingressi di lato. Certi lembi di legname da catasto o da vecchia scena in disuso. Una sedia a dondolo servita per chissà quale trama che prevedesse, in chissà quale tempo, una sedia a dondolo identica a questa. Un grosso lampadario di lumini e di luci che cala e che inclina. Assi di legno chiodate tra loro, cordame a vista, gangli e ganci a forma di esse che serviranno durante quest’opera. A destra e sinistra residui di vecchie locandine di spettacoli passati e già morti. Rumori fuori scena che alludono alla costruzione/distruzione di questo luogo di legno e di stoffe in cui, tutto questo falso, diventa “sacrosantamente vero” (martelli che battono, il cigolio di piccole rotelle ferrose, lo stridio di una sega). Una tinozza d’alluminio; un’altra più grande, di legno più chiaro. Un parato di “finto gocciolame” che serve per far scrosciare dell’acqua.
- L'anima buona di Lucignolo
- Claudio B Lauri
- luca saccoia
- Enzo Attanasio
- Mario Zinno
- Luca Toller
- Carmine Branchi
- Francesco Gallo
- FRancesco Felaco
- Gina Oliva
- Nerosesamo
- Benevento Città Spettacolo
- circo
- metafora teatrale
- Fringe E45
- Teatro Sannazaro
- Pinocchio
- Lucignolo
- L'omino di burro
- Carlo Collodi
- Il paese dei balocchi
- Fiordispina
L'ultimo spettacolo dell'ultimo giorno di Festival è un focus sull'Africa, sugli ultimi del mondo, su quella fetta di mondo vessata dagli interessi egemoni dei potenti, che schiacciano in una morsa di sorda sopraffazione le istanze di crescita di quei popoli che hanno dovuto patire l'ingiuria del colonialismo e delle sue derive parossistiche.
- Une nuit à la Présidence
- JeanLouis Martinelli
- Aminata Traoré
- politiche coloniali
- sfruttamento del terzo mondo
- Africa
- Ray Léma
- Adama Koné
- Bil Aka Kora
- Malou Christiane Bambara
- Jeannette Gomis
- Nongodo Ouedraogo
- Yiomama H Lougine
- Napoli Teatro Festival
- Institut français Napoli
- Thomas Sankara
- Fondazione Campania dei Festival
Giro, giro tondo. Forse la vita che stiamo vivendo è soltanto una prova, il terreno di allenamento per un’altra vita in cui partiremo da tutto quello che abbiamo imparato in questa. È un pensiero che dà le vertigini e fa girare la testa. Lo spettacolo gira e, così come inizia, finisce. Gira la poltrona di Irina spinta da tutte le sorelle. Girano anche quelle. Gira il Teatro Senza Fissa Dimora che arriva a Napoli e ci fa sedere tutti giù sui sedili del Ridotto del Mercadante. Il testo di Anton Čechov ha girato a lungo in centrifuga e come il nome del teatro ne è uscito ridotto: un solo atto, tre sole attrici, che interpretano le tre sorelle del titolo, Irina, Maša e Olga e i fantasmi degli altri personaggi.
Il giorno della fine non ti servirà l'inglese: C’è Shakespeare in queste Lacrime napulitane
Written by Floriana Fiorellino
“Tutto il mondo è teatro e tutti gli uomini e le donne nient’altro che attori”
(W. Shakespeare, As you like it)
Mentre la curiosità di un intero pubblico teatrale viene completamente assorbita dalla “Rassegna Teatrale Italiana. Partenope” e frotte di spettatori si affannano per accaparrarsi le ultime salatissime poltrone di costose e roboanti produzioni, chi da sempre è solito mettere l’arte in scena fuori dalle programmazioni di cartellone − e ad avventurarsi per inediti sentieri pur all’interno di materiali tradizionali − continua a farlo, e a farlo anche bene.
Shakespeare è l’autore più saccheggiato dalle compagnie teatrali, solamente il suo Amleto è stato portato sulle scene in tutte le varianti possibili grazie alla fantasia e all’estro di registi di ogni tempo. Chi scrive ha perso il conto di quanti Amleto ha visto negli anni, dalla versione classica alla parodia passando per la tragedia noir-gotica.
Un uomo è due persone: se stesso e
il suo cazzo.
Baryl Bainbridge
Cabaret, happening, drammaturgia recitata con mascheramento consapevole e con intersezioni musicali, interazione diretta col pubblico, fintate sbadataggini di dialetto o d’azione, relazione dichiarata e volutamente grottesca con il tecnico dei suoni o con quello delle luci (“curioso: chiamo il musico per le musiche e mi risponde il luciaio per le luci”): Monologhi del caxxo di Compagnia baby gang è un serioso tentativo vivace che – fondendo pantomima di trama a pantomima in apparenza improvvisa e spontanea – mira a fare eco o richiamo dei Monologhi della vagina di Eve Ensler. Vi riesce davvero?
“Corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure”. Italo Calvino, Le città invisibili. È Raissa, la città infelice che contiene, inconsapevolmente, la città felice.
FragileFrana si presenta come la messa in scena dei racconti residui di un romanzo non scritto. Narrazione per immagini in cui il gesto prescinde dalla parola. La parola è puro suono, si confonde con lo scrosciare di acqua o col crepitio di fuoco. È il regno del gesto. Il gesto consapevole, il gesto misurato e controllato. Il gesto puro. Il gesto in sé, che assurge ad apoteosi di se stesso, fosse pure uno starnuto.
La premessa è “Provare a non rimettere subito in ordine. Provare a non ricostruire ciò che c’era. Lasciarsi franare, chiudere gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca, per fermarsi a considerare quello che stiamo vedendo e vivendo”. Bene. Seguiamo il flusso, seguiamo il respiro, inseguiamo le immagini.