“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Caterina Serena Martucci

Vulnus della memoria

Si dice che il tempo guarisca le ferite, ma ci sono ferite che il tempo non rimargina, forse proprio perché hanno a che fare con il tempo, quello che è passato, il nostro passato, la storia.
Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) si sta aprendo ad una presenza tentacolare sul territorio, integrando gli aspetti della fruizione e della tutela con la comunicazione con le altre forze intellettualmente produttive. Il 14 e 15 novembre ha ospitato un seminario internazionale di studi, durato due giorni, organizzato insieme all’Università degli Studi di Napoli Federico II e accreditato dall’Ordine degli avvocati di Napoli, dedicato al traffico illecito e alla distruzione dei beni culturali: Archeologia ferita. Lotta al traffico illecito e alla distruzione dei beni culturali.

La guerra. Sempre uguale

Valery Fokin e Nikolay Roshchin hanno scelto programmaticamente una dimensione marcatamente metateatrale per mettere in scena il dramma eterno della guerra immanente nelle Troiane di Euripide. Lo spettatore trova il sipario già aperto su uno scenario bellico dal sapore post-moderno. Un lungo e stretto tavolo rettangolare, coperto da una tovaglia bianca, occupa il proscenio. Dietro si vedono sedici sedie, nere, vuote. Sul tavolo bottiglie di vino, bicchieri a calice e piatti, neri anch’essi. Neri sono anche i quattro soldati che pattugliano la scena. Sembrano vestiti da squadra SWAT: casco nero, occhiali da sole, auricolare, mitra.

Rock etnografico

Enzo Gragnaniello entra in scena con semplicità, solleva il cappello in segno di saluto e comincia a suonare. Comincia la magia. Comincia l’incanto delle note. Parte la recitazione di un mantra, Neapolis Mantra, fatto dei suoni di questa città, della sua storia, della sua profondità, del suo mare, delle sue radici tentacolari, legate da sottili fili e robuste corde al mare delle sponde opposte.

Nomos/Pietas: l’eterno conflitto tragico

Il Teatro dell’Osso, mi si conceda il bisticcio linguistico, attinge ad una fonte primaria del mito e del teatro, l’Antigone di Sofocle, per denudare fino all’osso la problematica eterna del conflitto che oppone, da sempre la polis, ovvero la dimensione politica del cittadino, alla pietas, la devozione, la dimensione privata, personale, religiosa dello stesso.

Genio e follia: livido ritratto a tutto tondo

A sipario chiuso il buio della sala è percorso da clangori metallici, come di cardini che stridono, porte che si aprono o si chiudono. All’apertura della tela una livida luce illumina fredda una complessa struttura metallica semicircolare: è una cancellata con delle sbarre che contiene al suo interno una struttura più piccola, cilindrica, nella quale si vede sospeso un tavolaccio, a mezz’aria, sul quale dondola adagiato un corpo, apparentemente esanime. Sulla destra si vede un carretto che funge da altare devozionale, coperto di lampade e candele e ospitante una statuetta della Madonna dell’Annunziata.

Puri e cresciuti

Facile dire teatro per bambini. Come se i bambini fossero delle creature facilmente accontentabili, per i quali è sufficiente imbastire una storiella, mettere qualche costume scenografico, due musichette accattivanti e il gioco è fatto. No. Fare teatro per i bambini è una operazione estremamente complessa, impegnativa, molto più impegnativa, per certi versi, del teatro destinato al pubblico adulto, soprattutto se colto. Gli adulti, generalmente, vedono con le orecchie e apprezzano ciò che ritengono socialmente utile apprezzare, motivo della fortuna di tanta sedicente sperimentazione fine a se stessa.

Illusioni ottiche

In un raffinato gioco di specchi e rimandi Mirko Di Martino propone tre brevi atti unici, della durata di circa venti minuti ciascuno in cui due attori, un uomo e una donna, danno vita alle illusioni e alle nevrosi di sei personaggi in altrettante situazioni narrative minimali, in cui si viene immessi in medias res, in cui ciò che si vede non corrisponde a ciò che è, proprio come le illusioni cognitivo-geometriche, in cui l’occhio vede qualcosa che non c’è o lo percepisce in maniera differente da com’è in realtà a seconda della prospettiva da cui si guarda.

Se ne va. Tutto come sempre

Delicate e malinconiche note di pianoforte echeggiano nella sala ancora buia, mentre la luce filtra sotto l’orlo del sipario che si apre su un interno elegante, col pavimento di legno. Le pareti sono celeste polvere, con modanature di legno e delicate decorazioni geometriche bianche. Quel quadrato di parquet individua lo spazio scenico, lo delimita, rappresenta la traccia delle pareti invisibili che racchiudono la scatola, il microcosmo del dramma.

Il fascino perverso dell'onestà

Correva l’anno 1917 quando fu scritto e rappresentato per la prima volta Il piacere dell’onestà.La versione proposta da Antonio Calenda è la stessa di cento anni fa, anche se i tre atti sono condensati di un due, di lunghezza disuguale, scanditi da cambi di luce e dal risuonare di languide note di tango contemporaneo. Le tematiche sono quelle canoniche dell’autore: il decoro vuoto, già allora, della società borghese, regolamentata dalle ipocrisie e dalle forme convenzionali; la differenza tra l’essere e l’apparire; tra la maschera e ciò che si è veramente; il contrasto tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere; la maternità come valore e condizione assoluta della donna, che fagocita qualsiasi altro ruolo o aspettativa della donna.

La magia eterna del Natale e della parola

Festoni e luminarie natalizie decorano l’ingresso e le sale de Il Pozzo e il Pendolo. Nell’aria echeggiano discrete e festose le note di Christmas Carols e un lungo tavolo ospita dolci natalizi, mandaranci, noci, bricchi di cioccolata calda e vin brulé, predisponendo benignamente lo spettatore al godimento di una antica favola che parla di un vecchio avaro, ma forse in realtà di ciascuno di noi, se riflettiamo sulla metanoia del protagonista e sul fatto che ciascuno può riscoprire la vertigine di riavvicinarsi alla sorgente della propria essenza, a ciò che si era, sepolto magari sotto gli strati di ciò che le circostanze della vita hanno condotto a diventare.

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il Pickwick

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