“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 11 November 2019 00:00

Un secolo di cinema tedesco

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Analizzare il cinema tedesco è sicuramente complesso sia per questioni storiche – il Paese è passato dalla Germania guglielmina, alla Repubblica di Weimar, al periodo nazista, alla divisione nel dopoguerra per poi riunificarsi – che per il costante mutare del rapporto che tale cinematografia ha avuto con il pubblico nazionale e con quello internazionale. Inoltre, altro elemento da non sottovalutare è la particolare relazione che tale produzione cinematografica ha avuto con le altre arti e gli altri media.

Leonardo Quaresima, tra i maggiori conoscitori italiani di cinematografia tedesca, ha da poco curato il libro Cinema tedesco: i film (Mimesis, 2019). Si tratta di un importante volume che, attraverso una selezione ragionata di opere, ne ripercorre la storia che ha le sue tappe principali nel “cinema d’autore” degli anni Dieci, nell’epoca weimariana caratterizzata dal linguaggio espressionista, nelle produzioni del periodo nazista, nelle opere dell’immediato dopoguerra, nell’ondata del Neuer Deutscher Film e nelle realizzazioni degli ultimi decenni.
A proposito della cinematografia tedesca precedente l’avvento del nazismo, Quaresima ricorda in apertura di volume come vi siano due studi che hanno segnato profondamente tutta la storiografia successiva: Da Caligari a Hitler di Siegfried Kracauer, pubblicato negli Stati Uniti nel 1947, opera che  intendeva ripercorre l’evoluzione “psicologica” del cinema tedesco tra le due guerre, e Lo schermo demoniaco di Lotte Eisner, uscito in Francia nel 1952, caratterizzato, invece, da un’impostazione di tipo estetico.
Il volume curato da Quaresima si affida a contributi di studiosi italiani di diversa formazione, dunque opta  per un punto di vista “plurale” ed “esterno”, prestando particolare attenzione al rapporto tra il cinema tedesco e gli altri ambiti artistici e mediali. Viene dunque analizzata l’evoluzione formale che contraddistingue tale produzione cinematografica all’interno del succedersi delle importanti trasformazioni che hanno segnato la storia del Paese. Le opere selezionate sono però indagate con l’intenzione di allargare la prospettiva ben oltre i singoli casi da parte di studiosi e studiose come: Paolo Bertetto, Francesco Bono, Lorella Bosco, Sonia Campanini, Simone Costagli, Giulia A. Disanto, Luisella Farinotti, Antioco Floris, Matteo Galli, Massimo Locatelli, Francesco Pitassio, Luigi Reitani, Giovanni Spagnoletti, Domenico Spinosa, Anita Trivelli, oltre che dallo stesso Leonardo Quaresima.
“Così Lo studente di Praga sta per l’Autorenfilm e il periodo immediatamente antecedente la Grande Guerra, che segnano la nascita di una ‘cinematografia nazionale’, legandone le sorti a un rapporto strettissimo con gli esponenti e le tendenze più avanzate della cultura (di lingua) tedesca dell’epoca, ma continuando a fare riferimento, lo si anticipava, alle caratteristiche popolari del nuovo mezzo. Il risultato introduce una serie di novità sul piano linguistico, drammaturgico, narrativo – e individua nel fantastico uno dei registri più caratterizzanti. Ma produce anche una serie di trasformazioni dell’intero apparato cinematografico: a livello della composizione del pubblico [...], dei modi di produzione […], dei luoghi della visione”.
Oppure, l’analisi de Il gabinetto del Dott. Caligari (1920) di Robert Wiene risulta utile anche per “mette in evidenza la continuità, anche nel dopoguerra, della centralità del rapporto con le esperienze culturali più innovatrici (qui l’avanguardia espressionista) e del progetto di realizzazione di prodotti pensati, pur muovendo da questa base, per un grande pubblico – linea che caratterizzerà il cinema tedesco per tutti gli anni Venti. Questo, in un processo più ampio ma innescato proprio dalla vicenda espressionista, diventerà terreno fertile di confluenza di arti diverse (negli sviluppi imposti ad esse dal movimento)”.
Analizzando Metropolis (1927) di Fritz Lang, si può invece vedere come esso “costituisce il testo limite del cinema ‘espressionista’ e una sorta di ricapitolazione degli approdi del cinema tedesco degli anni Venti. È stato considerato anche come una sorta di iperbole dello statuto autoriale di Fritz Lang. Il film si costruisce in realtà su una molteplice e variegata sovrapposizione di temi e modelli: dall’espressionismo al razionalismo, dal neoclassicismo al déco, desunti da una non meno variegata rete di riferimenti: dalla letteratura, dall’architettura, dal teatro. Metropolis è al tempo stesso un laboratorio dei principi della modernità, anche se la loro formulazione si cala in un contesto simbolico – tipico invece della matrice espressionista. Murnau, Lang, Pabst (e lo sceneggiatore Carl Mayer) sono alcune delle figure la cui impronta si disegna con maggiore nettezza nell’orizzonte del cinema tedesco degli anni Venti. Ma, a ben vedere (senza cadere nel rischio di adottare all’indietro nozioni ‘autoriali’ e tenendo conto del modello già esposto), agendo da momento di incontro e fusione di una serie di tratti e riferimenti ‘trasversali’, più che istituirsi come istanze completamente autonome, luogo singolare di espressione di sistemi stilistici e di poetiche”.
Leggendo il libro si viene a sapere come durante il Terzo Reich soltanto il 20-30% dei circa 1100 film a soggetto realizzati possa essere esplicitamente indicato come cinema di propaganda nazista, mentre il resto della produzione sia costituito da cinema di genere, d’intrattenimento. “Si tratta di un cinema, inoltre, che per le sue stesse caratteristiche ha un peso e un’influenza enorme sulla ‘vita quotidiana’ negli anni del regime ed esercita la sua azione grazie anche a una serie di fenomeni che tradizionalmente ad esso sono legati. Il divismo, innanzitutto; che riceve infatti in tale periodo un notevole impulso. Durante il nazismo, insomma, il cinema conserva e anzi sviluppa un enorme potenziale mitico, separato dai miti edificati dall’ideologia nazista. Il film di genere può essere utilizzato per trasmettere, scopertamente o velatamente, determinate posizioni e parole d’ordine. Ma [...] esiste una grandissima quantità di prodotti [...] in cui ogni riferimento ideologico e politico è assente. Inoltre si tratta di film che sul piano realizzativo e spettacolare possono competere con la contemporanea produzione americana”.
Se poi questi film debbano essere considerati “opere di distrazione” comunque funzionali al regime o, nel loro disimpegno, si possano vedere come una sorta di presa di distanza nei confronti della situazione resta argomento di discussione. Quaresima suggerisce come sia possibile affrontare tale fenomeno anche “riconducendo il cinema di intrattenimento alle forme di organizzazione del tempo libero in epoca nazista, governate da spinte alla modernizzazione sociale, parte del più ampio orizzonte di politiche di modernizzazione perseguite dal regime. Le quali rappresentarono una componente costitutiva di un sistema pure fondato su premesse ideologiche di segno opposto, regressive, antimoderne. I quesiti, tuttora aperti, come si vede, non sono davvero di poco conto”.
Relativamente al periodo del dopoguerra, segnato dalla divisione tedesca, il volume decide di non prendere in considerazione le vicende della cinematografia della DDR in quanto la ritiene un’esperienza degna di studi specifici.
Circa l’epopea del cosiddetto “nuovo cinema”, il volume si attiene alla canonica tripartizione. La prima fase, che va dal 1962, anno del Manifesto di Oberhausen, al termine del decennio, è caratterizzata, sottolinea Quaresima, non solo dal cinema di Alexander Kluge o di Volker Schlöndorff, ma anche da quello di Jean-Marie Straub, Edgar Reitz, Vlado Kristl, Peter Schamoni, Helmut Herbst, Haro Senft e Hans Jürgen Pohland. La seconda fase, collocabile nei primi decenni degli anni Settanta, si rifà maggiormente alle modalità del cinema d’autore ed ottiene un importante riconoscimento critico internazionale con autori del calibro di Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder, Wim Wenders, Alexander Kluge ed Hans-Jürgen Syberberg. La terza fase, che sancisce il definitivo ricambio rispetto al “vecchio cinema”, occupa il periodo compreso tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta e si sviluppa a partire dall’introduzione di una nuova legge relativa alle sovvenzioni per il cinema e dallo strutturasi di un nuovo rapporto con la televisione.
Nonostante il successo internazionale, sottolinea ancora Quaresima, le opere di questo periodo hanno spesso saputo mantenere tratti di autonomia rispetto ai canoni multinazionali dello spettacolo spesso appiattiti al puro consumo. Importante testimonianza di ciò è rappresentata da Heimat (prima serie del 1984) di Edgar Reitz.
Le pellicole autoriali, nel corso degli anni Ottanta sono affiancate anche da un’importante affermazione della commedia, genere che continuerà a proliferare anche nel corso del decennio successivo, quando le forme della narrazione si faranno più standardizzate ed orientate ad una cinematografia disimpegnata alla ricerca di un pubblico allargato. Il cinema tedesco di questo inizio Millennio è però più variegato e complesso di quanto possa sembrare e lo stesso Quaresima sottolinea nella sua Introduzione al volume come, nonostante il cinema tedesco abbia da tempo perso quel ruolo di primo piano che ha a lungo avuto, non si possa sbrigativamente emettere giudizi sommari nei confronti della sua produzione più recente alla luce di un inutile riferimento nostalgico alla produzione autoriale del “Nuovo Cinema Tedesco”.





Leonardo Quaresima
Cinema tedesco: i film
Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2019
pp. 496

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