“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 19 September 2017 00:00

Roberto Longhi e l'Officina cinematografica

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Le molteplici modalità dei rapporti che nel corso del tempo si sono intessuti nel contesto italiano tra letteratura, letterati e cinema sono al centro dell'ultimo e corposo volume di Gian Piero Brunetta, Attrazione fatale (Mimesis, 2017). Lo studioso, passando in rassegna la storia del cinema nazionale, individua e indaga problematiche e personalità costituenti casi esemplari delle interazioni tra letteratura e cinema. "La letteratura è iscritta nel DNA del cinema italiano, ne costituisce una struttura portante e gli scrittori e letterati ne sono i vettori privilegiati, coloro che aiutano a creare i ponti tra le due realtà" (p. 8).

Se alcuni scrittori manifestano un'attrazione immediata nei confronti del grande schermo, altri si mostrano più sospettosi, in ogni modo non si può non constatare come i grandi classici della letteratura italiana abbiano alimentato a lungo la produzione cinematografica nazionale. In alcuni casi l'attrazione esercitata dal cinema diviene così forte da spingere i letterati a collaborare o a cimentarsi direttamente con la settima arte. "Oltre a cercare di riconoscere, come denominatore comune al lavoro di molti scrittori per il cinema, lo spirito redivivo della bottega medioevale e rinascimentale: ricollegandomi a Longhi ho usato spesso e volentieri il termine Officina in senso policentrico, individuando un’Officina cinematografica romana, una milanese, una torinese, una parmense-riminese e una veneziana [...]. Proprio grazie a quest’idea di luogo operativo comune ho voluto anche rintracciare e collegare in maniera più visibile quello spirito di gruppo, quel senso di solidarietà cercato e difeso in modo tutt’altro che corporativistico [...] che ha unito a lungo una gran parte dei personaggi di cui mi sono occupato e che costituisce, a mio parere, una struttura portante del cinema italiano" (p. 9).
Nell'impossibilità di dar conto di un'indagine talmente monumentale da riempire d'inchiostro più di quattrocento pagine, da parte nostra ci soffermeremo sulle pregevolissime pagine che Brunetta dedica a Roberto Longhi e l'Officina cinematografica, individuando in esse uno degli snodi centrali dell'intera ricerca proposta dal volume, inoltre, in questo caso, l'intreccio tra letteratura e cinema si avvale anche del non indifferente portato delle arti visive tradizionali. Lo studioso sostiene che l’opera e la personalità di Longhi abbiano orientato certe scelte culturali e stilistiche della storia del cinema italiano e ciò risulta particolarmente evidente in personalità come Pier Paolo Pasolini e Umberto Barbaro. Tra i momenti cardine di questa attrazione fatale, il saggio indica la visione di Barbaro della celebre mostra sul Sei-Settecento organizzata da Longhi nel 1922. Pochi anni dopo, nel 1927, lo studioso di cinema, nel tentativo di dare vita al movimento artistico d’avanguardia dell’Immaginismo, ricorre alle argomentazioni longhiane per attaccare il pensiero crociano attraverso lo scritto Un’estetica nuova per un’arte nuova pubblicato sul primo ed unico numero della rivista La ruota dentata del 1927.
Secondo Brunetta saranno proprio Officina ferrarese e Lezioni di storia dell’arte del 1934-35 dello studioso d'arte a spingere Barbaro alla ricerca di una tradizione figurativa propria del cinema italiano. Nelle lezioni bolognesi del 1934 Longhi scrive che "una forte persona artistica sa crearsi quella congruenza di aspetti che diviene poi, per diffusione, quasi uno spiro locale" e Barbaro intende "esportare questa indicazione sul terreno di un cinema ancora privo di personalità e di convergenze poetiche ed operative, di coscienza dei propri mezzi e di conoscenza della propria storia anteriore" (p. 121).
Quando Barbaro, poco dopo, si trova a collaborare alla manifestazione romana sui Quarant’anni della cinematografia, decide di concentrare l'attenzione sul film Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio indicandolo come "ponte tra una tradizione figurativa tutta dominata dalla lezione longhiana e un’idea di cinema ancora in gestazione, ma già capace di mostrarsi nelle sue parti fondamentali" (p. 121). A partire da questo momento, sostiene Brunetta, Barbaro studia in profondità il metodo longhiano, riprendendo persino lo stile espositivo del grande maestro, come appare del tutto evidente nella pubblicazione Soggetto e sceneggiatura (1939).
Sin dal finire degli anni Trenta Barbaro si occupa di scritti di storici dell’arte che hanno indagato questioni utili anche allo studio del cinema, interessandosi sopratutto dei lavori di Heinrich Wölfflin, al quale dedicherà il saggio Avvicinamento all’opera d’arte di Wölffllin (1947). All’indomani della liberazione di Roma, nel 1944, Barbaro scrive su La Settimana una recensione alla mostra Pittori del Seicento organizzata dalla Galleria Palma e curata dal giovane Giuliano Briganti, allievo di Longhi. L'interesse di Barbaro per la pittura contemporanea lo conduce a pubblicare nel 1948 il testo Le ricche miniere della pittura contemporanea, nel frattempo inizia a collaborare con lo stesso Longhi alla produzione dei documentari su Carpaccio e Caravaggio, "in cui cerca di dimostrare, col cinema, la perfetta applicabilità e possibilità di integrazione tra una visione che parta dal vicino di tipo analitico (Nabesicht) e approdi a una distanza di tipo sintetico (Fernbild)" (p. 122).
A partire dalla metà degli anni Cinquanta Barbaro si cimenta come critico d’arte sulle pagine del Contemporaneo e proprio per tale testata pianifica di stendere un profilo di Longhi, lavoro che, pur realizzato, andrà purtroppo perduto. È nel film Ossessione (1943) di Luchino Visconti che Barbaro scorge la possibilità di diffondere l'esempio di Longhi. "La stessa topologia del film, culminante nel viaggio a Ferrara, lo spinge e lo obbliga ad eseguire, con ampio respiro sinfonico, la partitura longhiana al meglio delle sue possibilità" (p. 124). Al film, ricorda Brunetta, Barbaro dedica due scritti: Neo-realismo e Realismo e moralità, usciti in rapida successione sulle pagine della rivista Film nell'estate del 1943. "Rivedendo la Ferrara di Visconti, con tutta la forza della sua passione stilistica, Barbaro sente che finalmente il messaggio di Longhi si è fatto carne e che, per via di metamorfosi e di lunghe distillazioni l’Officina ferrarese rivive con l’aspetto di una nuova Officina cinematografica. Da Ferrara sembra ripartire il nuovo cinema italiano lungo una tradizione non letteraria ma veramente nostra, tutta e soltanto nostra, delle arti figurative. E infatti – si domanda sciogliendo alla fine tutti gli enigmi – l’apparizione di un carrettino da gelataro di così stramba fantasiosità non ha precedenti araldici che magari risalgono fino ad Ercole de’ Roberti?" (p. 125).
La lezione di Longhi, sostiene Brunetta, finisce per "agire su tempi lunghi, in modo diretto, sulla visione e sul lavoro di Pasolini, e anche per lui viene a costituire la trama e l’ordito, il punto di riferimento fondamentale in cui una cultura visiva diventa produzione di immagini e di testo. Pasolini deve a Longhi illuminazioni e moduli che diventano ora poesia, ora prosa, ora pittura, ora immagini cinematografiche" (p. 126).
Se in Barbaro, continua Brunetta, il messaggio longhiano agisce sull'asse diacronico, in Pasolini "ha uno sviluppo anche sincronico, si allarga a onde concentriche e ne informa tutte le pratiche significanti. Il lessico poetico, la sintassi, la qualità dello sguardo e il momento di produzione del messaggio, sono alimentati anche per lui dalla parola di Longhi" (p. 126). L'influenza longhiana su Pasolini è rintracciabile sin dai suoi scritti di carattere artistico pubblicati sulla rivista Il Setaccio nel 1942, poi, di nuovo, nel ritratto che  dedica al grande studioso Roberto Longhi, contenuto in Descrizione di descrizioni (1979) e, nuovamente, nel poemetto Picasso, pubblicato originariamente in Botteghe Oscure (1953), poi in Le ceneri di Gramsci (1975), ove si racconta la visita alla mostra dedicata all'artista spagnolo dal Museo d’arte moderna di Valle Giulia. Altrettanta evidenza debitoria la si ritrova nel Pasolini che affronta Piero della Francesca in Religione del mio tempo ma, sostiene Brunetta, il "momento forse più alto della conversione della parola del maestro in pratica espressiva è quando Pasolini passa dietro alla macchina da presa: sia in Accattone [1961] che in Mamma Roma [1962] egli dà l’impressione di bloccarsi, quasi attonito, su ogni volto e su ogni corpo, disgiungendoli dal racconto e al di fuori di tutte le regole preesistenti di grammatica e sintassi cinematografica. Il cinema esalta al massimo la sua cultura figurativa, rimasta per oltre un decennio allo stadio di latenza, e tuttavia pulsante, come abbiamo visto, di umori e suggestioni. La sua parola – già carica di intensità visiva nelle poesie e nei romanzi – era pronta a trasformarsi in immagine e a fare in modo che il passaggio fosse quasi inavvertibile" (p. 127).
Successivamente, con l'utilizzo del colore, aumentano per Pasolini le possibilità di rifarsi a Longhi e ciò risulta evidente nel film La ricotta (1963). "D’ora in poi l’influsso longhiano diventerà la presenza in forma di metafora ossessiva nella trasformazione della visione pasoliniana sempre più carica di citazioni e di temi e figure manieristiche. Nella Trilogia della vita gli orizzonti si dilatano e le opere, nel loro insieme, diventano la summa della sua cultura figurativa. Questa mano e questo sguardo longhiano orientano le sue scelte; quasi a volergli dimostrare, proprio a partire dall’anno della morte, la forza del ricordo e la testimonianza che nulla andava perduto, fa riemergere anche la sua figura e tenta di fissarla in una serie di profili a china, realizzati tra il 1974 e il ‘75 [...]. Pasolini insegue questa immagine fino quasi alla vigilia della sua morte, giungendo a darle sempre più il senso della presenza e tentando di infrangere le leggi dell’Ade. Questa serie di invocazioni affettuose, ironiche e disperate sono il suo Testament d’Orphée (p. 128).

 




Gian Piero Brunetta
Attrazione fatale. Letterati italiani e letteratura dalla pagina allo schermo. Una storia culturale

Mimesis edizioni, Milano − Udine, 2017
pp. 418

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