“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 21 September 2020 00:00

Le rivoluzioni mancate

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Einaudi ha ripubblicato nel 2008 un volume che Rossana Rossanda aveva dato alle stampe con Bompiani nel 1981, rievocando un viaggio compiuto in Spagna diciannove anni prima, nel 1962: Un viaggio inutile. O della politica come educazione sentimentale.

A Rossanda interessava documentare allora come la Spagna stesse vivendo il suo “desencanto”, adagiata in un’illusione che non si era mai travestita da azione, e tanto meno da rivoluzione − come invece molti comunisti dell’epoca avevano sperato. Soprattutto si trattava di testimoniare l’inizio di una crisi, quando, in quel 1962, a Rossanda membro del Comitato Centrale del PCI, per la prima volta “i conti non tornarono”. Quella missione, progettata per raccogliere adesioni a una manifestazione per la libertà spagnola, diventò “la misura della propria incapacità ed errore”, in un momento in cui “l’impossibilità di capire in forme vecchie e l’inafferrabilità d’una qualsiasi forma nuova” si manifestava non solo in Spagna, ma anche nel PCI.
Il Paese che la giornalista si trovava ad attraversare per sondare gli umori del franchismo e dell’antifranchismo non corrispondeva alle logore categorie di una comunista militante formatasi sui dogmi della III Internazionale. Non si trattava già più, nel ’62, di constatare la fine del fascismo, bensì di immaginare le infinite possibilità di resistenza del capitalismo. La Spagna di quel viaggio “finiva di essere qualcosa e non era ancora qualcos’altro, una crisalide”, “non era una società politicamente azzittita, ma apparentemente una società non politica; non imbavagliata, ma vuota”.
Viaggio, quindi, della disillusione o della delusione crescente, che la scrittrice comunicava al lettore, immobilizzandolo in una sospensione del giudizio prolungata fino alla fine del libro.
Chi legge ora quel resoconto si aspetta qualcosa che non succede: “Un amore o una storia gialla”, ironizzava Rossanda. Invece si trova a contare spostamenti e appostamenti, incontri ambigui, tracce di un’opposizione impalpabile anche se concretissima, che “lavora tenace su margini stretti... come il rumore... di talpe pazienti”.
Intorno e sopra a questo muoversi a passettini dell’antifranchismo pesava come una cappa di piombo l’immobilità del regime, “perfettamente assente in tesi, idee, atti politici e perfettamente presente come controllo”. Non smargiasso e rozzo come il fascismo mussoliniano, più furbo nel mimetizzarsi, più sottile nel concedere spiragli apparentemente inutilizzabili, più feroce nella repressione: “Mi muovevo e i miei interlocutori si muovevano con maggiore o minore audacia come fra le zampe di una tigre sonnacchiosa: la tigre era presente, ma dormiva. E se fosse invece morta? O in mutazione, già diventata un grosso gatto rabbioso ma senza artigli?”.
L’incombere di tale “Cosa, il mostro”, la presenza silenziosa della tigre, non concedeva nessuno spazio agli avvenimenti, che dunque non avvenivano: il libro si nutre di luoghi e di persone, pretesti narrativi che costituiscono il vero viaggio di maturazione politica all’interno della coscienza. Primo ed essenziale spunto narrativo sono i luoghi, la Spagna che nemmeno fisicamente corrisponde a quella immaginata dall’autrice, “aspra all'interno, sanguigna come la terracotta”: Barcellona è grigia e impenetrabile, Madrid burocratica e stracca, Siviglia stucchevole.
Sono città-specchio per le allodole, non servono a inquadrare né a capire di più chi le vive.
“È che Barcellona mi doleva, Madrid mi doleva. Le ricordo attraverso il mio disagio; la mia testimonianza va tarata, respinta, cancellata con la matita blu”.
Anche i personaggi dolgono, sono fatti della stessa pasta delle città, esasperanti nella loro pazienza, imprevedibili nella loro straziante abilità di far rivivere le atrocità della guerra civile. Tutti, o quasi, intenti a contarsi le ferite di un fallimento passato e di un futuro fallimentare, dal misterioso Federico in impermeabile che dall’esilio controlla la situazione e sembra prevederne con onniscienza ogni sbocco (ma finirà espulso dal PCE), all’avvocato socialista Amàt che spera nell’Internazionale, ai tre operai anarchici che non sperano più in niente.
Ma soprattutto c'è lei, Rossana Rossanda, impaziente e imprudente, mai rassegnata, così in disaccordo sempre con tutto da costituire l’unica nota sopra le righe nel monotono spartito di quell’opposizione. Era lei, con la sua memoria risentita, che scopriva una Spagna deludente e ce la restituiva calda e tesa.
Se si potesse parlare di immediatezza della memoria, questo libro ce ne offrirebbe l’occasione, perché nel recupero degli avvenimenti c’è la stessa agitazione, la stessa “faziosità” che li avevano permeati nel ’62.
Le cinque pagine finali potrebbero valere, da sole, tutto il libro. Sferzanti come i migliori articoli scritti per Il Manifesto, esplicite nella loro durezza, indignate nel rigore logico, partono dalla constatazione che non si può vivere senza idee, e che una società che ha cessato di pensarsi (sia in termini di conservazione, sia in termini di mutamento) è una società incapace di vivere, che tuttavia non sa permettersi di morire.
“Una società siamo noi proiettati in eterno, prima e dopo, e la malattia che la dissolve non può cessare nell’inesistente morte”.
Se la Spagna del ’62 “non si sapeva più pensare perché non poteva più pensare di cambiare”, l’Italia dell’81 non si analizzava perché non sapeva più progettare alcun cambiamento: depressa, noiosa, malata di “una appena addomesticata peste”. I responsabili? Quelli di sempre. Ma anche “gli araldi della rivoluzione subito e oggi”, gli stessi “che domandano la fine delle certezze, anzi la loro destrutturazione”. Una vera collera viene espressa verso i teorici della politica che impudicamente “si compiacciono nella contemplazione dell’errore”, in un processo al ’68 e alla povertà del suo pensato, dimostrando tra l’altro scarsa originalità, perché è risaputo che “ogni sconfitta ridimensiona i valori; chi vince sembra più intelligente, chi perde non ha scampo”.
Rossanda trovava presuntuoso e futile il parlare da sola, da fuori; si immergeva, recuperava, interpretava. E faceva in modo che i viaggi inutili (in Spagna, nel PCI...) fossero utilissimi a qualcuno, almeno, per il presente e nel futuro di tutti.





Rossana Rossanda
Un viaggio inutlie
Einaudi, Torino, 2008
pp. 121

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