“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 15 October 2017 00:00

Lo scandalo del male, lo sdegno del poeta

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Basterebbe forse evidenziare sei termini contenuti negli undici versi della poesia che apre la Commedia ubriaca di Nicola Vacca (amputare, sangue, massacro, dolore, terrore, uccidere) per individuare il leitmotiv dell’intera raccolta. Che è indubbiamente la violenza: quella patita e quella esercitata dall’uomo, dalla storia, dalla natura, da un dio irascibile e oscuro.

Violenza ingiustificata e mai giustificabile, ribadita ossessivamente nei sostantivi (guerra, orrore, mattanza, inferno, odio, squartamenti, carneficina, strage, necrosi, macelleria, ferocia, annientamento, crollo, ammazzatoio...), nei verbi (azzannare, annegare, sanguinare...), negli aggettivi (orribile, crudele, straziato, osceno, feroce, sporco, agghiacciante...).
Allo scandalo del male il poeta può opporre solo una denuncia indignata, ferita, rabbiosa. Lo fa usando uno stile prosaico, sentenzioso, a tratti declamatorio, che può ricordare il timbro apocalittico dei profeti biblici, nella sua perentoria assertività: “Quello che manca oggi è l’imperativo di uno schianto”, “Siamo niente in un paesaggio di rovine”, “Ognuno ha la sua terra desolata”, “La realtà è un museo dell’orrore”.
La sua è una vox clamans che disdegna rime, assonanze e qualsiasi artificio letterario, quasi avvertisse lo scrivere in versi inadeguato, o addirittura immorale (“Dopo Auschwitz, nessuna poesia”, ammoniva Adorno) rispetto alle atrocità commesse quotidianamente dagli uomini contro i propri simili: “I poeti non sono innocenti / perché sanno che la poesia è un’occasione persa / come la vita che ogni essere spreca / quando uccide ciò che ama”. Diffidenza, quindi, anche verso gli stessi strumenti che usa, perché persino le parole mentono, e risultano inefficaci, spuntate: “Le parole precipitano in un’ora di buio”, “La penna scortica le parole”, “Le parole assassine / non temono i pensieri di cemento”, “Questo non è più il tempo delle parole”, “Non resta altro da fare / che essere becchini delle parole”.
Di fronte al sangue innocente versato in guerre efferate, alle stragi terroristiche, ai kamikaze che si fanno esplodere (particolarmente sofferto è il ricordo dei recenti attentati parigini), Nicola Vacca reagisce con impetuoso sdegno, schernendo ogni ipotesi utopistica di riscatto, ogni illusione di fraternità o speranza di pace futura. Siamo nati per soffrire e per far soffrire, come già sosteneva pessimisticamente Leopardi: e non è un caso che le citazioni scelte dall’autore ad esergo del libro appartengano a Emil Cioran e Michel Houellebecq, disincantati cantori della fine dell’umanità, della impossibilità di qualsivoglia solidale empatia con il prossimo.
“Commedia”, quella che viviamo: finzione “ubriaca”, illusione di contare nella mente degli altri o almeno di un dio, quando invece non serviamo a nulla, se non a danneggiarci a vicenda: “Noi siamo già morti”.
Come giustamente afferma Alessandro Vergari nella sua colta prefazione al volume, Vacca descrive il degrado antropologico della nostra contemporaneità con “urgenza e inquietudine”, con una perpetua “sensazione di accerchiamento e controllo”, affidandosi a un’analisi spietata del reale che ci stritola nei suoi impietosi ingranaggi: “Nessuno passa attraverso nessuno / e tutti calpestano il deserto di tutti”, perché “siamo spacciati in un ammazzatoio”. Se il massacro reciproco è la regola, come insegnava Hobbes, allora è evidente che anche la poesia diventa un inutile passatempo per anime belle, e pertanto va sconfessata, scardinata, derisa nelle sue pretese di intangibile nobiltà.




 

Nicola Vacca
Commedia ubriaca
Marco Saya Editore, Milano, 2017
pp. 104

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