“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 27 December 2016 00:00

La magia eterna del Natale e della parola

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Festoni e luminarie natalizie decorano l’ingresso e le sale de Il Pozzo e il Pendolo. Nell’aria echeggiano discrete e festose le note di Christmas Carols e un lungo tavolo ospita dolci natalizi, mandaranci, noci, bricchi di cioccolata calda e vin brulé, predisponendo benignamente lo spettatore al godimento di una antica favola che parla di un vecchio avaro, ma forse in realtà di ciascuno di noi, se riflettiamo sulla metanoia del protagonista e sul fatto che ciascuno può riscoprire la vertigine di riavvicinarsi alla sorgente della propria essenza, a ciò che si era, sepolto magari sotto gli strati di ciò che le circostanze della vita hanno condotto a diventare.

L’ambiente che accoglie la performance è allestito approssimativamente in forma semicircolare, o meglio cercando di adattare in forma di cavea uno spazio rettangolare, disponendo sapientemente sedie, panche e poltroncine. La sensazione che ne scaturisce è quella di una sorta di salotto accogliente, nel quale condividere con amici la magia natalizia e dell’incanto teatrale.
Paolo Cresta e Carlo Lomanto entrano in scena quasi senza parlare, mentre le persone prendono posto sulle comode poltrone, cominciano ad avvolgersi nei plaid o continuano a sgranocchiare i dolci e sorseggiare le bevande calde. “Buonasera”, esordisce il narrattore Paolo Cresta. “Benvenuti... e tanti auguri”. È vestito come un borghese del secolo XIX: camicia bianca, completo grigio scuro, unica nota di colore il rosso cremisi della cravatta e dei nastri che fermano i polsini della camicia. Simpatico e garbato l’invito a spegnere i telefonini e poi l’ultima raccomandazione, prima di cominciare: “Se dovesse venirvi da dormire, fatelo tranquillamente”. Siede al leggio e accende una lampada a stelo con il paralume di vetro verde fuori, bianco dentro. Cambia voce, il tono scende di una mezza ottava, diventa più grave e al tempo stesso più caldo, suadente, il brusio in sala cessa d’un tratto. La favola comincia. “Marley era morto”. La penna icastica di Charles Dickens non avrebbe potuto tracciare un incipit più efficace: il lettore/spettatore è catapultato senza mediazione nella vicenda, ignorando a chi appartenga la voce narrante, quale sia l’antefatto, ma quelle poche parole rappresentano un uncino impareggiabile per catturare l’attenzione e avvinghiarla, senza intermittenza, allo sviluppo di una storia che già nelle sue prime battute promette meraviglie e, al tempo stesso, quel sottile umorismo, caustico, senza essere sarcastico, che percorre lo spirito britannico.
Trasporre a teatro un testo che non nasce per le tavole di un palcoscenico è operazione letteraria sempre complessa che, quando non comporta una riscrittura, necessita quantomeno di un adattamento alla diversa forma comunicativa, al diverso contesto e, soprattutto, il canale attraverso il quale il messaggio raggiunge il suo destinatario che, in questo caso, non è più un lettore ma, appunto, uno spettatore. Ragion per cui il narratore, Dickens, qui si incarna nelle spoglie dell’attore, che non si limita a leggere o declamare il testo, ma assume su di sé il compito di narrarlo attraverso la sua voce e il suo corpo, trasformandosi in “narrattore”.
Declamare e recitare sono due azioni bene distinte e Paolo Cresta recita, accelerando sapientemente il ritmo quando descrive Scrooge, o quando sottolinea i passaggi più drammatici della storia, così che l’attenzione si mantenga sempre desta. L’unico attore in scena ha una voce e uno sguardo diverso per ciascuno dei personaggi. La voce di Scrooge è aspra e gutturale, un pizzico nasale. Tagliente e fredda come quell’uomo, ma progressivamente più dolce, quasi implorante, a mano a mano che si snoda il suo percorso nella memoria che lo condurrà alla trasformazione finale. Così come ciascuno degli spiriti ha la sua voce e così anche il garrulo nipote, l’impiegato, sua moglie, la fidanzata che in un tempo lontano ha avuto l’ormai arido Scrooge, gli emissari dell’organizzazione filantropica, affettati e ampollosi, la brava gente che commenta la morte del protagonista nella visione del Natale futuro. Mi concedo di girare gli occhi attorno, distraendoli ogni tanto dal corpo-voce del narrattore: vedo sguardi rapiti, sorridenti, occhi brillanti, bocche sospese ad attendere la sillaba successiva, il seguente movimento, il prossimo suono. Trattandosi di un canto Dickens ha intitolato come strofe ciascuno dei capitoli. Qui ogni strofa si apre e si chiude con la luce della lampada, che funge simbolicamente da sipario, invitando col buio alla pausa gli spettatori.
Il suono. Senza il tappeto sonoro di Carlo Lomanto questo Canto di Natale sarebbe raccontato solo a metà. Veste un cappello nero, un lungo cappotto, nero anch’esso, mezziguanti di lana, unica nota di colore una lunga sciarpa rossa. Sua e la voce che dà corpo allo spazio in cui si svolge la storia, i suoni, i rumori, quelli che contribuiscono a far sentire il caldo, il freddo, l’angoscia, la letizia, l’avvento del numinoso, la drammaticità di ciò che accade, il lieto scioglimento finale. Suo l’effetto stereofonico della voce dello spettro di Marley, che terrorizza Scrooge e inquieta il pubblico. La sua voce sembra davvero provenire dall’oltretomba, è alta, stentorea, profonda. Lo spirito pontifica gridando, parlando di misericordia, benevolenza, pietà, poi si perde come un’eco. I lamenti si trasformano in musica e la voce del narrattore assume un ritmo più dinamico, quasi sincopato, per tornare narrante quando la musica/ambiente si ferma e ricomincia il racconto. A volte i suoni sembrano evocare lo stato quasi allucinato in cui si muove Scrooge, alle prese con le potenze del soprannaturale o con i fantasmi della mente, in altri momenti l’echeggiare delle note di We Wish You a Merry Christmas è malinconico e dolente, oppure ironico e giocoso, quasi irridente, infine gaio, liberatorio, come la nuova consapevolezza del protagonista. Alla fine dello spettacolo, dopo i meritati applausi del pubblico soddisfatto, lo vediamo seduto sorridente tra le poltrone, a godersi il calore dell’atmosfera.
Ricordo di aver visto anni fa una delle prime repliche del Canto di Natale, all’epoca non dovevo scriverne, ma solo goderne. La macchina scenica era già allora ben oliata, gli anni non hanno tolto freschezza, ma aggiunto consapevolezza e complicità ad una coppia di professionisti che hanno raggiunto un grado perfetto di complementarità. Auguriamo tanti anni di repliche ad un lavoro che riesce a celebrare, senza mai scivolare nello stucchevole, la magia del Natale e il potere affabulante della parola fatta corpo attorale, capace di ricreare il mondo attraverso la sospensione dell’incredulità.

 

 

N.B.: su Canto di Natale si veda anche:
Alessandro Toppi, Dickens, il racconto e il teatro (Il Pickwick, 29 dicembre 2013)

 


Canto di Natale
di
Charles Dickens
con Paolo Cresta, Carlo Lomanto
produzione Il Pozzo e il Pendolo Teatro
lingua italiano
durata 2h
Napoli, Il Pozzo e il Pendolo, 22 dicembre 2016
in scena dal 22 dicembre 2016 all’8 gennaio 2017

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