“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 06 October 2019 00:00

Eskimo

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Dopo una notte ormeggiate sulla riva, le barche hanno un odore agrodolce. Il legno umido s’impregna di salsedine e quando il sole inizia a battere sulle assi e sui remi, viene fuori un profumo che non sembra d'estate. È più leggero, a volte lo senti ed altre scompare, aleggia tutt'intorno la spiaggia e lentamente evapora, insieme al buio. Tra poco questo pezzo di sabbia si riempirà di voci e di passi, ma adesso è ancora vuoto. A quest’ora i gabbiani sono gli unici abitanti della spiaggia e il loro stridio rende meno spaventoso tutto questo silenzio. Mi tolgo le infradito e le infilo dentro la mia borsa a tracolla. La sabbia è ancora fresca dalla nottata, raggiungo la riva per controllare la temperatura dell’acqua. Un’onda mi bagna le dita dei piedi, sento un brivido leggero che mi corre dietro la schiena.


− Nicola?

Pensavo di essere solo su questa spiaggia e invece c’è qualcuno che respira l’ultima salsedine insieme a me. Riconosco subito la sua voce e un altro brivido mi pizzica le vertebre. Mi volto verso di lei, rimaniamo zitti per un po’, ci sono tutti quegli anni tra di noi, pieni di altre facce che hanno sbiadito le nostre. E invece adesso ce le troviamo una di fronte all'altra e abbiamo bisogno di tempo per riconoscerle. Ci studiamo le forme e le intenzioni, lei ha la stessa pelle di quindici anni fa.

− quando sei tornato?
− ieri sera...
− ti fermi per un po’?
− riparto domani

Annuisce, si avvicina di qualche passo e io la guardo meglio. Ho sempre pensato questo del viso e del corpo di Claudia, che ogni sua singola parte fosse sgraziata. Il naso ha una piccola gobba nel mezzo e i canini sono più sporgenti degli altri denti. Ha un collo lungo e sottilissimo e le ginocchia convergenti verso l’interno. E tutti questi piccoli vizi di forma sono disposti però in modo da evocare nel complesso una grande armonia fra le parti. Perciò, al di là di tutte le singole imperfezioni del suo corpo, quando la guardo vedo comunque qualcosa di bello, io, come tutti. Claudia si avvicina ancora, per un attimo mi soffermo sulla gobbetta nel mezzo del suo naso. Un po’ mi rassicura sapere che sia ancora lì, mi fa sentire meno lontano. Mi fissa dritto negli occhi, senza mai distogliere lo sguardo, io invece reggo il mio a fatica. È una cosa che le ho sempre invidiato, il modo in cui riesce a guardare tutti negli occhi, senza vergognarsi di mostrare i suoi.

− ho sentito di tuo padre... mi dispiace

A volte mi dimentico di come funziona la vita in paese, tutti che conoscono tutti e i nomi e i pensieri e i peccati di tutti. E ieri qualcuno ha detto a Claudia di mio padre e non ci ha pensato che magari volevo dirglielo io, che quella era roba mia. Gliel’hanno raccontato come si raccontano le storie degli estranei, notizie adespote, fatti di tutti e di nessuno. Per loro ho smesso di essere Nicola quindici anni fa, sono diventato quello che vive lontano, quello che torna a casa una settimana l’anno e fa sempre più fatica a riconoscere tutti. E ogni volta trova i suoi genitori un po’ più stanchi e un po’ più vecchi, finché un giorno torna e non li trova più. E per me quel giorno era ieri, e tutti hanno visto mio padre un’ultima volta e sanno quello che pensava e quello che dovrei pensare io. Mentre io so solo una cosa, che la mia casa odorava di roccia e di muschio.

− grazie

Claudia si avvicina ancora un po’, mi abbraccia, non lo so come fa ad essere sempre così spontanea, senza temere di invadere gli spazi e i silenzi di nessuno. Mi strofina una mano sulla schiena, mi bacia forte la guancia, stiamo fermi così per un po’, a confessarci tutto senza aprire bocca. Ci separiamo e io resto ancora in silenzio. In questi momenti non parlo mai, sono spazi miei e se li condivido con qualcuno è come se ne perdessi un pezzetto. Con Claudia però è diverso, abbiamo uno spazio nostro, uno spazio in cui non dobbiamo parlare, ce l’abbiamo ancora, dopo tutti questi anni.

− prendo quella rossa
− fai da solo?
− sì sì...
− un paraspruzzi?
− se ce l’hai

Oltre alle barche, sulla spiaggia ci sono anche una decina di canoe lunghe e sottili, in fila una accanto all’altra. Sono rosse, verdi e blu e i tre colori si ripetono sempre in quest’ordine creando una composizione identica e varia. Sono sicuro che è stata un’idea sua metterle così, Claudia riesce a trovare il bello dove gli altri vedono le cose. Nei suoi occhi, tutto diventa una composizione identica e varia. Si avvicina ad un cassone di plastica, lo apre, dentro è pieno di roba vecchia: pagaie rotte, galleggianti, spugne e scarpini di gomma. Tira fuori un paraspruzzi nero, io lo prendo, mi avvicino alla canoa rossa e la trascino sulla riva. Mi ci infilo dentro, tolgo la maglietta e la metto dentro la mia borsa a tracolla.

− la borsa?
− me la porto
− sicuro? Se vuoi...
− sicuro

Infilo il paraspruzzi e lo incastro per bene, mi bagno i capelli e mi dò una piccola spinta con le mani per staccarmi dalla riva. Inizio a pagaiare, me l’ero dimenticato questo senso di sospensione. Sotto di me c’è un abisso in cui potrei sprofondare e invece ci scivolo sopra come se non avessi peso. Aumento un po’ la velocità, il vento che mi rinfresca la pelle è la cosa più piacevole che sento da giorni. Man mano che mi allontano dalla spiaggia, il mare si allarga sempre di più davanti a me, e allora devo andare ancora più veloce, altrimenti mi ci perdo dentro. Mi giro per un attimo a guardare cos’è rimasto alle mie spalle, ora sarò almeno a duecento metri dalla riva e il petto mi pulsa fortissimo ma io continuo a lasciarmi dietro litri e litri d'acqua, insieme a tutti quei pensieri che da giorni mi prendono a morsi il petto, senza che io riesca a conoscerne nemmeno una parte. E forse se pagaio abbastanza veloce posso davvero a lasciarmeli alle spalle, almeno per un po’. E se invece non la smettono di seguirmi, se non ce la faccio a lasciarmeli dietro, comunque continuo a pagaiare più veloce che posso, finché il petto non mi scoppia e così non avranno più niente da mordere.
Ormai la riva è lontanissima e io sto scomparendo dentro un orizzonte molto più grande di me. Ancora qualche colpo, ancora un po’ più forte e poi finalmente sento uno strappo all’altezza dello sterno. È successo qualcosa, non sono sicuro che sia il mio corpo oppure tutte le altre cose di cui sono fatto, ma è successo qualcosa e sento che adesso posso smetterla di correre. Poggio la pagaia sopra la canoa, che va avanti di qualche metro per inerzia. Mi guardo intorno, la riva è lontanissima, non ci sono barche, solo un aereo che vola sopra la mia testa. Aspetto che scompaia dietro le nuvole.

Ora sono davvero solo
Chiudo gli occhi
Alzo la testa
Grido

Grido per un tempo che mi sembra infinito e riesco a sentire il mio corpo che lentamente si svuota. Queste urla sono solide, si alzano sopra la mia testa e poi cadono in mare e la corrente le trascina a fondo, dove non fanno più rumore. Sputo fuori l’ultimo fiato che ho, poi chiudo la bocca e cala di nuovo il silenzio. Ora sono anestetizzato, impenetrabile al dolore, non c’è più niente dentro di me a cui si possa aggrappare. Fuori nessun rumore, nemmeno i gabbiani, solo un acufene nelle orecchie, mi stordisce così tanto che per qualche secondo mi sento fatto di pietra. Prendo la mia borsa impermeabile, la apro, un odore acre di fiori vecchi si diffonde nell’aria.
Nessuno vuole mai andarsene per ultimo, è naturale, nessuno vuole restare da solo quando sono già spariti tutti. Mio padre però aveva un bisogno disperato di non piangere mia madre, lo sapeva che non avrebbe retto. Per lui il dolore era una malattia, una cosa con cui non si può convivere. E ogni volta che c’era provava ad eliminarlo ma riusciva a combattere solo i sintomi e allora mia madre se ne prendeva un po' per sé e lo alleggeriva di tutto quel peso. Perciò quando se n’è andata, mio padre ha deciso che non ne valeva la pena di continuare da solo e si è lasciato morire. Ha smesso di prendersi cura di sé, del fatto piuttosto banale di essere in vita. E io lo capisco, al posto suo avrei fatto lo stesso, avrei aspettato la fine, ma avrei voluto che mio figlio venisse a trovarmi nell’attesa. Io però sono arrivato quando non c’era più niente da aspettare e queste corone di fiori seminate per tutta la casa, mi hanno portato via l’unica cosa rimasta che ancora non mi faceva sentire un estraneo. Prendo un giglio bianco dalla mia borsa, lo poggio sulla superficie dell'acqua, il gambo ed i petali si distendono in cerca di vita. Li tiro fuori tutti, li raccolgo in un unico mazzo, lo lancio per aria e uno dopo l’altro i fiori cadono in mare, attorno alla mia canoa. Un’unica ampia corona colorata che mi circonda, e adesso sono io il morto, seduto dentro una bara rossa di vetroresina.
Un pesciolino striato di giallo sale in superficie e attraversa questa corona di fiori, schizzando da un lato all’altro, tra i gambi e le foglie. Chi sa com’è per loro, alzare la testa e trovarsi davanti agli occhi un cielo pieno di petali. Il pesciolino si immerge di nuovo in acqua, ma rimane solo qualche centimetro sotto la superficie e continua a muoversi attorno alla mia canoa. Decido di raggiungerlo, voglio vederlo anch’io questo cielo. Controllo il paraspruzzi, lo fisso per bene, poggio la pagaia sull’acqua, prendo un respiro profondo e con un colpo solo capovolgo la canoa.

Silenzio

Sott’acqua a testa in giù, il mio acufene si attenua, diventa meno pungente, più denso e alla fine si disperde nell’eco sorda del mare. Apro gli occhi, il sale mi brucia un po’ le pupille e ho bisogno di qualche secondo prima di mettere a fuoco le immagini. All’inizio è una macchia informe di colore, poi i contorni si definiscono meglio e alla fine eccoli lì. I raggi filtrano attraverso i petali sottili, colorando l’acqua di rosso, verde e blu. I fiori ondeggiano spinti dalla corrente leggera, creando una composizione sempre identica e varia. Chiudo gli occhi ma quell'immagine rimane lì, nonostante il buio. Sarebbe facile ora fare come mio padre, lasciarsi andare, dimenticarsi di essere vivi.
Un rumore interrompe questo mio piccolo momento di grazia, sento una voce ovattata che viene dall’alto, da fuori. Qualcosa si muove, è la mia canoa che oscilla a destra e sinistra senza che io muova un muscolo. Riemergo, litri e litri d’acqua grondano già dalla mia pelle, come se il mare mi avesse partorito. Mi asciugo la faccia e mi tolgo i capelli dalla fronte. Davanti a me c’è un ragazzino con un’espressione spaventata, ha le mani aggrappate alla punta della mia canoa.

− oh, è tutto apposto?
− tranquillo, sto bene
− guarda che è pericoloso, se non c'ero io che facevi?

Gli sorrido, mi immergo di nuovo in acqua e subito torno in superficie con un eskimo. Il ragazzino mi guarda sorpreso.

− tu lo sai fare?
− io?

Siamo soli in mezzo al mare, ma a quanto pare lui preferisce pensare che l’abbia chiesto ai pesci invece di rispondere alla mia domanda. Io accenno un sì un po’ condiscendente. Quando avevo la sua età non li sopportavo i tipi così, quelli che guardano tutti con condiscendenza. Penso che avvenga sulla soglia dei quaranta, con il lavoro, la casa, la famiglia e tutto il resto. Quando raggiungono i quaranta diventano pesanti, sentono per la prima volta tutta la gravità della parola “uomo”. Si fermano con la schiena china in un punto a casaccio lungo il percorso, convinti che non ci sia più bisogno di andare avanti e da quel momento non c’è più niente che abbiano voglia di imparare dagli altri o dal mondo. Quando qualcuno gli propone una versione dei fatti diversa dalla loro, sorridono e annuiscono, aspettando che anche tutti gli altri diventino pesanti come loro. Se ne stanno al sicuro dentro questa minuscola bolla costruita da quattro, cinque idee al massimo e tutto quello che rimane fuori non esiste. Alla sua età non li sopportavo i tipi così, e non li sopporto neanche adesso che sono uno di loro.

− no, non me l’hanno insegnato

Lui però non sembra infastidito, non so se la conosce questa parola, “condiscendente”, se lo sa cosa significa. Forse lui non ci fa ancora caso perché è solo un ragazzino e alla sua età sono tutti condiscendenti con lui, tutti che pensano di dovergli spiegare come si respira.

− quanti anni hai?
− quindici

Quindici ma sembra più grande, eppure l’avrei detto che erano quindici, non ha la faccia di un uomo, ha la faccia di un ragazzo che sembra più grande della sua età. Ce l’avevo anch’io a quindici anni, e avevo anche lo sguardo come il suo, le pupille lucide, bagnate. Il ragazzino guarda tutti quei fiori che continuano a galleggiare sull’acqua. Li guardo anche io mentre piano piano si allargano, spinti da una marea lenta e costante, spinti da una deriva.

− e questi?
− questi cosa?

Faccio finta di non aver capito, voglio che me lo chieda davvero, voglio vedere come me lo chiede.

− Sono cresciuti qua?

Mi sta simpatico questo ragazzino di quindici anni, penso che qualche minuto fa voleva salvarmi la vita, mi faceva la paternale e diceva che se non c’era lui ero già morto. Adesso invece è troppo educato per chiedermi che cazzo ci faccio in mezzo al mare con tutti questi fiori che galleggiano attorno alla mia canoa. Non lo so nemmeno perché mi sta simpatico, forse perché mi somiglia un po’ o forse per tutte quelle cose in cui non mi somiglia per niente, col mio stesso sguardo, la mia pelle bruciata e con questo modo di fare pieno di vita e di spirito che io invece non ho avuto mai.

− a chi sei figlio?
− a mia madre

Mi sorride un po’ sbruffone.

− la conosco?
− non lo so, la conosci?

Forse lo sa che cosa significa condiscendente, magari non come lo so io, su nella testa, ma come lo sa un ragazzino, giù, nella pancia. Forse l’ha sentito che sono stato un po’ condiscendente con lui e adesso che sono io a fargli le domande, adesso che sono io dei due a non sapere di cosa stiamo parlando, ne approfitta e mi prende in giro perché finalmente non posso più sorridere ed annuire.

− e tuo padre?
− e il tuo?
− il mio è morto... ieri

Lo dico e subito me ne pento, ho esagerato, non se la meritava una risposta così, mi stava solo prendendo un po’ in giro. È strano però, mi aspettavo che adesso si sarebbe imbarazzato, mi aspettavo che sarebbe arrossito e che avrebbe chinato il capo verso il basso e invece continua a guardarmi e sono io che dopo un po’ devo abbassare la testa verso l’acqua. Ed eccomi lì, circondato da una corona di petali mentre mi guardo negli occhi da solo, perché i suoi non li reggo. Un’onda scivola sotto la punta della mia canoa e la fa sbattere contro la coda della sua, entrambi fissiamo per qualche secondo il punto dell’urto.

− sei il figlio di Masino?

Mio padre era alto un metro e novanta più o meno, aveva le spalle larghe e piene di nervi, la barba ispida e bruna fino ai sessant’anni quasi, prima che s’ingrigisse tutta. Era un uomo silenzioso, di poche parole, eppure in paese l’hanno sempre chiamato Masino, chi sa perché. Annuisco, sono il figlio di Masino sì, quanto tempo era che nessuno me lo chiedeva?

− lo conoscevi?
− andavamo in canoa insieme

Mio padre e questo ragazzino andavano in canoa insieme, chi sa se portava anche lui sotto la montagna. “Se non stai attento la risacca ti piglia e ti sbatte contro gli scogli”, mi diceva così mentre pagaiavo a due metri di distanza dalla parete di roccia. Mi sono sempre chiesto perché non mi portava mai al largo, perché ogni volta rimanevamo attaccati alla montagna. Pensavo da un lato che forse voleva davvero farmi sbattere contro gli scogli e dall’altro però che se rimani vicino alla costa almeno non ti puoi perdere, mentre il mare aperto ti porta sempre lontano da casa. Me lo chiedevo da ragazzino e ancora non so decidermi tra queste due risposte, che sono entrambe giuste per mio padre ma l’una o l’altra farebbe la differenza per me.

− e l’eskimo? Non te l’ha insegnato?
− nemmeno lui lo sapeva fare

È vero, non lo sapeva fare nemmeno lui, se glielo chiedevi ti diceva che non ne aveva bisogno, che la sua canoa non si ribaltava mai, nemmeno se gli passava accanto un sottomarino. La rimessa dove adesso lavora Claudia prima era sua, è stata sua per quarant’anni, ha imparato ad usare la pagaia prima dei piedi, ma l’eskimo non ha mai voluto impararlo, non gli serviva, diceva lui. E una volta però me lo disse, solo a me, e poi mi fece promettere di non dirlo a nessuno. Mi disse che aveva paura, e quando stava sottosopra con la testa fra i pesci, il cervello gli si spegneva e non riusciva più a tornare su. Sapeva come farlo, voleva farlo, ma non riusciva a farlo. Il ragazzino mi indica i fiori.

− erano per lui questi?
− sì...
− e perché li hai portati qua?
− perché casa nostra odorava di roccia...
− ... e di muschio

Sì, roccia e muschio, pensavo di essere l’unico a saperlo e invece anche questo ragazzino se n’era accorto. La mia casa ha il soffitto basso, le mura irregolari, tutte frastagliate e piene di graffi, scavate nel ventre della montagna, che scende silenziosa fino al mare e lì diventa scogli e rumore di onde che salgono e ritornano a fondo. Quando sono partito ho iniziato subito ad abitare altre case, ho vissuto anche in qualche città di mare per un po’ di tempo, ma quel rumore e quell’odore non li ho più trovati da nessuna parte. Adesso non ci pensavo più da parecchio ma quando ieri sono ritornato in quella casa, l’ho notato subito. Il suono delle onde era sempre lì ma l’odore no, quello era scomparso. Eppure la roccia c’era ancora, non era diventata polvere, e il muschio continuava a crescere con la stessa ostinazione di sempre. Sono andato a dormire sperando che il giorno dopo ogni cosa sarebbe tornata al suo posto.
Quando ho aperto gli occhi stamattina ho respirato a lungo, riempiendomi i polmoni più che potevo, sperando di cogliere nell’aria una traccia. L’unica cosa che sentivo però, era l’odore acre di fiori vecchi che infestava la casa. E ho deciso che quello non era più il loro posto, che se quella era ancora la mia casa, allora volevo sentire il suo odore. Ho preso tutti i fiori, li ho infilati nel mio vecchio borsone impermeabile e sono venuto qui, e non pensavo di poter condividere qualcosa del genere con un altro essere umano ma invece questo ragazzino mi dice che li sentiva anche lui la roccia e il muschio, che non ero l’unico.

− lo conoscevi bene mio padre?
− sì... tu?
− lo conoscevo da tanto

Il ragazzino gioca con la pagaia facendola scorrere sulla superficie dell’acqua, si rinfresca un po’ le gambe lunghe e magre. Quand’ero più giovane vivevo momenti come questo in continuazione, avevo tutte queste ramificazioni ancora ampie, che s’intrecciavano con quelle degli altri. E spesso i miei incontri diventavano legami, idee o intimità. Poi andando avanti ho perso quasi tutte le mie fronde, ne sono rimaste quattro o cinque davvero robuste, che ancora resistono. Adesso riesco ad intrecciarle solo con pochissime persone, con tutte le altre invece i miei rami s’infrangono contro i loro e ci tengono lontani. Non mi capitava da anni un momento così, con un ragazzino di quindici anni poi. Lui non lo sa ancora quanto diventerà raro tutto questo e adesso vorrei dargli qualcosa, così quando avrà la mia età, si ricorderà di questa mattina e magari sentirà quello che sento io adesso, e c’intrecceremo di nuovo, coi nostri rami diacronici, fuori dal tempo. Sgancio il mio paraspruzzi, lo sfilo via e glielo lancio, lui lo prende al volo, sorride, se lo infila rapido e lo aggancia ai bordi della sua canoa, poi mi guarda come per chiedermi “e ora?”.

− e ora?
− e ora ti butti, poi ti fai forza col busto, non con le braccia, col busto
− e se non lo so fare?
− prova

Sono tranquillo con questo ragazzino perché se voleva dirmi di no me lo diceva, non è uno di quelli che dicono sempre di sì agli adulti solo perché sono adulti. Se mi ha detto di sì significa che vuole farlo sul serio e forse è un po’ pericoloso, ma io non sono né suo padre né sua madre e se vuole fare una cosa al massimo posso aiutarlo, non impedirglielo. Lui inizia lentamente a dondolarsi, un po’ a destra, un po’ a sinistra, ma gli serve una piccola spinta per decidersi. Aspetto qualche altro secondo, poi gliela dò io, lui s’inclina verso l’acqua, mi rivolge un ultimo sguardo pieno di spavento.

− aspetta!

Ma non c’è più niente da aspettare, è già dentro l’acqua e subito inizia ad agitarsi in maniera convulsa, però non muove le braccia. Gliel’avevo detto che non doveva muoverle e lui le tiene ferme, attaccate al busto, che continua a scuotere come se indossasse una camicia di forza. Si solleva di qualche centimetro da un lato, poi ondeggia e si solleva un po’ dall’altro, ancora qualche tentativo e poi ci potrebbe riuscire davvero. Invece si ferma, ha finito il fiato, allunga una mano oltre la superficie dell’acqua in cerca di un appiglio, io avvicino la punta della mia canoa verso le sue dita. Si aggrappa, si tira su, respira ad ampie boccate, tutt’intorno a noi l’acqua s’increspa. Gli ultimi fiori rimasti si allontanano ancora un po’, e ora non sono più miei né di mio padre, sono del mare, come lo siamo io e questo ragazzino che gonfia e sgonfia il petto un litro d’aria alla volta.

− adesso torniamo, tranquillo

Scuote la testa.

− fammi provare di nuovo

Un po’ ci speravo che me lo chiedesse, ma a casa c’è mio fratello che a quest’ora si starà svegliando e appena si accorge che sono spariti tutti i fiori mi cercherà, non mi troverà e si arrabbierà con me. Dirà che avrei dovuto chiederglielo e vorrà dirmelo in faccia quanto ce l’ha con me, per essere sparito quella mattina con tutti i fiori di mio padre e quindici anni fa con tutte le sue lacrime. E questo glielo devo a mio fratello, questo almeno, il diritto di urlarmi addosso se lo vuole, che se non la butta fuori tutta questa rabbia, poi gli marcisce dentro e questo non se lo merita.

− è tardi

Annuisce e volta lo sguardo verso la riva, anche lui ci aveva sperato che dicessi di sì, ma non vuole concedermela la sua delusione, ha ragione, che cosa ho fatto per meritarmela?

− se vuoi ci vediamo domani mattina

Mi guarda negli occhi, annuisce, contiene un sorriso intero e lo spezza a metà, dissimulandosi a malapena. Punto la mia canoa verso la riva.

− andiamo?
− va bene

Mi metto in testa, lui dietro a seguire il mio ritmo, rimaniamo in silenzio per tutto il viaggio ma non è una mancanza, è che quel ritorno vogliamo farcelo per conto nostro. Il sole inizia a picchiare più forte, sulla riva vedo i primi bagnanti che si sistemano, una canoa è già in acqua e Claudia sta allacciando i giubbotti di salvataggio addosso ad una coppia giovane, sui vent’anni. Gli fa vedere come si impugna la pagaia, con le braccia ad angolo retto, la rotazione del polso e tutto il resto. C'è un mormorio diffuso sulla spiaggia, i gabbiani si sentono solo in sottofondo ora, hanno lasciato il posto agli uomini. Le punte delle nostre canoe toccano la sabbia, scendiamo, Claudia alza lo sguardo e ci nota, si avvicina al ragazzino, lui mi poggia una mano sulla spalla.

− allora domani mattina?
− alle otto

Sorride, capovolge la canoa ed inizia a sollevarla, prima dalla coda, poi dalla punta, per svuotarla di tutta l'acqua che ha imbarcato, Claudia lo raggiunge.

− avevi detto cinque minuti
− che ora è?
− è l’ora che ti muovi, oggi siamo pieni
− scusa ma’, finisco qua e arrivo
− no, tu vai, qua faccio io

Lei gli prende la canoa di mano e continua a svuotarla al posto suo. Lui fa un passo indietro, la guarda, mi guarda, poi si allontana. Raggiunge il cassone di plastica ed inizia a servire i clienti. Io non riesco a staccare gli occhi da Claudia, che sente il mio sguardo ma fa finta di niente e continua come se nulla fosse.

− non lo sapevo che avevi un figlio
− e perché lo dovevi sapere?

Claudia rimane in silenzio e prende a svuotare anche la mia canoa. Ha ragione, che mi aspettavo? Che me ne andavo da questo posto e qui rimaneva tutto uguale? Chi torna ha sempre questa idea assurda di ritrovare tutti pronti ad aspettarlo e quando arriva avanza pretese ridicole, vuole gli stessi odori, gli stessi suoni e le stesse persone di sempre. Ma per tutto questo tempo sono andato avanti io, è andato avanti questo paese e tutti quelli che ci stanno dentro, e pure Claudia ovviamente, anche se ha la stessa gobbetta sul naso di quindici anni fa. Prende la sua canoa, io prendo la mia, camminiamo in silenzio sul bagnasciuga e le poggiamo insieme alle altre, attenti a rispettare l’ordine dei colori, rosse, verdi e blu.

− domani mattina andiamo in canoa insieme, gli insegno l’eskimo
− non partivi domani mattina?
− devo prima sistemare due cose

Claudia non risponde.

− allora?
− cosa?
− la canoa, domani mattina, per te va bene?

Claudia rimane ferma per un po’, poi sorride e annuisce. Si volta a guardarlo, il ragazzino sta aiutando un uomo sui sessanta a infilarsi il paraspruzzi, appena ha finito solleva due canoe come se non pesassero niente e le porta verso la riva. Ci ho parlato per mezz’ora buona e non gli ho nemmeno chiesto il suo nome, me ne rendo conto solo adesso.

− come si chiama?
− non te l’ha detto?
− no
− e allora glielo chiedi domani

Claudia continua a guardarlo, anche io mi volto verso di lui e il ragazzino sente i nostri occhi addosso, si gira e ci guarda, coi suoi occhi bagnati, la pelle bruciata e l’espressione più adulta degli anni che ha. Claudia torna a guardare me ed io lei, che poco a poco diventa seria. Questa è una di quelle rare volte in cui il nostro silenzio non riesce a dire tutto quello che vorremmo. Adesso è imbarazzo e paura e dolore, e c’è una domanda che devo farle, non ne ho nessun diritto ma non fa niente, magari mi manda a quel paese, però intanto io non posso salutarla senza averglielo chiesto.

− e il padre?





foto di copertina: Bruno Stefanile

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