“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 12 February 2020 00:00

Lo stato delle cose: intervista a Giuseppe Muscarello

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Questa settimana per Lo stato delle cose andiamo in Sicilia per incontrare Giuseppe Muscarello. Nel suo caso di si è fatta un’eccezione rispetto al range di età in quanto Giuseppe Muscarello, cinquantenne, riunisce in sé molte caratteristiche difficili da reperire in un’artista che ha deciso di operare nella danza in terra di Sicilia: coreografo, danzatore e direttore del Festival Conformazioni. La sua visione è quindi così particolare che ci è sembrato necessario fare questa piccola eccezione.

Ricordiamo che Lo stato delle cose è un'indagine volta a conoscere il pensiero di artisti e operatori su alcuni temi fondamentali quali: condizioni basilari per la creazione, produzione, distribuzione, rapporto con il reale e funzioni della scena.


Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Quando sento la necessità di creare qualcosa da mettere in scena parto sempre da una mia esigenza. Immediatamente dopo però mi pongo il problema di come condividerla, quali sono le vie per la trasmissione e di come far fare allo spettatore l’esperienza, perché quest’ultima credo sia l’unica via possibile. Affinché una creazione scenica sia efficace deve riuscire anche nell’impresa di fidelizzazione del pubblico. Confido molto sul fatto che la danza sia una pratica concreta e che il corpo possa senza dubbio essere un oggetto artistico in grado trasmettere un’esperienza. Se posso sintetizzare su cosa sia la peculiarità della creazione scenica e la sua efficacia direi: il desiderio come motore per creare, darne forma e poi condividerlo. Non pretendere di andare in scena solo perché vogliamo che il pubblico ci restituisca il senso di quello che facciamo.


Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa − aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni − eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Questo è un argomento che mi tocca particolarmente. La mia generazione, parlo dei cinquantenni, è stata abbastanza sfortunata in tal senso, perché non ha avuto le opportunità che hanno ora i giovani, i cosiddetti under 35. Bisogna anche sottolineare come le risorse destinate al contemporaneo siano sproporzionate rispetto a quelle destinate ad altri settori dello spettacolo dal vivo, per non parlare poi dell’enorme somma destinata agli enti lirici, che sicuramente hanno esigenze altre rispetto a una piccola compagnia ma che comunque nel loro insieme usufruiscono di più del 50% dell’intero FUS. Fatta questa premessa; è vero, gli strumenti produttivi sono cambiati e aumentati ma ho comunque la sensazione che ti venga sempre chiesto tantissimo in cambio di molto poco.


La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro Paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Credo molto nella funzione dei festival come motore dell’innovazione del sistema teatrale e coreografico. Da quattro anni dirigo Conformazioni, un festival di danza contemporanea a Palermo e con altri direttori artistici condivido e promuovo con forza l’idea che i festival italiani dovrebbero essere il fulcro della distribuzione dei lavori. La funzione dei festival dovrebbe essere quella di presentare artisti e opere ai vari programmatori cui è affidato il compito di circuitarli capillarmente. Ma per fare ciò andrebbero potenziate le strutture aumentando le risorse economiche e questo sarebbe possibile se le istituzioni, dal ministero, alle regioni, ai comuni, riconoscessero questa centralità distributiva ai festival. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di creare una reale sinergia tra teatri come i Nazionali o i TRIC e i festival, sinergia che potrebbe non solo favorire la distribuzione dei lavori, ma anche aiutarne la distribuzione nei processi di internazionalizzazione.


La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Trovo che il teatro, la danza, lo spettacolo dal vivo tutto, abbiano esattamente questa funzione, rivendichino con forza la loro irriproducibilità, chiamino lo spettatore alla presenza fisica del qui e ora. Questa era ed è la loro funzione. Nello spettacolo dal vivo, che non si chiama così a caso, non è ammessa fissità. Questa è la sua forza e la sua debolezza insieme. Uno spettacolo teatrale raramente ci regalerà immagini che si imprimono nell’immaginario collettivo come alcune inquadrature di un film, così come un film non ci potrà dare l’emozione di sapere che quello che stiamo guardando è irripetibile. Ne L’opera d'arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Walter Benjamin, già nel 1935, poneva la questione di come fosse cambiata la fruizione dell’arte dal momento che poteva essere riprodotta perdendo così la sua unicità (la fotografia, il cinema, ecc). Ecco, io credo che l’arte riproducibile e quella irriproducibile siano semplicemente due facce della moneta, entrambe necessarie.


Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Io credo che l’arte non possa e non debba essere scollegata dalla realtà. È semplicemente impossibile, perché questo accada gli artisti dovrebbero essere persone che non vivono nella realtà. E in particolare, come potrebbero artisti che appunto si definiscono “contemporanei” non essere specchio della contemporaneità? Detto ciò, non credo che ci sia un solo modo possibile di confrontarsi con il reale e nemmeno che ci siano strumenti più validi di altri. Credo che ogni artista debba trovare la propria strada che può essere quella di Milo Rau che affronta la realtà nel suo senso più “politico”, utilizzando i mezzi del cinema/documentario o quella di Pina Bausch che si è confrontata con la realtà guardandola da un’angolazione più “personale” e intima, usando come mezzo centrale ovviamente il corpo.

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