“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 05 March 2021 00:00

InFLOencer: ‘poraccitudine’ di penose stelle appannate

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Una sera d’autunno del 2014, mentre passeggio a via Bonito, mi squilla il telefono e dall’altra parte c’è Claudia Cardinale. Sì, proprio lei, quella de I soliti ignoti e . L’istinto è quello di riattaccare subito: deve essere lo scherzo di qualche rosicone che, avendo letto il mio nome nei titoli di coda dell’ultimo film della Cardinale, mi vuole sfottere.
Tuttavia, mentre sto per farlo, mi tornano in mente tutti quelli che, proprio pensando ad una burla, hanno azzeccato figurelle memorabili: il Maestro Cenci che riattacca il telefono a Mina; mio fratello che riattacca a Russell Crowe e tutte le vecchine che all’epoca riattaccavano a Papa Francesco, quando prese la fissa di chiamare a casa della gente alle quattro del pomeriggio, mentre va in onda Il segreto. Cautamente dico due parole in tono neutro e capisco che non è uno scherzo telefonico.
La divina Cardinale voleva complimentarsi con me per le musiche del film, per la mia voce e compagnia bella. Incredibile? Non così tanto in verità. Qualche mese prima alla finale di Musicultura, Dulce Pontes mi corse letteralmente incontro per dirmi che D’amore e d’altre cose irreversibili era la canzone più bella in gara. Dulce Pontes, mica Tina Sacco. Tranquilli, non starò qui a parlarvi di me e di quanto sono bella e brava. Voglio parlarvi delle stelle, perché recentemente ci ho dovuto ripensare parecchio, per interpretare una penosa vicenda che adesso vi racconto.
Due settimane fa mi chiamano al telefono per un lavoro. La sonorizzazione di uno spettacolo teatrale per l’esattezza. Il progetto sembra carino e c’è da comporre anche un inedito. Parte una blanda contrattazione, leggo il copione, cerco tra i vecchi provini qualcosa di buono. In poche parole metto in moto la macchina e tutti siamo contenti.
Passa qualche giorno e arriva il messaggino vocale. Avete presente quello rapido che mandate al fidanzato o all’amante e che non si deve utilizzare per rimuovere una persona da un incarico? Ecco, proprio quello. Esordiva con una sequela di complimenti, scuse e poi senza una spiegazione mi tagliava fuori. Io, che il messaggio vocale lo mando solo al fidanzato e all’amante, prendo il telefono e chiamo. Nella testa la voce di Patrick Swayze buonanima mi ripete nessuno può mettere Baby in un angolo”, dove Baby ovviamente sono io. Di fronte alla mia richiesta educata e diretta di una spiegazione, c’è poco da tergiversare e salta fuori il vero motivo della mia cacciata dal capolavoro del secolo. La signora protagonista – che per inciso non è né Dulce Pontes, né Claudia Cardinale – appena ha saputo che a fare le musiche era una donna ha cominciato a farsi venire i riscenzielli, cioè a fare i capricci.
La produzione mi assicura che non c’è nulla di personale, il problema è che sono una donna, più giovane, competente e questo mette a disagio la signora.
Ero senza parole. Basita e lusingata in un solo tempo. Alla vigilia dell’otto marzo, in un tempo in cui non si fa altro che parlare di discriminazione di genere, il mood della più bella del reame, anche detto del ce l’ho solo io, è ancora duro a morire.
Che pena. Cinquant’anni di mestiere e l’unico modo per esistere sulla scena è fare il vuoto intorno.
Che asfissia se mi penso settantenne, sola e incerta, in lotta contro le rughe e contro le altre donne. Scaccio subito via questo pensiero, perché tali meschinità non appartengono a quelle come me, che va bene la pelle liscia, ma il cervello a regime viene prima di tutto.
E non mi venite a dire che bisogna comprendere, che la vecchiaia è una brutta bestia. Ci sono signore del palcoscenico che portano le rughe come spille, non si gonfiano il viso come un canotto e sono divine. A sessanta, settanta, ottanta e novant’anni. Divine sempre.
Signore del palcoscenico che lavorano insieme alle altre donne ribaltando ogni giorno questo insopportabile cliché dell’oca giuliva, competitiva e incapace di solidarizzare. Queste sono le dive, le vere stelle. Quelle che brillano su tutto e nonostante tutte le altre stelline.
Quando invece hai bisogno di fare i capricci e te la danno vinta come si fa con una vecchia zia, petulante e rimbambita, non ci sono stelle che brillano, ma solo una nebulosa, appannata e informe.
E allora penso che aveva ragione Asia Nuccetelli, la nostra guru del saper campare tra donne, quando scolpì nella nostra storia di italiane un’epigrafe intramontabile che volentieri faccio mia: “Poraccitudine has no limits!”.

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