“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 15 May 2015 00:00

Beauty is truth, truth beauty – that is all

Written by 

“Forse non si desiderava tanto essere amati, quanto essere capiti”
(George Orwell)

 

Da quando mi sono imbattuta in questa frase ho riflettuto spesso sul suo significato, su come nella struttura stessa del periodo due parole apparentemente affini si trovino, in realtà, in netta subordinazione l’una con l’altra. Essere amati e essere capiti. Amare non vuol dire forse capire, comprendere, essere empatici con l’amore e il dolore dell’altro? E capire non vuol dire forse trascendere la propria dimensione per abbracciare la mente dell’altro, i suoi pensieri, la sua prospettiva, i suoi stranieri bisogni? Forse a una prima lettura potrebbero essere scambiati per sinonimi, una sorta di sintesi senza la quale le relazioni sarebbero monche in partenza.

Eppure, col passare del tempo, riflettendo con più forza e con l’aiuto di supporti artistici che si sono incaricati di portare in scena modelli complessi di sentimenti, ho capito che c’è un abisso profondo e incolmabile tra di essi e che sarebbe interessante approfondire, non fosse altro per capire sinceramente quanto al di là dei prodotti romantici e totalizzanti, le persone sentano desideri diversi verso se stessi e, conseguentemente, verso l’uomo e la donna che scelgono di avere al proprio fianco. È una questione di scelte, inizia tutto con l’abbandono tradizionale delle relazioni come rifugi incondizionati, è l’epifania dell’intelletto che subordina l’arcaica forma d’amore e le sue derive romantiche, non si cerca più l’amore immeritato e privo di giudizio, si cerca ossessivamente qualcuno di completo che riesca a reggere il gioco dei pensieri e in questa giostra piena di nevrosi amarsi non vuol dire più accettarsi a priori, ma capire e stare al gioco, fino alla fine. Sembra una specie di alleanza, un contratto, dove non c’è più posto per il fluire assonnato e svilito degli amori ignoranti, due individui si scelgono per un motivo che conoscono, un segreto che condividono, una parola indecente in fondo a tutto, il mondo resta fuori da questa alta manifestazione di sapienza, ed è proprio questo che rende i protagonisti di tali storie straordinari nel mondo. Il pensiero si fa pericoloso, i labirinti che crea non sono accessibili a tutti, si adorano i demoni della propria coscienza e una forma di narcisismo si impossessa delle nostre facoltà più alte, è quindi inevitabile che solo chi è in grado di percorrere questi sentieri senza inorridire sia alla fine l’eletto. Può sembrare una discriminazione ai massimi livelli, uno scarto sistematico, anch’esso un debole complesso che cerca protezione, ma non è così. L’empatia in questo caso è una pretesa più che legittima, non si può apprezzare chi ci apprezza senza conoscerci, si può apprezzare chi conoscendoci intimamente non è disgustato da quello che vede, ma ne è attratto. Una carezza dopo la stanchezza non ha più valore qui, non si cercano più comodità e sicurezze, si cammina sul filo sottile ed elastico dell’esistenza, sulle linee spezzate dell’interiorità e sulle parole incomprensibili, rapsodiche, come le manie e i vizi che chi ti capisce poi ama. È un particolare gioco del silenzio, solo che questo non riguarda le due parti chiamate in causa, ma riguarda il resto, riguarda la plebe, quella porzione di universo estromessa perché incapace di capire, soprattutto incapace di sopportare, senza impazzire, l’idea che l’amore non sia un abbandono dolce, ma uno sguardo duro e franco tra due persone. È la morte dell’amore materno, il trionfo della conquista. Tutto ciò può degenerare? La risposta è sì, può e sicuramente succede. C’è chi non si dimostra all’altezza e allora scappa via, concedendo alle tue visioni i nomi comuni attraverso i quali si banalizza l’esistenza. C’è chi è disposto a tutto pur di continuare a giocare, a costruire piano dopo piano l’architettura di un progetto straordinario, esclusivo, per recuperare il confederato stanco. C’è chi poi arriva all’acme di questo cielo e sputa in faccia a Dio, o a chi per lui. Comunque sia, in tutti questi casi, l’amore non è niente rispetto a due amanti fedeli liberi dalla superstizione e pienamente fautori della propria creazione.

Per offrire degli spunti interessanti, intendo prendere come campioni d’analisi alcune coppie cinematografiche proposte durante questi ultimi anni. Sorvolerò sulle matrici letterarie.

Frank e April (Revolutionary Road di Sam Mendes)

“Per anni ho pensato che noi condividessimo un segreto: che noi due saremmo stati meravigliosi nel mondo”.

È questa la frase che April, giovane donna americana, rivolge al marito, quando tutti i sogni e la grandezza sembrano ormai sfumati in un incubo mediocre e quieto. La storia è semplice, un uomo e una donna dai grandi progetti, dai grandi desideri, entrambi hanno qualcosa di diverso dagli altri, qualcosa che li fa sentire distanti dai bisogni che la gente comune pensa di avere. È subito evidente tra di loro che qualcosa li accomuna intimamente, appena si conoscono vivono come dentro una bolla, un’estetica della verità verso se stessi che non può essere taciuta, vive alla base del loro agire. Si sentono duri e puri, immuni dalla prosaicità e dall’illusione del sogno americano tanto commercializzato e tanto banale. Hanno una vista acuta, pensieri coerenti, idealità colte, ridono del loro universo tutto uguale e tutto fiero, non professano nessuna fede, le loro ambizioni sfrecciano su binari diversi da quelli prestabiliti dalla società. Ridicolizzano la monotonia della classe media americana, il prato incolto non li spaventa e la domenica mattina non sentono l’esigenza di redimersi l’anima. Parlano di viaggi, di mete lontane, è pura magia letteraria, sono i visionari moderni, quelli testardi nel dare voce a quell’urlo feroce che protesta dentro. Il loro incontro è una magia, la fascinazione di due menti brillanti emana potenza, è tutto più piccolo e in sottofondo quando parlano tra di loro, non c’è niente e nessuno che possa interferire in questa comprensione profonda, in questa pienezza che potremmo semplicemente chiamare ‘essere un uomo di fronte a una donna’. È il momento perfetto in cui tutto o segue il corso delle proprie scelte, delle proprie nature, oppure si disperde, come un palloncino sgonfio che esplode e fa un grande rumore, un boato d’aria vuota in un cielo infinito e sempre uguale.
Così accade, a piccoli passi, April e Frank rimangono preda delle loro stesse convinzioni, arriva un giorno in cui ti rendi conto che ripetersi ogni sera, prima di andare a letto, il ritornello secondo il quale si è speciali, non basta. La vita esige delle prove, non si può credere, si deve essere. “La nostra intera esistenza qui è basata sulla grande premessa che noi siamo speciali e superiori a tutto il resto, ma non lo siamo, siamo tali e quali agli altri. Guardaci, abbiamo accettato la stessa ridicola illusione, l'idea che uno deve ritirarsi dalla vita e sistemarsi". April non riesce a rinunciare al loro grande progetto, non riesce ad appassire senza aver cercato almeno una volta, solo una, di raggiungere l’acqua. Ovviamente nel film come nel libro l’analisi poi si carica di elementi nuovi: l’epoca, il contesto sociale, la lotta tra i generi, il rassicurante mito americano, la felicità in pillole, l’abbagliante fuoco fatuo che contorna tutto e rende l’orizzonte una trincea senza speranze. Frank si adagia, si mischia al grigiore della stazione, ai mille cappelli strappati dal vento, china il capo e accetta tutto, i rimasugli del furore si stanno spegnendo sotto il peso di una vita sicura, infelice, ma sicura. Quello che resta è una vuota disperazione annacquata con un po’ di alcool e una o due scopate serali. Quel ritornello in testa sul fatto di essere comunque speciali è una consolazione insufficiente per sentirsi diversi in mezzo a tutta quella gente che sorride e aspetta di morire senza aver mai detto a se stessi la verità. L’epilogo è tragico, Frank non danza più con il delirio di April, le propone lo psichiatra.
Quand’è che ci è accaduto?
Questa è una domanda così pesante che sprofonda in un vuoto cosmico, in un silenzio senza appello, in un buio insondabile. Nella normalità, nella realtà solo pochi eletti resistono, e resistere significa combattere e ferirsi, significa puntare tutto su qualcosa che forse non esiste ma pulsa con violenza. Tradire chi ti ama è ignobile, ma tradire chi ti capisce è folle, è perdere tutto in un secondo, rinunciare alla possibilità più grande, la rivalsa finale. Era tutta una bugia? No, era troppo grande, umano troppo umano per esistere.

Nick e Amy (Gone Girl di David Fincher)

"Siamo avvelenati. Noi ci completiamo l’un l’altro nel più detestabile, peggiore modo possibile".

Nick e Amy sono una coppia speciale, si incontrano e si intendono in un modo speciale, non c’è ordinarietà nel modo in cui si parlano, nella maniera in cui si intendono, nei riti che inscenano per tenersi desti e in equilibrio sul sottile filo dell’affabulazione mentale. Anche loro in mezzo alla gente brillano di una luce abbagliante, sono affascinanti, saette spesse che si intravedono per un attimo nel buio più fitto della convenzionalità. La ritualistica è un gioco complesso che inscenano come in una tragedia perfetta. Il mondo è una sbavatura stupida e trascinata, monotona e indifferente. Sono il nucleo incandescente che galleggia nell’acqua tiepida del balbettio generale. La tensione è alta, bisogna tenere duro, esserne all’altezza. Anche in questo caso è l’uomo che si dimostra debole, la troppa tensione lo sfinisce, cede il passo alla stanchezza, non riesce più a reggere la sua parte di filo. Qui comincia il dramma, il gioco depravato, l’estenuante riconquista della parte che ha mollato la presa. Amy non può accettare che il suo unico interlocutore, il suo lato oscuro della luna se ne sia andato preferendole una qualsiasi vita più semplice, più facile. Com’è possibile concepire che qualcuno possa barattare questa sinergia, il mistero condiviso, con una più praticabile realtà, con una logorante insensibilità. Nessuno può illudersi di stare zitto e tacere per sempre.
Il film porta in scena un vero e proprio thriller, con una sceneggiatura complessa. Il gioco e l’enigma che Amy inscena è brutale, al limite della follia, nel suo piano lui deve far ritorno e a questo proposito ogni cosa è sacrificabile, la vita stessa. L’ha tradita, e solo quando al limite della tensione Nick riuscirà di nuovo a decifrare segnali che solo lui può leggere, allora lei tornerà e lo libererà. In realtà è lui che ritorna, è lui che prestandosi al suo gioco, al loro gioco, facendosi unico possibile interprete di una trama impossibile, riconquisterà l’olimpo della loro spaventevole intesa. È una realtà parallela quella che lei ha in serbo per loro, un piano che non prevede umili, ma solo feroci arguzie intellettuali. Ma non è solo la mente in questo caso a contendersi la vittoria, è la condivisione particolare, unica del loro singolare e straordinario cosmo. Nessuno è ammesso a parte loro due, nessuno può comprendere e ricucire insieme i pezzi attraverso le tracce che lei semina, a parte loro due. È un rapporto di schiavitù fondato su meccanismi psicologici legati inestricabilmente. Basta un attimo ad Amy per capire che lui ha capito. È tutto quello che le serve, per riannettere il marito in quel gioco a due in cui si sanguina parecchio, in cui si rischia tutto, ma dove si è invincibili e privilegiati rispetto ai poveri insetti minuscoli incapaci di competere coi progetti maligni di Dio.

Frank e Claire Underwood (House of Cards di David Fincher, Joel Schumacher, James Foley)

"Io non voglio una versione, io voglio una visione".

House of cards è un film spietato, impossibile rimanere indifferenti di fronte alla diplomatica violenza che si mette in atto a scapito di tutti, contro tutti. Ovviamente, come negli altri due casi, non mi soffermerò a indagare i motivi del film e gli intrecci che l’hanno reso popolare, a ragione aggiungerei. Mi basta parlare brevemente dei due protagonisti e del loro rapporto vertiginoso e inquietante. Frank e Claire Underwood sono sposati, entrambi americani, entrambi con le mani nel pastone del potere, entrambi irriducibili e complici fino al disgusto. Non a caso ho scelto di affrontare questa coppia per ultima, poiché rappresenta il traguardo finale di quello che io intendo per complicità e compenetrazione assoluta tra due esseri umani.
Frank vuole diventare presidente degli Stati Uniti, la moglie vuole che lui diventi presidente degli Stati Uniti, ora ciò presuppone un gioco non indifferente di potere, un potere becero e magro rispetto alla fittissima rete di corrispondenze che unisce questi due individui qui. Marito e moglie da più di vent’anni, si conoscono intimamente, vogliono le stesse cose, si anticipano sulle mosse e sulle parole, le loro azioni convergono quasi sempre verso le stesse direzioni, il benessere dell’altro è una necessità per l’equilibrio dei piani, e se questo benessere richiede qualche tradimento sparso e arso non è un problema così grave per nessuno dei due. Quello che li lega è una visuale ampia e gigante, infinita e spropositata, l’acutezza dei loro sguardi (grandissimi attori) mette i brividi oltre a far sprofondare lo spettatore in uno stato di agitazione morale non indifferente. I valori più semplici sono banditi, sono alleati non custodi uno della moralità dell’altro, esistono insieme in quanto esiste una prospettiva comune, un’immaginazione spalancata verso l’invisibile mondo del potere e del dominio. Non si amano, ma amano la stessa cosa. In questa coppia si raggiunge il sublime postulato da Burke, quel sublime che ti spossa, ti disorienta, come se stessi sempre a contatto col terrore, ma mai troppo vicino, troppo palese da avvertirlo come una minaccia imminente. La diplomazia abbraccia per intero la loro storia, tra di loro non c’è l’abbandono spontaneo di una coppia, c’è un’austerità calcolata, voluta, compartecipata, sparano all’unisono. Sono i veri proprietari di un universo solo ed esclusivamente loro, gli appartiene una visuale alla quale nessuno è ammesso, la vedono lucidamente. Poi la fiducia, la cieca fiducia nelle azioni e nei pensieri, la sicurezza che ostentano è reale. Sono i custodi di un sogno, i sognatori che si dividono un solo sonno e una sola aspettativa. Si amano tecnicamente, come due vecchi colleghi, si appoggiano e si stimano. Lei lo tradirà per un periodo con un fotografo, ma alla domanda “Perché non sei rimasta?” risponderà giustamente che le occorreva qualcuno che potesse amare per più di sette giorni di fila. Ed è vero, l’arte è una bella professione, ma è una futile ed estenuante pretesa di riscrivere continuamente il mondo, lei lo vuole conquistare quel mondo e le serve un compagno come Frank, immune da qualsiasi sentimentalismo, da qualsiasi scrupolo in vista di quello che tocca distruggere per avere. Frank e Claire non si calpestano i piedi neppure se camminano ad occhi chiusi, si sono misurati centimetro dopo centimetro, non possono ferirsi perché in questa leadership i sentimenti sono su misura, cubetti di ghiaccio dentro uno stampo che divide l’acqua quando è calda.

Conclusione
Shakespeare aveva un viziaccio meraviglioso, nelle sue tragedie e nei suoi drammi tendeva a caratterizzare talmente bene i suoi personaggi da renderli riconoscibili, sia pure per un particolare insignificante o significativo. Però la tragedia aveva uno spessore tale che solo pochi eletti meritavano un posto in prima fila negli atti finali, così, spesso e volentieri (non sempre, però) nel secondo o terzo atto concedeva una dolce o brusca morte ai caratteri che non erano in grado di reggere la liricità delle ultime battute. Perché sto dicendo tutto questo? Perché persino Shakespeare aveva compreso, secoli fa, che per sopportare l’enorme peso di una storia bisognava esserne capaci, era necessario distinguersi in qualche modo non in virtù dei buoni sentimenti, ma in virtù della forza che da questi si sprigionava. Essere meritevoli del dramma non significa essere amabili, significa essere visionari.
E se Nietzsche vede in Socrate il diretto responsabile della morte della tragedia con la sua ambizione conoscitiva – poiché è impossibile conciliare la morale con la forza – qui la conoscenza non ha nulla a che spartire col valore, è piuttosto un atto di perversa potenza, è la verità immortale della bellezza, priva del sussidio etico che tutto scarnifica e indebolisce sugli altari.

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook