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Thursday, 27 June 2013 02:00

Che circo il Teatro!

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La parete di fondo nuda e annerita, con qualche macchia di bianco da pittura scrostata. L’assenza di quinte che permette la vista degli ingressi di lato. Certi lembi di legname da catasto o da vecchia scena in disuso. Una sedia a dondolo servita per chissà quale trama che prevedesse, in chissà quale tempo, una sedia a dondolo identica a questa. Un grosso lampadario di lumini e di luci che cala e che inclina. Assi di legno chiodate tra loro, cordame a vista, gangli e ganci a forma di esse che serviranno durante quest’opera. A destra e sinistra residui di vecchie locandine di spettacoli passati e già morti. Rumori fuori scena che alludono alla costruzione/distruzione di questo luogo di legno e di stoffe in cui, tutto questo falso, diventa “sacrosantamente vero” (martelli che battono, il cigolio di piccole rotelle ferrose, lo stridio di una sega). Una tinozza d’alluminio; un’altra più grande, di legno più chiaro. Un parato di “finto gocciolame” che serve per far scrosciare dell’acqua.

Si aggiungano: un interprete (che scopriremo essere l’Omino di burro) che attende gli spettatori in corridoio, seduto, sguardo fisso al pavimento o al muro di fronte, il gesto lentissimo con la destra: carezza il suo stesso abito e questa serie di scarpine minuscole che fa scendere dalle spalle e che rimandano ai bambini/ciuchini di cui fa commercio in Pinocchio.
Si aggiunga un altro interprete che già attende sul palco camminando con agio assai quieto, invecchiato, attendendo che il “chi è di scena” si compia davvero: guarda, riguarda, accenna ad un piccolo moto col capo, perlustra il suo spazio, vaga sul fondo, misura quasi la dimensione d’assito poi torna in ribalta, si siede, respira mentre le luci calano e comincia la recita. La sua prima battuta: “Miei rispettabili uditori, cavalieri e dame, buonasera. Noi siamo il circo…”. Dice proprio così: “Noi siamo il circo” mentendo sapendo di mentire; mentendo sapendo che noi sappiamo ch’egli mente lasciandolo mentire; mentendo sapendo che noi sappiamo ch’egli sa di mentire ma – noi e lui – accettando questa menzogna come una menzogna da condividere per quest’ora vissuta in comune.
“Noi siamo il circo” dunque dice, stando in teatro. “Noi siamo il circo” dice ma “circo” non vuol dire “circo” ma vuol dire “teatro” e vuol dire “teatro” perché L’Anima buona di Lucignolo è una metafora ovvero è una costruzione in cui le parole portano ad altre parole consentendo alle immagini di generare altre immagini perché il significato produca un significato diverso, ulteriore, differente da quello cui la patina delle cose visibili o udibili sembra qui alludere. L’Anima buona di Lucignolo è una metafora perché il teatro è una metafora – sempre – ed è una metafora perché genera il proprio discorso mascherandolo con un pezzo di fiaba o di favola di foggia circense perché parli della condizione teatrale senza parlare, in maniera diretta, della condizione teatrale.
Per questo la trama di Claudio Lauri (un’eccezione evidente nella modestia contemporanea della scrittura per la scena) poggia la sua fantasia iniziale alla fantasia originaria dei capitoli trentuno, trentadue e trentatré del Pinocchio di Collodi (il paese dei balocchi, la trasformazione in asinello, l’avventura burattinesca sotto al tendone del circo), l’impasta con certe immagini che potrebbero appartenere anche ai capitoli dieci ed undici (il gran teatro delle marionette) per generare uno spunto ri-narrativo che usufruisce – ad un tempo – del “come se” (credete a ciò che vi mostriamo come se…) ed al “c’era una volta” (c’era una volta e c’è adesso, in questo momento…) che sono di base al teatro.
“C’era una volta…” potremmo udire, pur non udendolo, perché il passato (tempo del ricordo) torna al presente (tempo della messinscena) mostrando ciò che racconta: la vicenda di questo circo andato in malora a causa dei traffici dell’Omino di burro che, ad esso, ha venduto due “ciuchini speciali” – Pinocchio e Lucignolo – che da fratelli/monelli si sono tramutati in fratelli/coltelli per amore verso la bella, bellissima, Fiordispina: l’uno s’azzoppa cadendo male e finendo al mercato; l’altro diventa abilissimo, artista di premiato valore (“Grande spettacolo di Gala! Per questa sera avranno luogo i soliti salti sorprendenti eseguiti da tutti gli artisti e in più sarà presentato per la prima volta il famoso Lucignolo, detto Stella della Danza”) finché non fuggirà dal teatro medesimo, indotto all’inganno dall’inganno dell’Omino burroso: quest’essere “largo più che lungo”, untuoso, carezzevole e viscido dei suoi viscidi affari. Finirà il gran circo per non avere più valore, attenzione, il suo ruolo; finirà Lucignolo per pagare dazio alla scelta, morendo della sua passione eccessiva, distorta, sfruttata, svenduta o tradita. Finirà, come ha da finire, il talento: svenduto, svilito, sconfitto.
Questa è la storia ma, la storia, non è la storia reale. Ciò ch’è parso a chi scrive, difatti, è che L’Anima buona di Lucignolo sia un chiaro rimando alla condizione del teatro che si affama, che stenta, perdendo equilibrio, rischiando la fine. Così dalla fine si riparte, quando ogni palco è già diventato un palco di polvere, abbandonato e in disuso: stanza d’oggetti che non servono a niente, accoglie un padrone il cui volto è sbiancato, le cui vesti sono lise e consunte e mangiucchiate dal tempo (il cotone che penzola dalla giacca, gli strappi agli orli dei pantaloni), le cui dita sono incancrenite dallo starsene immobili, senza più atti da compiere.
Egli è il capocomico di questa baracca delle finzioni, da sempre abituata ad andare per far andare la recita (“Ho viaggiato in quindici paesi”).
Egli è il capocomico di questa “grancassa mortificata” dai “restringimenti economici” e “ridotta all’osso”, della quale ad una ad una muoiono le bestie, della quale ad una ad una scompaiono le attrazioni.
Egli è il capocomico di questo spazio di fantasia, che s’appollaiava “in collina” (il luogo in cui sorsero gli antichi teatri), fuori dalla città, tra “un binario morto e una discarica di gabbiani monchi” (occorre forse ricordare che i teatri sorgevano dove sorgevano le carceri, i camposanti, le grandi montagne di carcasse animali?).
Egli è il capocomico e Pinocchio (un bastone dalla testa di ciuco) e Lucignolo (un adulto con ruolo da bambino) sono due attori mentre Fiordispina è la Fama, la Gloria, l’Applauso per cui si brama, per cui si litiga e che si insegue ovunque si sposti rischiando la sconfitta, la perdita, il tradimento disonorevole. E l’Omino di burro? Beh, questa figura di stoppa e di cenci, gattesca e assai morbida – che non impone ma persuade, che non induce ma consiglia, che non aiuta ma imbroglia – è il Commercio, il Denaro, la tentazione del Denaro fatto col Commercio dell’Arte. Ciò che ne viene, quindi, è la rappresentazione della fine delle rappresentazioni, rappresentata questa sera al Sannazaro soltanto per mezzo e per merito (frase diretta alla platea) “della vostra animatrice presenza”.
“Ora siamo qui”: è del teatro che si parla. “Ma che succederebbe se chiudessimo baracca?”: è del teatro che si parla. “Il nostro circo non è mai stato un circo normale, avevamo una responsabilità sociale noi”: è del teatro che si parla. “Adesso che il nostro circo sta morendo la società è in pericolo”; “Il talento… il talento… il talento non avrà più senso per questo pubblico”; “Nessuna passione è più allegra senza un pubblico”: è del teatro che si parla.
È del teatro che si parla in L’Anima buona di Lucignolo, la cui regia di Luca Saccoia fonde lo smascheramento epico della teatralità più evidente (le canzoni, il trucco sul volto, l’assenza di quarta parete, certe interrelazioni dirette col pubblico: “Lo sentite l’odore del mare? Sentitelo!”) ad un’immedesimazione attore/personaggio che – per quanto quasi assoluta – non è del tutto assoluta, lasciando labili lembi di consapevolezza testimoniale, quasi che l’attore ci parli, ad un punto, per dirci degli attori medesimi e del loro mondo in pericolo: uno sguardo più sincero degli altri, la permanenza di questo stesso sguardo un po’ più a lungo verso gli astanti, un mormorio silenzioso che l’accompagna quasi a dire o sottolineare: “Cercate di comprendere, vi prego, cosa vi stiamo rappresentando; di quale urgenza abbia il nostro discorso; di che importanza abbia esso anche per voi”.
Ponendo sul palco la diroccata tenda invisibile di questo circo che allude al teatro (e dove altrimenti un burattino è un bastone, un ciuccio è una maschera, un fanciulla è un cerchio di luce che s’alza? Dove, se non a teatro, un numero circense si svolge facendo volteggiare un’ombra a parete? Dove, se non a teatro, una pulce saltella invisibile o si mostrano a mano aperta le pere senza che, di pere, vi sia nemmeno la sagoma?), Luca Saccoia fa perorazione per l’Arte fuggendo dalle pastoie dei comizi comizianti quanto dagli slogan diretti e assai facili: egli difende l’Arte con l’Arte perché sa che è con l’Arte, innanzitutto, che l’Arte difende se stessa.
Costruendo un’illusione apparentemente funerea in realtà costruisce una messinscena in cui “l’odio non è vendetta, è amore” poiché è per amore che trascina e dirige questo spezzone di trama cattivo, macabro e triste. Ed è per amore che sancisce una fine (“Muore stasera Lucignolo e con lui, stasera, tutto il circo muore. Anch’io muoio ed anche questo mi dà sui nervi”) tentando di esorcizzare, con questa stessa fine presunta, la fine reale che questi nostri tempi minacciano.
“I giochi sono fatti” egli dice. Non fino alla prossima replica, tuttavia; non fino a quando spettacoli come questo saranno ancora su un palco.

 

 

 

 

Fringe E45
L'Anima buona di Lucignolo (Nel ventre del pescecane)
drammaturgia Claudio B. Lauri
regia Luca Saccoia
con Enzo Attanasio, Luca Saccoia, Mario Zinno
musicisti Carmine Branchi (batteria, percussioni), Francesco Gallo (strumenti a fiato), Luca Toller (piano)
musiche originali Luca Toller
scene Francesco Felaco
luci Luigi Biondi, Giuseppe Di Lorenzo
costumi Gina Oliva
maschere di cartapesta Claudio Cuomo
foto Giuseppe D'Anna
produzione
Nerosesamo
in coproduzione con Benevento Città Spettacolo
con il patrocinio di Fondazione Nazionale Carlo Collodi, Forlimpopoli Città Artusiana
durata 1h
Napoli, Teatro Sannazaro, 23 giugno 2013
in scena 22 e 23 giugno 2013

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