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Sunday, 27 December 2015 00:00

La fortezza vuota di Teatro Magro

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Ne La fortezza vuota Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini descrivono un sistema teatrale senza più logica, che sostiene il debito di produzioni faraoniche ed abbandona il teatro capillarmente diffuso, che fa dell'arte e della sua ricezione non un bene pubblico ma un privilegio privato, che dimentica il concetto di rischio artistico ed invita – in nome della quantità dei parametri – alla rassicurante commerciabilità dell'offerta ed è per questo che, "in segreto", i teatranti stessi "non sono più certi che il teatro abbia una funzione e il diritto di esistere": così ci si ritrova a voler "sopravvivere per sopravvivere,” – scrivono – “al di là che le nostre azioni abbiano senso o meno”. “Oggi si continuano a produrre spettacoli” – aggiungono – “escono i cartelloni delle stagioni, si fanno festival teatrali, ma c'è la sensazione di andare avanti per forza d'inerzia: agiamo secondo abitudini e consuetudini di cui però, nell'intimo, non ravvisiamo più il significato e le finalità”.

Facciamo finta – dicono Civica e Scarpellini – che le nostre azioni abbiano uno scopo ma il nostro agire è senza senso e “i nostri comportamenti sono compulsivi e stereotipati”. Così “ognuno si barrica nella propria fortezza vuota, sperando che passi la tempesta che c'è fuori”.
Senza niente, di Teatro Magro, descrive a suo modo la fortezza vuota che sta diventando il teatro italiano. Compulsività, replicabilità standardizzata e miseria lavorativa ed economica, progettualità dal corto respiro, ipertensione soggettiva, vocazione rivendicativa che non trova sviluppo e ripete se stessa diventando denuncia di maniera e vocazione alla cura del proprio orticello, adeguamento inevitabile ai ritmi, alle forme e alle imposizioni di un'organizzazione culturale sempre più simile a una filiera di negozi di catena e di centri commerciali più che di botteghe d'arte e di artigianato. Esprime ciò, Teatro Magro, ponendo in sequenza quattro monologhi (tre a Sala Ichòs, per l'indisposizione di un attore) e il primo pensiero che mi viene è proprio su questa formula − la serie di monologhi − che mi sembra rimandare all'incapacità delle maestranze dell'immateriale a farsi soggetto collettivo: intanto io vi dico il mio giacché è ciò che mi preme, mi brucia, mi preoccupa.
In questa forma di individualità che si susseguono c'è, quindi, già la resa, per dirla con Nicola Chiaromonte, dell'inesistenza di “una società teatrale, ossia il legame che nasce dal riconoscersi solidali in un medesimo interesse, in una medesima causa, in una medesima impresa più importante di ciascuno degli individui che vi concorrono, ma che ciascuno di essi, per modesta che sia la sua parte, rappresenta allo stesso titolo dell'altra”. Così L'attore non parla con Il presidente e Il presidente non parla con Il regista mentre – uno dopo l'altro – si limitano ad offrire al pubblico, individualmente, lo svilimento della propria funzione.

Ciò che mi preme trasmettere è innanzitutto una sensazione d'insieme che va oltre questi tre monologhi. Sono nuovamente al cospetto di un lavoro sul teatro – penso – ma questa metateatralità sta assumendo ormai una funzione nuova: non serve più a svelare particolari e caratteristiche del processo compositivo, per giocare al gioco giocato del to play smascherato o per mostrare abilità nel far sorgere una scena nella scena; serve invece per dire di sé, serve per condividere la propria urgente condizione, serve per far comprendere all'altro soggetto fondamentale del teatro – il pubblico – cosa sta accadendo in concreto agli attori, ai registi, ai produttori, a tutti coloro che quest'arte la pensano, la realizzano, la interpretano. Guardateci, sembrano dirci i teatranti, perché questa è la nostra vita; queste le condizioni nelle quali cerchiamo, comunque, di fare spettacolo; queste le mortificazioni cui ci abitua il nostro contesto di lavoro.
Così – solo per citare alcune visioni di quest'anno, tenendo presente tutte le differenze del caso – Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, in De Revolutionibus, usufruendo di Leopardi alludono alla piccolezza del teatro indipendente, costretto a subire l'abuso del grande apparato creativo, produttivo e distributivo, che alimenta e si alimenta di comportamenti amorali; Lino Musella e Paolo Mazzarelli, con Le strategie fatali, moltiplicano le rifrangenze dell'Otello di Shakespeare, mostrando la crudeltà del lavoro di compagnia, il sacrificio di sé alla recita, il nichilismo vendicativo delle nicchie poetiche ma anche l'appropriazione, da parte dell'affarismo, dei luoghi deputati all'arte mentre – il giorno prima di assistere a Senza niente di Teatro Magro – sono spettatore di Opera Nazionale Combattenti di Principio Attivo Teatro che, dichiarando d'inscenare Pirandello, inscena piuttosto la precarietà quotidiana di chi cerca – ancora e nonostante tutto – di fare teatro: sentendo di non potersi dedicare a nessun altro impegno, a nessun'altra missione.
Occorre essere sordi per non ascoltare quanta disperazione materiale venga da queste voci; occorre essere ciechi per non vedere l'immane fatica che gli artisti stanno compiendo nel rappresentare una problematica che riguarda il teatro in quanto teatro – e la sua progressiva dismissione pubblica come pratica, valore e diritto – ma che, volendola estendere oltre-scena, tocca i beni comuni, i valori condivisi, gli spazi, i luoghi e le opportunità di confronto e conflitto, di conoscenza e di crescita individuale e collettiva, sociale e politica.

In Senza niente c'è l'affermazione di una poetica, contraddistinta dal rifiuto d'ogni sovrastruttura scenografica perché la “ricerca della bellezza essenziale” produca “un'estetica riconoscibile”: così Alessandro Pezzali, Marina Visentini e Flavio Cortellazzi si succedono in palcoscenico abitando uno spazio vuoto, privo della “carta pesta”, del “velluto” o del “tulle” laboratoriale quanto degli oggetti da pseudo-interno borghese (“la carta da parati, il salotto, il tappeto con le frange, il portagiornali”) della tranche casalinga novecentesca. La parola, nella sua forma di drammaturgia pre-scritta, ed il corpo, da intendersi come strumento di denotazione visiva, sono gli unici mezzi a disposizione essendo gli elementi basilari, primigeni e ineliminabili della teatralità.
Questa povertà contestuale – per cui si opera usufruendo solo del verbo e del gesto – non ha nulla a che fare con quella grotowskiana o con qualsiasi altra (tradita) teoria che è possibile leggere nei manuali di Storia del Teatro: è una scelta “contemporanea”, che deriva dal rifiuto di ciò che mente dicendosi vero, diventando inganno, consuetudine, accatasto parolaio o materiale. Non c'è la bugia del dialogo tra attore ed attore, confinata in uno spazio chiuso dalla quarta parete – ad esempio – mentre c'è la formulazione di un discorso immediatamente frontale, rivolto agli astanti, ed accompagnato dall'interazione diretta e ravvicinata con gli spettatori. Sia chiaro: persiste la finzione, tuttavia, sia perché senza finzione il teatro non può dire alcuna verità, sia perché è finzione ogni atto culturale e non naturale, composto nel suo manifestarsi: è finzione una poesia, una canzone, una pittura, un romanzo; è finzione qualsiasi forma il teatro assuma agli occhi del pubblico: anche quella che appare o si dichiara sincera.
Tant'è che mi basta analizzare i testi per scoprire, ad esempio, che Il regista è un mosaico di citazioni nel quale ritrovo l'atto terzo, scena settima, del Cyrano di Bergerac (“Se qualche volta le mie parole sono state belle non sono riuscite davvero a far parlare il mio cuore”), Il pollice calvo di Ionesco, L'istrione di Enrico Ruggeri o le interviste rilasciate da Branciaroli in occasione del suo Servo di scena: “Il teatro di conversazione inglese è un genere sconosciuto da noi”, “Il teatro di ricerca è come una ricerca petrolifera italiana. In scena non si trova niente”; “La storia del teatro d'Occidente è fatto di parole” o “Samuel Beckett, che non è stato ancora superato” non sono frasi che appartengono dunque a Flavio Cortellazzi, o al regista ch'egli interpreta, ma rimandano a Branciaroli ed a certa ripetitività d'analisi messa in atto – durante l'intervista – da Branciaroli stesso, a conferma di una propensione a pensare, parlare ed agire per formule, sempre uguali a se stesse. Così ne L'attore s'inizia forse alludendo a Il biglietto di Josephine di Feydeau, si passa attraverso la stereotipia in accumulo dei generi teatrali (con l'ausilio di parole-chiave per ostentare il nonsense) e si finisce col citare estratti del Libro del Nulla di Hsin Hsin Ming.
L'attore e Il regista mi appaiono perciò due monologhi speculari, frutto della messa in ordine di una serie di consuetudini (interpretative e muscolari nel primo caso; esegetiche e analitiche nel secondo) diventate automatismo mascherale, abitudine, offerta recitata di sé. Da questa duplice dimostrazione non si salva nulla: il sistema catalogato dei generi (dal teatro politico a quello classico, dal teatro sociale al cabaret) e dei ruoli (la suocera, il prete, la prostituta, il malavitoso, il dottore, l'ubriaco); la propensione a dare prove aperte e studi in luogo di spettacoli veri e propri (“prima studi e poi ti vengo a vedere”); l'autoreferenzialità formale e comunicativa di certe nuove visioni teatrali (“ho visto intrecciare giunchi, per dieci minuti: senza una parola”); non si salvano il più consueto e abusato dizionario della creazione artistica (sottotesto, intenzione, calore, movimenti, partitura gestuale, espressione facciale, memoria, ripasso, azione, impostazione, chi è di scena), il rapporto pluri-esegetico della catena alimentare teatrale per cui “il pubblico interpreta l'attore che interpreta il regista che interpreta l'autore” e non mi salvo neanche io, né si salva la mia mania di scappare dopo una messinscena, come a voler tenere dentro ogni cosa vista e udita: “Non amo parlare subito dopo uno spettacolo” è una frase che pronuncio continuamente e che ritrovo in questo campionario di stilemi, formalità, (auto)inganni e finzioni pratiche e discorsive che appartengono o costeggiano il teatro fatto, visto e criticato.

Se durante questi due monologhi si ride – nonostante contengano la tragicità presente della condizione dell'attore, bestia costretta a ripetere i suoi numeri, e del regista, creatura isolata e incompresa – ha una modalità d'impatto differente Il presidente: “Mi chiamo Marina Visentini”; “maturità scientifica, diploma di educatore professionale, diploma di attrice Ert, Master Imprenditoria dello Spettacolo Dams, Master Management della Cooperazione, membro della Lega Coop di Mantova, membro Comitato Imprenditoria Femminile, membro Forum Giovani Imprenditori”; “organizzo dirigo recito lavo stiro leggo firmo”.
Ecco una biografia che è la nostra biografia, il suo curriculum è il nostro curriculum, la sua storia è la nostra storia ovvero la sua condizione è la condizione di un'intera generazione ultraformata, adeguatamente preparata, che ha accumulato competenze e conoscenze di settore, che ha svolto il disonorevole ed offensivo cursus honorum secondo le consuete dinamiche pseudolavorative contemporanee e che – nonostante tutto ciò – si ritrova ancora a desiderare d'essere forte e indipendente.
Ne Il presidente c'è la fatica, lo strazio, il senso di vergogna e la stanchezza che prende chi si occupa di teatro e lo fa in un contesto d'ingerenze partitiche, d'assenza di finanziamenti, di indifferenza istituzionale, di politiche culturali para-televisive; c'è lo stato di isolamento, la disperazione momentanea, l'assenza di respiro, la tentazione di mollare e l'impossibilità di tornare indietro (a fare cosa poi?) che abita la mente e il corpo di chi si dedica a questa passione, facendone un lavoro che giunge a coincidere quasi totalmente con la vita, e c'è l'inevitabilità di questa stessa passione, a cui non ci si riesce a sottrarre per la semplice ragione che – nonostante la solitudine, il senso di vuoto, il tempo che non esiste e la paura – “non posso farne a meno e, questo pensiero, mi commuove”.
Maria Visentini lavora dalle otto alle dodici ore al giorno, si occupa di cultura, appartiene alla realtà di Teatro Magro e pertanto ha “recuperi permessi riposi malattie ferie e tredicesima” ma la questione che pone è un'altra: a quale tenore di vita può ambire? A quale tenore di vita – e a quale futuro – possono ambire gli attori, cui non viene ancora riconosciuto il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro e che non hanno alcuna forma di previdenza, o gli uffici stampa dei teatri, spesso ridotti al praticantato perpetuo o alla retribuzione in nero? A quale tenore di vita possono ambire scenografi e costumisti, pagati costantemente in ritardo, e gli organizzatori teatrali o i datori degli spazi in cui si va in scena, che vantano crediti pluriennali dalle istituzioni cittadine o nazionali? A quale tenore di vita può ambire il teatro in questo Paese? Alla fame? A una  sopravvivenza modesta e onorevole? Alla capacità di accontentarsi di una riconoscibilità effimera ed episodica?
Maria Visentini parla, discorre, alterna momenti d'ostinazione e sconforto, tradendo l'insicurezza che appartiene a Il presidente attraverso una sporadica ma costante sporcatura lessicale: “scarcare” invece di “scaricare”, “piacicono” invece di “piacciono”, “garazzi” invece di “ragazzi” e “predere”, “bisonga”, “spattacolo”. La lingua si sfrangia, perde vocali e consonanti come i palazzi perdono calcinacci o pezzi di cornicione, nell'attesa o nel terrore di lasciarsi andare, di piegarsi, crollare, di ridursi in macerie.

Complessivamente i monologhi alternano momenti in grado di produrre attenzione, compartecipazione emotiva ed immediata consapevolezza del pubblico ad altri  nei quali si denota una lentezza di scrittura, come se il ritmo calasse fin troppo prima di riprendere più spedita la marcia, oltre anche qualche prevedibilità o facilità drammaturgica; evidente la preparazione tecnica degli attori, interessante l'uso straniante del corpo, (im)piegato in pose innaturali, volte a valorizzare il dettato testuale; si percepiscono geometrismo motorio (certe coreografie sviluppate per assi verticali e orizzontali), l'uso del montaggio come strategia scenica, l'isolamento attorale come scelta per sfuggire al rappresentativo più consueto, l'utilizzo di un'ironia che giunge talora al grottesco, alla deformazione e alla caricatura mimica. Potrei continuare, così partecipando ulteriormente alla gran fiera delle definizioni già scritte con cui si racconta e si testimonia il teatro quotidianamente e tuttavia preferisco chiudere ribadendo questo interrogativo che non passa, da quando l'ho ascoltato a Sala Ichòs: a quale tenore di vita può ambire chi si occupa di teatro?
Civica e Scarpellini ne La fortezza vuota affermano l'esigenza di una nuova alleanza tra artisti, critici e pubblico teatrale (inteso come insieme di singoli spettatori consapevoli), basata sulla ”indipendenza e la non interscambiabilità delle loro funzioni all'interno di una stessa comunità di passioni” ed aperta a "quegli operatori disposti a inventare nuove strategie di sostegno economico al servizio di una scena fondata sul primato dell'arte e degli artisti". Proposte ulteriori, al momento, non le ho né lette né ascoltate né può giudicarsi tale il decreto ministeriale che ridistribuisce il FUS, essendo privo di qualsiasi indicazione di politica culturale. In questo Paese da decenni manca una legge di settore e i tentativi di riforma locali si tramutano spesso in una dissipazione interessata più a creare sacche di sostegno elettorale che ad incentivare la realizzazione e valorizzazione di nuove ed utili esperienze culturali. La filiera dei festival, mal sostenuta, funziona sempre meno mentre la critica, essendo non retribuita, opera soprattutto localmente.
Occorre dunque interrogarsi davvero sullo stato presente e sulle sue problematiche ed occorre farlo mettendo in discussione anche quei comportamenti di sopravvivenza che non hanno più scopo effettivo e che vengono esercitati per mascherare (e mascherarsi) il disfacimento definitivo di un'illusione o di un progetto; occorre farlo collettivamente ed occorre che a farlo siano proprio coloro che hanno fatto del teatro la propria esistenza: gli artisti. D'altronde, citando il Copeau ricordato anche ne La fortezza vuota, “da chi altri si può attendere un simile sforzo se non da coloro che vi mettono in gioco l'intera vita?”.
Se ciò non dovesse avvenire, se si dovesse continuare ad “andare avanti come niente fosse, intenti a cucinare mentre la casa brucia”, come scrivono Civica e Scarpellini, allora non resterà che il nulla ovvero il Senza niente puramente esteriore che Teatro Magro ha messo in scena a Sala Ichòs.

 

 

 

Senza niente

L'attore
regia Flavio Cortellazzi
con Alessandro Pezzali
lingua italiano, dialetto mantovano, dialetto veneziano
durata 45'

Il presidente
regia Flavio Cortellazzi
con Marina Visentini
lingua italiano, dialetto mantovano
durata 50'

Il regista
regia a cura di Teatro Magro
con Flavio Cortellazzi
lingua italiano
durata 50'

produzione Teatro Magro
con il contributo di Next/Laboratorio delle Idee per la Produzione e la Distribuzione dello Spettacolo dal Vivo
foto di scena a corredo dell'articolo Camilla Giannelli, Federica Mambrini, Elio Scardovelli, Maria Todesco
ulteriori fonti foto website Teatro Magro
Napoli, Sala Ichòs, 20 dicembre 2015
in scena dal 18 al 20 dicembre 2015

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