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Thursday, 29 January 2015 00:00

Sul Lutero di Teatro in Fabula

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(premessa)
Ho incontrato Le 95 tesi poco meno di un anno fa. Fui invitato ad assistere a una prova generale, svolta all’interno di un’aula universitaria occupata. La prova fu incerta, ancora acerba, forse non curata del tutto. S’intuivano movimenti di scena interessanti, una regia meticolosa e una buona interpretazione complessiva degli attori ma mi sembrò vi fossero scompensi, dimenticanze e l’uso di toni eccessivi e superflui.

Mi fu molto utile quel pomeriggio: imparai quanto – la prima di uno spettacolo (per Le 95 tesi sarebbe avvenuta pochi giorni dopo, a Formia) – non sia che il passo iniziale di un cammino lungo, complesso e disagevole, che induce a cambiamenti inevitabili e che possono determinare la crescita ma anche il peggioramento o l’abbandono di un progetto.
Da allora – volutamente – non ho incontrato quest’opera, più volte in scena in forma di studio e in occasioni diverse ma non tutte (per luogo e condizioni) a mio parere opportune. Ho rifiutato di vederlo ambientato su una zattera – ad esempio – o all’interno di una chiesa e ho atteso il momento nel quale mi sarebbe riapparso dov’è giusto mi riapparisse: in teatro.
Cos’è diventato, nel frattempo, Le 95 tesi? Per provare a rispondere, parto dal testo.

(il testo)
Quando si pensa a Lutero di Osborne occorrerebbe tenere a mente che l’opera è composta nel 1961 e che – di fatto – è l’ultima tra le sue scritture davvero arrabbiate. “Con il passare degli anni” – scrive Bertinetti – “l’abilità teatrale di Osborne rimase, ma scomparve la rabbia”: a cominciare dalla drammaturgia seguente, Prova inammissibile, che è del 1964. Con Lutero, dunque, abbiamo l’ultima significativa manifestazione dell’interesse osborniano per il ribelle, per il personaggio che si oppone alle convenzioni e all’abuso dei privilegi, che contrasta il moralismo e l’ipocrisia, che smentisce l’uso distorto del verbo, che condanna le sopraffazioni e gli imbrogli.
C’è il desiderio di mettere in scena un rivoltoso – in Lutero – e c’è il desiderio di dare forma e corpo e parola a colui che si oppone, che critica, che usa la voce non per unirsi al coro ma per fronteggiarlo con argomentazioni inoppugnabili. All’Osborne di Lutero interessa poco delle disquisizioni teologiche e interessa ancora meno ragionare sui dogmi cristiani: ciò che gli importa – invece – è mettere in scena il confronto tra una comunità compiacente ed unita – granitica addirittura nel suo difendersi dagli agenti esterni – e il singolo che rifiuta la compartecipazione, la complicità e l’abbraccio. Uno contro gli altri è Lutero di Osborne, quindi, ed è testo che vive di questa diversità, di questa frizione poderosa, intima e personale che diventa plateale, collettiva, continentale.
“Ci sono dei fratelli che ridono di te apertamente; si burlano di te e dei tuoi scrupoli. Hanno torto, lo so, ma tu devi capire perché lo fanno” dice Weinand a Martino mentre – quando Martino si avvicina a Staupitz, che se ne sta seduto sotto un pero – il dialogo è questo:
“Appena arrivo io gli uccellini volano via”.
“Gli uccellini, purtroppo, non hanno fede”.
“Forse è solo perché io non gli vado a genio”.
“Non hanno ancora imparato che tu non vuoi far loro alcun male”.
“Un’altra delle vostre allegorie?”.
“Be’, in ogni caso l’hai capita”.
Fuggono, gli uccellini, alla presenza di Martino, alla stessa maniera in cui fuggono, si raccolgono altrove e complottano questi frati che “non hanno fede” e che perciò fanno della religione un affare, l’esercizio di un potere, un impiego da rendita fissa.
“Non si può commerciare con Dio” afferma Martino, mentre si vendono le indulgenze, c’è chi afferma di possedere un’ala dell’angelo Gabriele e l’arcivescovo di Magonza dice d’avere una delle fiamme del rovo ardente di Mosè. “Si scandalizzano perché io parlo di porci e di Cristo tutto assieme” dice ancora Martino, quando la messa è detta in latino e la voce ecclesiastica ha uno stile pedante e un’angustia legalitaria, volutamente incomprensibile ai popoli. “Se il Santo Padre” – afferma Tetzel, uno che sa cosa vuol dire vendere e vendersi – “gli offrisse un buon vescovado e un’indulgenza plenaria, lui cambierebbe subito musica” ma si sbaglia: “il porco”, “il bastardo”, “l’ipocrita”, il “dottore violento” Martino non può e non vuole ritrattare “perché agire contro la propria coscienza non è onesto e non è saggio”. In un mondo immorale, simile alla Danimarca di cui fa denuncia il principe Amleto, questo Amleto tedesco legge, studia, alimenta i suoi dubbi, disquisisce, riflette, forma la sua ipotesi e l’afferma, la rafforza, la prova e la difende: “Certi interessi si tutelano trovando la verità, altri distruggendola”; “Ritrattare non posso, ma l’odio si è appuntato contro di me da ogni parte”; “Mi rendo ben conto dei pericoli della mia posizione, ma continuo ugualmente”.
Non si può comprendere Lutero di Osborne se non lo si sveste – paradossalmente – dei suoi abiti sacri; se non lo si intende come il racconto di un disinganno e di uno smascheramento individuale; se non lo si legge come il duello tra un uomo solo e il resto della corte, l’intero palazzo, la comunità tutta. “Il mondo è fuori squadra: che maledetta noia essere nato per rimetterlo in sesto” dice Amleto ma – la stessa battuta – potrebbe dirla Martino: anche lui “candido”, anche lui ritenuto “malato”, anche lui preso per “pazzo” come il danese.

(lo spettacolo)
Giuseppe Cerrone e Antonio Piccolo comprendono tutto questo. Sanno che Lutero di Osborne è un dramma della coscienza, che si svolge in un ambiente repressivo e che l’atto che ossessivamente viene compiuto è osservare di nascosto, spiare, studiare il nemico, controllare l’infame. Per questo la loro regia imposta uno spettacolo di scene e controscene continue tanto che – a renderle tutte – non basterebbe un articolo intero. Di Martino sottolineano l’alterità geometricamente, imponendogli movimenti in opposizione al resto del gruppo e così lo troviamo in ribalta, sulla sinistra, mentre il resto dei frati è a destra, sul fondo; scoviamo Martino seduto, a mezzopalco e su una panca, mentre il gruppo se ne sta dietro, piegato sulla pedana; Martino è a destra, gli altri a sinistra; Martino è in piena luce, gli altri sono al buio; Martino osserva la platea e ne fissa il pubblico e gli altri restano indietro, alle spalle, attendendo il loro turno per parlare o confabulando misteriosamente tra loro. Martino dialoga con Gaetano e con Tetzel, discutendo del Papa? Ebbene: il Papa/Raffaele Ausiello ascolta, rallenta la sua bianca vestizione sportiva, volge ogni tanto uno sguardo, muove un sorriso alla frase “è un brav’uomo, per essere un Papa” e – quando s’ode la frase “leccherete il vostro vomito” – accenna con la lingua al gesto di leccare.
Per questo osservare Le 95 tesi per me significa innanzitutto badare al rapporto fisico che la regia impone a Martino e al resto dei frati: significa scrutare in che modo singolo e gruppo si dividono il palco, in che maniera si sfiorano, vengono a contatto e poi si allontanano. È così che noto il gioco dei dadi (sottolineatura dell’immoralità ecclesiastica); è così che noto un paio di calzettoni bianchi sovrapposti ai calzettoni neri (vestizione teatrale del personaggio) o la coreografia cestistica che viene svolta in pedana (metafora della perfetta aderenza tra il pontefice e il venditore d’indulgenze): momenti che avvengono altrove dal punto in cui la messinscena indirizza lo sguardo degli spettatori, momenti fondamentali perché mi permettono di capire che Giuseppe Cerrone e Antonio Piccolo basano la regia sul doppio, sulla simmetria, sul bilanciamento.
Quattro corpi negli angoli, pronti a scattare per raggiungere l’angolo opposto, sospinti da un perno centrale. Due figure sul fondo, due sui lati, una in ribalta. Martino solitario, separato da Weinand per mezzo dei tre frati messi in fila. Se fosse osservato dall’alto sono sicuro che, questo spettacolo, offrirebbe in maniera ancora più chiara la sua matematica ferrea, la sua logica equilibrata, funzionale a fare della compresenza in assito una partitura calibrata e violenta, in grado di rendere dinamicamente l’isolamento, la separazione, il contrasto.
Non basta.
Cerrone e Piccolo sanno che Lutero di Osborne si presta alla confessione quasi epica della teatralità e assecondano questa vocazione pseudo-brechtiana sistemando preventivamente gli oggetti che serviranno per la scena, imponendo il sonoro oltre-palco, utilizzando canzoni e siparietti che abbattono la quarta parete e che servono a stabilire un contatto diretto tra chi guarda e chi viene guardato: la mano di Tetzel, che si muove da destra a sinistra (rispettivamente verso la sala e il fondoscena) quando si tratta di chiedere denaro in cambio delle indulgenze, ne è una conferma.
Inoltre.
Forzano il linguaggio corporeo degli attori, in modo che vi sia associazione tra i paramenti indossati e la recita ostentata e fasulla dei gesti cerimoniali (Ausiello/Padre Priore, ad esempio, che impone tre tocchi nell’aria alle frasi “Non / parlar / troppo” o "Perché tu / l’avrai / accettato”); utilizzano le luci di scena facendone strumento testimoniale e confermativo; rendono la lettura della lettera (atto secondo, scena quinta) la re-citazione della lettera stessa e – quando si tratta di far comparire il lungo rotolo di carta con su impresso la disputa contro le indulgenze – fanno in modo che a scoprire e stendere il foglio siano i religiosi avversari: “Le 95 tesi” si legge, stando seduti in platea, ed è un modo per alludere al contenuto del foglio ma anche per dichiarare manifestamente il fatto teatrale attraverso l’esposizione del suo titolo.
Si aggiunga la soppressione della verbosità in eccesso che appartiene al testo di Osborne, la cancellazione dei personaggi secondari e la ricollocazione delle relative battute e la ridefinizione del finale – con i “Credo” che vengono accompagnati da altrettanti avvampi luminosi – per comprendere il lavoro compiuto da registi ed interpreti.
I volti glabri, dovuti al fatto che neanche “qualche peluzzo” va dimenticato (atto primo, scena prima); la sostituzione di pantalone e camicia con il completo nero (il passaggio dalla quotidianità mondana all'Ordine); il belato da gregge del Papa; la frase “Credi ci riuscirai?” detta in coro (resa di un quesito collettivo); gli occhiali da sole come simbolo di cecità e d’estetismo inopportuno e amorale, mentre quelli di Martino ne significano il raggiungimento dei quarant'anni; la vecchiaia di Weinand espressa con le mani in grembo, le spalle curvate, i passi lenti; la bandiera tedesca (perché “Tu hai creato” – dice Staupitz a Martino – “una cosa che si chiama Germania”); il dialogo tra Martino e il cavaliere tramutato in monologo; l'uso espositivo e perimetrale della pedana; la palla da basket – passata dall’uno all’altro frate – che fa gruppo compatto e che mi sembra dovuta al seguente frammento, detto da Hans a Weinand (atto primo, scena terza): “Capisco, capisco: non potete sbottonarvi troppo sui vostri compagni. In un certo senso siete come una squadra, voialtri. Ma ditemi un po’: secondo voi, in questo convento, o in un altro qualsiasi, la forza di tutta la squadra è uguale al più debole dei suoi componenti?”.
Ecco cosa è diventato Le 95 tesi; in vista di miglioramenti ulteriori (l'accelerazione vocale di Gaetano che, a tratti, rende non comprensibili le parole che vengono pronunciate; una battuta di Martino, persa a causa di un abbraccio con Weinand).
Fu una visione capitata all’improvviso, allora, in un’aula universitaria occupata. Adesso è uno spettacolo rigoroso, atteso e rivisto dov’è giusto riapparisse: qui, a Napoli, in teatro.    

 

 

 

 

Napoli Città Giovane
Le 95 tesi. Una storia di Lutero

da Lutero
di John Osborne
e da Lutero
di Roland Bainton
e Q
di Luther Blisset
progetto e regia Giuseppe Cerrone, Antonio Piccolo
con Raffaele Ausiello, Sergio Del Prete, Aniello Mallardo, Alessandro Paschitto, Antonio Piccolo
costumi Anna Verde
elementi scenici Antonio Genovese
disegno luci Renato Zagari
editing musicale Mario Autore
foto di scena Tiziana Mastropasqua
produzione Teatro in Fabula
lingua italiano
durata 1h 30'
Napoli, Piccolo Bellini, 27 gennaio 2015
in scena 27 gennaio 2015 (data unica)


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