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Wednesday, 12 November 2014 00:00

Il gioco (ovvero la recita) dell'assurdo

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Il teatro, il gioco, l’assurdo. Finale di partita muove lungo queste tre direttrici, delle quali le prime due potrebbero anche coincidere – così come in inglese ‘giocare’ e ‘recitare’ coincidono in un'unica parola, to play – mentre la terza, più che una linea guida vera e propria è una conseguenza che insorge agli occhi dello spettatore, questo escluso, il quale, posto al di fuori (della scena e della sua logica intellegibilità), è costretto a filtrare e catalogare ciò che avviene sulla scena come qualcosa a cui assistere prescindendo da categorie logiche.

È necessariamente partendo da questa esclusione che bisogna rapportarsi con Finale di partita (e con Beckett in generale) se si vuole entrare nel meccanismo che egli ha congegnato.
Dalla pagina alla scena, nella fattispecie, parliamo di un Finale di partita allestito da Officina Dinamo e che, fedele al dettato beckettiano, lo reinterpreta in chiave personale, ma senza travisamenti di sorta. È ancora qui il gioco – ancora il gioco, to play di cui sopra – tra filologia e rilettura, tra quel che è scritto e come lo si mette in scena, a segnare lo spessore di una rappresentazione. Nello specifico, Officina Dinamo prende Beckett e lo manipola con cura e rispetto, senza travisamenti o rimaneggiamenti, ma effettuando scelte registiche ben precise che, nell’economia generale della tragicommedia beckettiana, si rivelano felici e tutt’altro che azzardate. Allo spazio neutro, grigio, asettico vuoto invadente in cui pascolano senza senso apparente le figure di Hamm e Clov, si dà la connotazione di un affastello di rigatteria, a vista la cucina “tre metri per tre” in cui Clov ripara e che, nel gioco teatrale dell’assurdo, è solo una madia aperta dalle misure in scala ridotta. Le finestre sul mondo esterno, alte, non sono sul fondo come da drammaturgia originaria, ma in proscenio, rese visibili da due fasci di luce che le identificano e che varranno a sovvertire la prospettiva; sovvertimento che varrà poi a sua volta a far sì che il gioco sia rivolto direttamente al pubblico, cui Clov finirà per rivolgersi quasi uscendo di scena, parlando sul limitare del palco, uscendone persino, in una esasperazione della metateatralità intrinseca al testo.
Ed è uno spazio, quello di scena, in cui Clov fin dall’inizio si muove come il vero orchestratore della commedia (del gioco), non più e non solo perché a lui è demandato ogni movimento di Hamm, ma anche perché è lui stesso a giostrare, in prima persona, il disegno luci che illumina la scena, orchestrato da un tavolo ‘di servizio’ posto in un lato dell’assito; guardando Clov potremmo pensare ad un servo: gli abiti dimessi, la deferenza ad Hamm – il quale a sua volta è assiso su una sedia a rotelle che ha le fattezze di un trono, fors’anche perché, in questa commedia/gioco che è anche una partita a scacchi, Hamm svolge la finzione che sullo scacchiere è propria del re – eppure ci pare più che Clov svolga un ruolo da vero e proprio regista in scena, giostratore primario di una sarabanda di motteggi palleggiati, in cui i due personaggi parlano senza dire, esistono senza vivere, in una scatola atemporale in cui sembra averli dimenticati la natura, ammesso che natura esista ancora.
È Finale di partita – e lo è anche questo Finale di partita – un testo metateatrale, giocato molto sulla consapevolezza della recita, sul gioco della recitazione (ancora l’ancipite to play) ed è una giocolaeria che si arricchisce, in questo Finale di partita di un elemento in più: il marionettismo, che in Beckett è elemento simbolico e beffardo, illusorio rimando alla condizione umana; in questo Finale di partita sono marionette beffarde e deformi Nagg e Nell, estratti da un baule che condividono (in luogo dei due bidoni che li contengono nel testo) e che in breve si riatta a teatrino di pupi con tanto di drappo rosso; Nagg e Nell, nelle mani (e nelle voci) di Hamm e Clov danno luogo ad una fantocceria estremizzata, con Nell che piange schizzi di lacrime a lunga gittata.
Scelta questa del marionettismo e della fantocceria farsesca, che, ancora, rimarca la componente del gioco (del play…) di questo Finale di partita, in cui due attori sulla scena, giocando, rimandano il momento ultimo dell’uscita di scena, della morte; rimandando giocano, battibeccano, cantano, vivono quella farsa dolorosa che è l’esistenza; giocano perché hanno smesso di aspettare Godot. Giocano perché recitano, recitano perché è un gioco (to play), perché l’inganno del teatro è scoperto e manifesto, perché giocando e fingendo ingannano se stessi e fingono un’esistenza che non esiste, sospesa tra un prima che non importa ed un dopo che non s’immagina.
Giocano, recitano, rimangono in scena, anche se sono sul punto di andare (di partire, di morire), inghiottiti dal buio dopo l’applauso.

 

 

 

 

 

 

Finale di partita
di
Samuel Beckett
regia
Roberto Negri
con
Roberto Negri, Vito Latorre
aiuto regia Alice Mele
scene e costumi Rossella Ramunni, Davide Sciascia
organizzazione Flavia Ferranti
assistente alla regia Gabriella Altomare
luci e fonica Antonio Repole
produzione Officina Dinamo
foto di scena Costantino Mauro
lingua italiano
durata 1h
Mercogliano (AV), Teatro 99 posti, 8 novembre 2014
in scena 8 e 9 novembre 2014

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