“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 03 October 2021 00:00

L’appartamento

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Le pareti

Di quale altro colore,
che non si perda l’essenziale che sono
– lisce, senza bisogno di niente?

Gente diversa ama appendervi quadri,
abbracciarvi rampicanti, fare ombra
con lampade astratte. Ma è gente
che le teme, vuole sentirsi
indispensabile anche a loro:
che non hanno bisogno di niente.
Le ho lasciate come sono, bianche.


Gli spigoli

Impietosi stabiliscono confini, delimitano spazi:
gli spigoli, rigidi guardiani del solido,
sanno il diritto dell’aria che occupano
e da padroni mi marchiano
a sangue quando dispersa mi giro intorno,
cercando un posto al mio corpo.
Implacabili a ferirmi, io goffa inconsistenza
nel loro pieno, mi riduco alle mie ossa,
battuta e immobile, non esisto.


Il soffitto

Così basso che lo posso toccare
simulando un salto al canestro,
“ti ho preso” con un dito
strisciandolo, il mio cielo
a misura del braccio destro.
Di fuori quello alto
si allontana: ha paura, il mito.


Le tende

Le tende non ci sono, per questo occupano
tanto spazio. Ospiti che arrivano
portando in dono cioccolatini, si guardano
coi volti di chi attende qualcosa,
tetri si chiedono cos’è che manca
in questa casa. Sono a disagio,
si fingono disinvolti davanti alle finestre,
ma ogni tanto ticchettano sui vetri, fanno
un cenno ai vicini che li spiano.
Non ci sono le tende, la loro inesistenza
riempie le stanze.


Il tavolo

Attenta a questo tavolo
di favola,
che a detta del padrone di casa
ci si può mangiare in due.
Attenta al piatto al bicchiere
che non tintinnino
che non ti spaventino il cuore
toccandosi.


Il letto

Dormo sull’orlo, di fianco.
Inutile è il resto che si offre;
lo ingombro di altre cose,
lenzuola che non mi somigliano
coperte che non sono me.
Io amo i margini mi piace
stare scomoda. Ai corpi
simulacri, ai fantasmi
che si litigano millimetri di spazio
“state buoni”, protesto,
ma loro “fatti in là!”, ingrati
roditori cui ho ceduto anche il letto.


Lo specchio

Che non mi veda,
soprattutto,
e non si insospettisca del mio
non volerlo guardare.
Ma è sempre stato così stupido,
irrimediabile nella sua piattezza.
Loro ci si specchiano
con indubbio gaudio: dalla porta
li osservo mentre si piacciono
tanto da salutarcisi dentro.
E lui, neutrale,
fa finta di niente.


La fotografia

È come se dicesse
non ci sono, invece c’è:
è lì. Tutti la vedono:
c’è. Si teme assente dopo che
ha riempito ogni atomo
della sua presenza.
“Ma di chi parli? – ironizza
tacendo – di una che non esiste”.
Però mi guarda come se fossi io a non esistere.


Il tappeto

Con tutta la loro carne, a gambe aperte,
alcuni lo pestano con incoscienza
guardando in alto o di fianco,
i signori del mondo.
Fosse un tappeto volante, potrebbe
scrollarseli di dosso, loro
e le loro scarpe piene di tacchi.
Ma così, costretto al pavimento, deve amare
i piedi discreti di chi gli gira intorno,
la leggerissima orma dei bambini scalzi.


La poltrona

Troneggia maestosa benché
sfondata nelle molle, pronta
a proteggere chi si abbandona
tra le sue braccia, e legge
o racconta o tace – gli occhi sbarrati
di un folle – e le tormenta
il broccato a fiori, si abbraccia
i ginocchi, stenta a trovare pace.
Ma lei generosa lo calma
lo culla, è buona: le basta
una carezza, che le si dica
“sei la mia poltrona”.


Le sedie

Le vedi, in fila, sembrano soldati
così severe, senza mollezze,
con lo strato di polvere – loro uniforme –
che le condanna: nessuno ci si siede,
piuttosto uno si affanna a stare in piedi
fino a notte. Ma loro non demordono,
immobili a vedetta della casa
che dorme, inutili ma fiere.


Il televisore

Mi hanno suggerito di venderlo,
piuttosto di lasciarlo spento
col suo cieco occhio che mi sorveglia
attento. Voglio deluderlo
nelle aspettative, non guardarlo.
Accenderlo nel fuoriprogramma,
che fischi a vuoto o resti muto.
Retrocederlo al posto del giradischi.


La porta

Chi entra non la guarda nemmeno,
preso com’è a ripassarsi la futura scena.
Lei non prepara a niente, non assomiglia
a chi nasconde; è come tante, appena scura,
tarda ad aprirsi.
Ma chi evade ne osserva col peso la resistenza.
Sente che le premono addosso i folletti
domestici, gli oggetti prigionieri.
Senza la porta, la casa sarebbe
già scappata da se stessa, sparsa
nelle strade, dietro il visitatore incauto.
È un bene che sia così pronta a richiudersi,
fedele come una serva, in silenzio come una morta.





In Nuovi Poeti Italiani 3, Einaudi, 1984,
e in Rosa Rosse Rosa, Bertani, 1986.

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