“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 01 June 2014 00:00

Accidia

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Potrei decidere di morire di fame, sarebbe coerente e simbolicamente suggestivo del mio attuale stato di totale mancanza di desideri, di entusiasmi, di appetiti.
Beh, proprio morire no: qualche anno fa lessi il diario degli ultimi giorni di agonia di una nobildonna francese, chiusa nel suo appartamento pluri-pignorato e quindi invendibile, rimasta, letteralmente, senza più un soldo per comprarsi un tozzo di pane. Fino a che fu lucida, descrisse minuziosamente ogni dettaglio dei sintomi della morte per fame, comprese le sue sanguinolente escrezioni. Un raccapricciante osceno esibizionismo sado-maso. Masochista nel compiacimento di osservarsi morire, sadico nel volerlo mostrare agli altri, lasciando in bell’evidenza quelle pagine scritte.

Potrei ridurmi almeno in stato cachettico, poi farla finita impasticcandomi. In gravissimo stato di debolezza, anche il Tavor che ho nell’armadietto dei medicinali dovrebbe bastare.
Il fatto è che stando sempre in casa è difficile non mangiare, e la notte non bere un po’ di whisky… le ore sono così lunghe.
Mi abbrutisco di televisione, coltivando una piccola segreta soddisfazione nel disprezzarmi perché guardo programmi cretini interrotti ogni cinque minuti da spot pubblicitari ancora più cretini e sempre uguali. Ogni tanto, verso le 2 di notte, ci sono dei film d’autore.
L’importante è non andare a dormire.
Di notte la mia casa sembra galleggiare in un mare ovattato, avvolta di silenzio. Non passano più macchine, non si sente più il continuo sferragliare dei tram che frenano all’angolo per girare nel viale. I bambini dell’appartamento accanto dormono, finalmente.
Io sto in ciabatte e vestaglia, come se stessi per andare a letto ma so che non ci andrò.
Mi godo il silenzio e il vuoto e l’assenza di ogni pensiero. E purtroppo mi capita di smangiucchiare, di bere qualcosa. Di giorno ci sono degli orari, delle scadenze fisse: il brunch, il tè del pomeriggio, la cena. La notte è anarchica.
Metto in carica i telefoni, sia il cellulare che il cordless, anche se non ce ne sarebbe alcun bisogno: non li uso mai. Da mesi non chiamo nessuno e da molte, moltissime settimane nessuno mi cerca più.
Non ho voglia di parlare, non ho voglia di vedere gente. I vecchi amici mi annoiano, i nuovi non mi interessano, non ho alcuna intenzione di approfondire la conoscenza. Non parliamo poi di incontrare persone nuove! Una fatica cui non intendo sottopormi. Non mi piaccio più; come potrei presentarmi a degli sconosciuti con questa faccia, le occhiaie profonde e bluastre, gli occhi gonfi, la pelle livida per la totale mancanza di raggi ultravioletti? Perché tengo le persiane abbassate, mi sembra un gesto inutile tirarle su solo per qualche ora. Di giorno dai bordi delle finestre filtra una sottile lama di luce che mi è sufficiente per muovermi negli spazi consueti.
No, non ho alcuna fiducia nella mia forza di volontà, non credo che ce la farei a non mangiare più niente. Devo trovare un altro modo.
Mi chiedo anche perché dovrei uccidermi, non sto male, non ho nessun dolore, nessuna nostalgia, non più insensati rimorsi né gozzaniani rimpianti per “ciò che potea esser e non è stato”.
Ma posso continuare così, per altri trenta, forse anche quarant’anni?
Sì, potrei, il tempo non conta: non cambia mai niente, è l’eternità. Ma devo decidermi. Per coerenza. Perché dietro di me ho solo macerie e davanti a me il nulla.
Dovrei essere disperata, dovrei desiderare di porre fine ad un’esistenza così vuota, così vana. Ma non riesco a provare nessun desiderio.
Talvolta, per pura crudeltà verso me stessa, mi obbligo a ricordare. Certi fatti mi tornano alla memoria, ma non sono veri ricordi, perché mancano completamente le emozioni. Rammento dei volti, dei gesti, delle strade, delle case. Il mare. Lo scintillìo della neve sotto il sole. Il vento sulla pelle. Ma mi è tutto così indifferente, non riesco a procurarmi dolore. Allora accendo la televisione, senza audio, mi ci siedo accanto, per terra, con un quaderno in mano e alla luce azzurrata dello schermo, ora fioca ora con intermittenti bagliori più chiari, traccio griglie di ineguali quadrati e m’invento un cruciverba che poi, ovviamente, non riesco mai a riempire tutto.
Ogni tanto mi stupisco ancora della mia assoluta assenza di emozioni, della mia freddezza.
Quando non riconosco più i contorni delle finestre perché fuori è finalmente buio e il silenzio mi circonda, qualcosa di morbido affiora alla mia coscienza. Non è certo felicità, né serenità: è un’indifferenza senza angoli, senza spigoli. Ci sto bene dentro. Allora penso che non è giusto, che dovrei essere coerente, morire anziché vivere da morta… Non posso permettermi di star qui a godermi la quiete della notte, non me lo merito.
Verso l’alba mi addormento, buttata su una poltrona, come se il rumore delle prime auto, dei primi tram fosse una fastidiosa ninna-nanna.
Purtroppo sogno, ancora. Il mio ex-marito è sempre con me, nei miei sogni − non certo tenero e affettuoso, anzi, sta con un’altra, o è già risposato − ma per qualche strano motivo è accanto a me e fa malvolentieri qualcosa per me. Infastidito, frettoloso, sempre sul punto di andar via. Ma perché non se ne va davvero, dalla mia mente, perché non sparisce dal mio inconscio così come è sparito dalla mia vita? Di giorno non lo penso mai, ma di notte ritorna. Con tutta la sua arroganza e il suo egoismo, antipatico e intrattabile. Eppure io l’ho perdonato, quando mi ha lasciata da sola con quel nostro inutile figlio che non avrebbe mai parlato, né corso nei prati, né si sarebbe mai fatto un graffio su un ginocchio, sul quale io avrei messo un cerotto blu o verde, dandogli un bacino e dicendo “Non è niente, amore, passa subito”. Quel povero corpo flaccido, quel viso sempre contratto in una smorfia muta, né di pianto né di sorriso.
Lui, il bambino, non lo sogno mai, non lo penso mai. Strano che adesso ne stia scrivendo: è come se non fosse mai esistito. Una vita breve come quella di una farfalla. Ma lui era un baco che non sarebbe mai diventato farfalla.
Per questo ho fatto quello che ho fatto. Di notte. È bastato metterlo a faccia in giù, nel lettino. Lui non era in grado di girarsi. Tutti hanno detto che non era strano, potevano esserci dei movimenti spastici che gli avevano fatto cambiare posizione. Io lo sapevo, per questo mi mettevo la sveglia ogni quarto d’ora per controllare che respirasse bene.
Ecco, adesso è passata una macchina. Il rumore si allontana e il silenzio infranto, ferito, si rimargina si ricompatta si richiude. È di nuovo perfetto, rotondo, accogliente. Mi verso da bere. E se mettessi della candeggina nel whisky? No, non me la sento, dolori atroci all’esofago, allo stomaco, per ore… Vorrei morire per sottrazione. Devo proprio decidermi a morire di fame. Basterebbe chiamare il supermercato e dire che non mi portino più la spesa. Non avendo  niente in casa sarei costretta a non mangiare. Domani lo farò. Devo solo vincere la pigrizia e prendere il telefono.
Per adesso mi godo ancora la quiete di questa notte.

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