Extra La locanda delle chiacchiere
«Il viaggio s’arresta in una locanda: scoppietta la fiamma, una musica dice il suo tono, il bisbiglio di voci vi domina legando i tavoli ai tavoli, gli uomini agli uomini. È qui che i racconti s’incontrano».
Venezia: prove generali per una sparizione
Written by Venceslav SoroczynskiQuesto posto odora di fritto spinto e di muffa, di profumi francesi e di fogna. È un posto che c’è, ma non si trova. Ci arriviamo, a Venezia, senza possibilità di sbagliarci, ma poi non la troviamo.
Strenati (con la n) a Santa Lucia, ci abbagliano il sole – perché a Venezia fa sempre caldo, anche la notte di Natale – e i trasportatori di bagagli “autorizzati”, anche se si sa chi li ha autorizzati, visto che la scritta l’hanno tutti, ma è sempre diversa e c’è chi l’ha attaccata col nastro adesivo, chi con lo spago e uno l’ha inchiodata sul legno.
Claudia è due persone diverse, ha i capelli castano chiaro, con qualche venatura di biondo tra una ciocca e l’altra, gli occhi verdi che s’iscuriscono poco a poco verso la pupilla, dove hanno il colore del miele, le labbra sottili fuori e dure ma dentro piene e piene di curve, la pelle bruciata, ma liscia come il vetro levigato dall’acqua. Se la guardi di giorno è calda e sicura, un fusto di legno ancora fresco, con la corteccia chiara, che se la tiri via si stacca in filamenti lunghi e pieni d’odore e lascia aperte ferite che si saneranno presto. Ma se la guardi di notte è buia e profonda, come il carbone che rimane quando le fiamme si sono spente, e devi grattare via un bel po’ di corteccia bruciata per trovarci sotto il profumo della linfa. Ora è notte e la luna calante le schiarisce il volto solo un poco, quel poco che basta comunque per farla stare esattamente nel mezzo tra la legna e il carbone, tra l’immagine di lei che mi rassicura e quella che mi spaventa.
È ancora buio quando mi alzo
e spalanco le imposte sul sagrato,
butto ai gatti del cibo, poi scalzo
mi inginocchio a pregare, grato,
“mio Signore e mio Dio”, come Tommaso
per un giorno da inventare tutto mio
(sacro per fede o dannato per caso;
rischio e peccato): purché sia io
a decidere, prego, se salvarmi
o bruciare nella colpa; io.
Di là dalle dolci colline del suo podere nell’Oltrepò Pavese Renato osserva il continuo svolazzare lassù, in movimenti talvolta come affettati, aggressivi in altri momenti. Repentini scatti si alternano a timide volute. Non li riconosce, non gli sembrano tutti della stessa specie, fa solo delle supposizioni sulla loro natura. Sotto, il fiume scorre lento. L’orizzonte tremola.
“Erano tre mesi, dodici giorni e sei ore che non scopava, non teneva il conto dei minuti perché era una cosa patetica. L’ultima volta l’aveva accolto Emilia dentro di sé, che stavano insieme da tre anni ma i primi due erano stati veri e l'ultimo si era aggiunto in coda solo perché si annoiavano a stare da soli. E pure a scopare era diventata tutta una moina per evitare di dirsi che non avevano più voglia di scoparsi davvero: lui infilava quello che aveva tra le gambe dentro quello che aveva tra le gambe lei e andavano avanti con questi movimenti meccanici che erano memoria fossile di un erotismo dissoltosi nel tempo, diventato odori e sapori di pelli lontane.
Dopo una notte ormeggiate sulla riva, le barche hanno un odore agrodolce. Il legno umido s’impregna di salsedine e quando il sole inizia a battere sulle assi e sui remi, viene fuori un profumo che non sembra d'estate. È più leggero, a volte lo senti ed altre scompare, aleggia tutt'intorno la spiaggia e lentamente evapora, insieme al buio. Tra poco questo pezzo di sabbia si riempirà di voci e di passi, ma adesso è ancora vuoto. A quest’ora i gabbiani sono gli unici abitanti della spiaggia e il loro stridio rende meno spaventoso tutto questo silenzio. Mi tolgo le infradito e le infilo dentro la mia borsa a tracolla. La sabbia è ancora fresca dalla nottata, raggiungo la riva per controllare la temperatura dell’acqua. Un’onda mi bagna le dita dei piedi, sento un brivido leggero che mi corre dietro la schiena.
Ti penso con l’anima assorta nel buio
Mi chiedo se sia il destino
che a volte fa lo scroscio di un pianto
o il cinguettio d’autunno in un bacio.
Si tratta solo di cercarla. La passiva accettazione di ciò che ti ha accompagnato nel bene e nel male nei tuoi giorni è una sorta di rinuncia alla dinamica della tua esistenza.
Sì, oggi voglio parlare del mio percorso umano. Devo dire tutto, senza tralasciare quanto può apparire ininfluente al fine della comprensione del mio percorso di vita? Magari farmi trasportare dal pensiero nella convinzione che la vita è solo un alternarsi di casualità?
Se ne sta alla finestra della sua casa di Via Meravigli, nel Centro di Milano. Osserva la gente che là sotto sciama da ogni parte, chi quasi di corsa, chi con incerta lentezza.
Ma perché mai, si sta domandando Ricky, sono interiormente spinto a immaginarmi dove va quella gente, cosa ha in mente, quale sarà la conclusione del loro girovagare?
Da pochi mesi gli è mancata per una fulminea malattia la moglie Gabriella, per gli intimi Gabry. Aveva trentacinque anni.
Siamo tre aspiranti dirigenti della DANECO, primaria società farmaceutica del comparto commerciale. Età più o meno sui venticinque anni. Oltre a noi lavorano presso la società altri cinquanta dipendenti.
Sin da quando abbiamo stretto amicizia, noi tre abbiamo maturato la convinzione che creando un Club aziendale non solo avremmo stretto i rapporti tra le singole persone, ma ne avrebbe tratto vantaggio anche la società stessa.
I
Mille cose. Troppe cose
assediano i felici,
senza lasciare loro il tempo
di accorgersi che sono
così felici.
- Ricordando Sergio Endrigo
- Rime e varianti per i miei musicanti
- silloge poetica
- Sergio Endrigo
- Io che amo solo te
- Canzone per te
- Era d'estate
- Te lo leggo negli occhi
- Se le cose stanno così
- Aria di neve
- Adesso sì
- La prima compagnia
- Lontano dagli occhi
- La tua assenza
- poesie
- letteratura contemporanea
- poesia
- La Fucina delle Scritture
- Alida Airaghi
- Il Pickwick
Arrivò al ristorante con un’ora di ritardo. Mio padre era fatto così, gli piacevano i gesti plateali. Quella festicciola abbastanza intima l’aveva organizzata mamma per la mia licenza di terza media. Era visibilmente orgogliosa della mia pagella: uno strepitoso dieci in lingua italiana e otto in tutte le altre materie. Insomma, la migliore studentessa dell’Istituto.
Racconto liberamente ispirato alla canzone Rimini (1978) di Fabrizio De André
Quell’Adriatico azzurro e quella sabbia bianca e accecante preferivo guardarmeli in solitudine, su strisce di terre che si allontanavano dalle spiagge affollate di una specie di nuovo carnevale estivo, in mezzo alle dune orientali e ai canali creati dalla risacca, battuti dal vento, mentre il vento incessante raccontava che proprio quei luoghi che amavo erano fatti apposta per gli addii, ma solo per gli addii silenziosi, in cui le carezze del vento si dipanano in sorrisi lontani, in strade perdute, in vite non vissute e occasioni mancate. Amavo le occasioni mancate e amavo anche il vento che mi portava l’assenza. Del resto io ero straniero in quel luogo, figlio di un’altra epoca e di un altro universo, non sapevo fare altro che scrivere piccole parole dedicate a quel mare e a quel vento.
Il primo ricordo nitido della mia vita coincide con quello che mio padre definì “un mezzo disastro annunciato”. Vennero a prendermi alla scuola elementare in mattinata. Poche ma misurate parole, come era sua abitudine.
− Ci hanno derubato − mi disse mio padre facendomi salire in auto.
Non capivo cosa volesse dire, e gli chiesi più con gli occhi che con la bocca di essere più chiaro. Parlò lui, mia madre zitta.
Le succedeva con l’avvento di quella stagione. Si sentiva elemento integrante. Una sorta di interprete del tempo che scorre. La sua vita sembrava dilatarsi, carica di suggestione e di romanticismo.
− Credo di capirti − disse Giorgio, facendo scivolare lente le mani sotto la camicetta che lei stava iniziando a togliersi. − Tu sei a un bivio al di là del quale ancora non vedi la giusta direzione, ma sei consapevole che presto sarai al centro di una nuova realtà.