“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 08 April 2020 00:00

Lo stato delle cose: intervista a Favaro e Bandini

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La ventiduesima intervista per Lo Stato delle cose è dedicata a due giovani talenti Riccardo Favaro e Alessandro Bandini che insieme hanno vinto l’ultima edizione del Premio Scenario con Una vera tragedia.
Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica.

Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.


Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Riccardo Favaro: Io parto sempre dalla scrittura e, nonostante tutto, credo di approdare continuamente alla scrittura. È un tipo di lavoro che posso compiere nel pieno della mia libertà creativa o secondo i sentieri che traccia il regista con cui lavoro, ma resta comunque il momento fondante della teatralità che mi interessa esplorare. Tutto quello che segue, il lavoro in sala con gli attori e il dialogo che tento di rendere possibile tra ogni parte creativa dello spettacolo, è secondo la mia prospettiva una condivisione e una concretizzazione del senso di pericolo che esiste già nelle parole. Quando scrivo cerco di costruire un processo formale e sostanziale che somiglia per molti aspetti a quello del giallo o del noir, con la consapevolezza però di lasciare aperti, in molti snodi fondamentali della drammaturgia, due o tre possibilità, due o tre modi e mondi co-esistenti. Così facendo la “trama” mi appare come un sentiero che non va seguito per principi di necessità ma piuttosto come una moltitudine di sentieri che andrebbero percorsi contemporaneamente. Credo sia la modalità a me più familiare per tentare di orientarmi nella complessità.
Il valore dell’approdo scenico è allora interpretare teatralmente questi crocicchi senza mai risolverli (come, non a caso, i continui sovratitoli che scorrono durante Una vera tragedia). Così, nel vuoto di senso che solo apparentemente si crea, cerco di trovare dei varchi, dei tagli, degli squarci, delle radure bagnate dal sole nel mezzo di foreste fitte e buie. Cerco di restituire al pubblico quel vitale senso di precarietà dei sistemi narrativi che è per me il momento della riflessione.
Alessandro Bandini: Per me la peculiarità della creazione scenica è la sua relazione viva e diretta con il pubblico. È un rapporto osmotico quello tra il rito teatrale e il pubblico che vi partecipa. È un rito partecipato.
Parlo così insistentemente di rito perché per me è importante che lo spettatore si trovi ad assumere una funzione non passiva di fronte all’atto creativo, bensì una funziona attiva di testimone, di soggetto partecipe. Il rito abbrevia la distanza e di conseguenza pone lo spettatore in una situazione di pericolo, di bilico: quest’ultimo è chiamato infatti a mettersi in discussione, ad accedere alle zone più misteriose della propria anima, ad avere tra le mani la responsabilità di scegliere come guardare, a compiere un percorso che miri alla conoscenza ed a un più ricca consapevolezza.
Per questo motivo trovo sempre più forte parlare di complessità della creazione scenica: ciò rappresenta per me l’unico argine ad uno scenario teatrale indifferente e indifferenziato. La complessità lotta con l’idea che il palcoscenico sia un luogo innocuo, semplicistico e soprattutto pacificante; anzi rende impervio, accidentato e violento il terreno teatrale. La complessità permette e arricchisce il dialogo tra le diverse necessità che animano il teatro.
La creazione poi, per definirsi in quanto tale, necessita di corpi che si facciano mediatori o meglio sacerdoti di questo rito.
Io intendo l’attore o il performer necessariamente come autore di un fatto teatrale, quindi in condizione di appropriarsi di un proprio spazio, di un proprio respiro, di un proprio sguardo, ma soprattutto di un proprio tempo: secondo me esso è la variabile massima di modifica per l’attore. Quando ho lavorato con gli attori di Una vera tragedia ho chiesto loro che si rendessero conto di quanto il tempo fosse imprevedibile, quindi pericoloso.
Quello che ho fatto istintivamente poi, già dalle prime letture, è stato metterli fuori equilibrio. Ho cercato di spostare il loro asse: secondo me è nella caduta che si scoprono le proprie zone più ruvide e profonde. Ho chiesto loro che si compromettessero, che stessero nella difficoltà, in quella parte non liscia, dove c’è attrito.


Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa − aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni − eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Riccardo Favaro: Quelle che ho sono solamente delle impressioni, perché per molte ragioni faccio i conti con sistemi produttivi e condizioni lavorative troppo alterne tra loro. Adottando però solamente un principio di autonomia creativa, spesso sento necessario colmare il vuoto che si è creato tra la ricerca e i suoi interlocutori. Mi sembra che, oltre al bisogno strutturale di fondi maggiori, si debba troppo spesso dialogare con apparati burocratici che si sono lentamente sostituiti agli artisti, lasciando conseguentemente navigare a vista ogni istanza che abbia a che fare con la propria poetica e non solamente con opportunità di mercato. Questo disagio lo leggo soprattutto nel tempo a disposizione di giovani registi, autori o compagnie, un tempo che viene spesso misurato sulla base di logiche che molto hanno a che fare con la chiusura di programmazioni o percorsi di residenza e poco coinvolgono attivamente quel diritto, che orgogliosamente rivendico, alla perfettibilità.
Alessandro Bandini: Se faccio riferimento alla mia poca e piccola esperienza, solo ultimamente mi sono trovato a confrontarmi direttamente con questi strumenti produttivi di cui domandi.
Il concetto di produttività per me si lega subito a quello di efficienza, di consumo e di risultato. Tutti termini che rimandano a un immaginario economico e che penso vadano contro quella che è la mia idea di progetto e creazione, in particolar modo perché sono parole che nascondono un concetto di tempo molto diverso da quello che io ritengo opportuno e necessario per la maturazione di un percorso artistico.
La smania per l’efficienza infatti annienta il tentativo. L’ossessione per il prodotto porta l’artista ad accontentarsi e a risolvere, invece che a ricercare. La paura di perdere l’occasione non concede un confronto profondo, ma impone soluzioni facili e mai rischiose.
Sicuramente però è solo grazie al sostegno e all’aiuto di festival e residenze (in primis il Premio Scenario, poi L’arboreto-Teatro Dimora di Mondaino e il bando IntercettAzioni insieme a Industria Scenica di Vimodrone) che Una vera tragedia ha potuto trovare luce e vita. Ora, grazie al Lac di Lugano e a Teatro i, sono sicuro che troverà piena maturazione.
Quello che credo è che sarebbe importante rendere più fluido e fruibile il dialogo tra il giovane artista, le sue necessità e i diversi enti ed istituzioni. Allo stesso tempo però, perché questo possa accadere, è fondamentale che il giovane artista stesso si informi con cura, studi e si crei una vera e propria cultura rispetto a questo argomento che, in modo innegabile, sta diventando sempre più centrale ed importante.


La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro Paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Riccardo Favaro: Non so davvero gestire questa domanda. Colgo la complessità del problema che espone e colgo con un po’ di timore la sua stretta connessione ad argomenti potenzialmente più ampi che hanno a che fare con la composizione del pubblico e le sue diversità. Se da un lato mi affatica profondamente vedere nascere e morire dopo poco produzioni che restano vincolate ad un unico spazio, dall’altro sento intimamente un’esigenza di stabilità, di connessione con un luogo, di pensiero su quel luogo e su ciò che rappresenta, di programmazione artistica a stretto contatto con uno spazio fisico adatto e forse non replicabile. D’altra parte il pressante e stancante modello centralista propagandato dalle derive più autoritarie (e ahimè di moda) del nostro agone politico suggerisce tutt’altro, ma io credo che non si possa fino in fondo pensare ad una rimodulazione sistemica della produzione teatrale senza un cambio di passo altrettanto sistemico a livello politico nazionale.
Alessandro Bandini: È difficile per me rispondere a questa domanda. L’unica cosa che posso dire è che quando mi confronto con alcuni colleghi che sono agli inizi, proprio come me, quello che intravedo nei loro occhi e nelle loro parole è un alone di solitudine e di smarrimento.
Come i bambini che hanno paura di essere abbandonati, i giovani artisti mi sembra non possano fare altro che vagare alla ricerca di un nido, di una protezione, di qualcuno a cui legarsi.
Qualcuno che tra le altre cose si prenda carico di gestire proprio questo ingorgo che è il sistema di mercato.
Chi non ha la fortuna di trovare un appoggio, è costretto, per farsi conoscere o per fare conoscere il proprio lavoro, ad accettare condizioni quasi inammissibili e si trova spesso obbligato a scendere a compromessi, prevalentemente artistici.
Non ho una soluzione concreta a tutto questo, ma idealmente sarebbe già un traguardo che i diversi circuiti, indipendenti o istituzionali che siano, tentassero di avere un dialogo, guardassero con più curiosità alle diverse realtà artistiche ed evitassero di chiudersi a proteggere il loro territorio.


La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Riccardo Favaro: Vorrei citare un passo della biografia di Luis Buñuel, scritta assieme a Jean-Claude Carrière: “Mi si dice: e la scienza? Non sta forse cercando, per altre vie, di ridurre il mistero che ci circonda?”.
Può darsi. Ma la scienza non m’interessa. Mi sembra pretenziosa, analitica e superficiale. Ignora il sogno, il caso, la risata, il sentimento e la contraddizione, tutte cose che mi sono preziose. Un personaggio della Via Lattea diceva: “Il mio odio per la scienza e il mio disprezzo per la tecnologia mi porteranno, alla fine, verso quell’assurda credenza in Dio. Vero niente. Per quello che mi riguarda, assolutamente impossibile anzi. Ho scelto il mio posto, è nel mistero. Devo solo rispettarlo”.
Quello che fatico ad accettare non è la contaminazione del virtuale, per carità. Fatico ad accettare la tendenza dilagante ad appaltare al virtuale il sano privilegio di mettere in crisi le nostre certezze. Dubitare e, in ultima istanza, avere paura. Mi pare così desolante questo sistema nuovo di valutazione degli apparati tecnici, come se fossero contemporaneamente soggetto e oggetto di creazione. Quel mistero, tanto caro a Buñuel, è per me l’atto teatrale nella sua totale singolarità. Un conflitto su cose umane tra cose umane, un crimine che corpi vivi compiono consapevoli di avere di fronte a sé molti testimoni. Questo non può essere sostituito, può solo essere denigrato, censurato, eliminato.
Alessandro Bandini: Penso possa aiutarmi a rispondere il concetto polimorfo di contaminazione. Il teatro nel tempo ha cercato un dialogo ed è stato contaminato dalle diverse arti visive, dalla musica e dalla danza. Sicuramente i nuovi media sono qualcosa su cui l’artista contemporaneo deve interrogarsi e deve porre la propria attenzione. Si tratta di una contaminazione sana e necessaria.
Sarebbe per me strano il contrario: gli apparati tecnologici da un lato hanno sì messo in luce come il rapporto che l’essere umano sta via via instaurando con i mezzi di comunicazione sia sempre più allarmante, ma allo stesso tempo hanno anche fornito un terreno di ricerca antropologica molto fertile e articolato, ampliando le possibilità di riflessione.  Riconosciuto un certo valore ai nuovi media, mi chiedo come e se questi possano contaminare, formalmente e/o sostanzialmente, la creazione scenica.
Prendo ad esempio proprio Una vera tragedia: in fondo alla scena uno schermo proietta i sovratitoli per la quasi totalità dello spettacolo.
Dal punto di vista formale, il video ha vita propria e il testo scorre e viaggia, incurante di ciò che sta avvenendo in scena tra gli attori. Dal punto di vista sostanziale, l’unica vera ricerca verteva su quale fosse il modo migliore per creare uno slittamento pericoloso e un cortocircuito tra i fatti narrati e l’identità dei personaggi, su come il dispositivo drammaturgico potesse dichiarare una verità e allo stesso tempo negarla. Da qui è nata l’idea e l’uso del video.
Aggiungerei però che, esattamente in antitesi rispetto a quella che penso sia una delle peculiarità della creazione scenica, la relazione tra l’uomo e il suo schermo (sia esso il cellulare o il televisore) allarga la distanza e rende il pensiero pigro e poco complesso. Ma sopratutto restringe lo sguardo. Lo annienta, lo rende inerme e immobile. Quello che si vede sul telefono infatti è lontano, non sta accadendo davanti a me spettatore. Il tempo è rapido e non concede una riflessione.
Il teatro invece penso necessiti di un altro sguardo e di un altro tempo: grazie alla mia ultima esperienza con Carmelo Rifici in Macbeth, le cose nascoste, posso dire a gran voce che mi è apparso ben chiaro che la profondità, la tridimensionalità, il rischio e la responsabilità che l’attore deve assumersi pronunciando una parola resti il baluardo più potente, più fantasioso, più creativo e libero che ci sia.


Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Riccardo Favaro: Forse è strettamente connesso con la risposta che ho dato prima. Mi sento personalmente in continuo debito con i dati di realtà. Ancor più, direi, con l’abitudine. Per me è sempre il punto di partenza, direi per ogni lavoro, per ogni scrittura. La prima domanda che mi pongo è “come dovrebbe andare avanti (questa o quella cosa) nel mondo di fuori?”. Tutto il resto viene fuori da sé, lentamente e a fatica, ma in modo pressoché fisiologico. In questo senso potrei quasi dire che sono ossessionato dal rapporto con “il mondo per come dovrebbe essere”. Non in senso utopistico, anzi. In senso banalmente empirico. Io partirei da questo, da un’osservazione onesta non dei fatti ma di come i gruppi sociali rispondono ai fatti, dal nucleo familiare alla più astratta delle relazioni. Per scrivere Una vera tragedia mi sono esattamente mosso in questa direzione, fin dal principio, e l’allestimento ne è la prova: c’è una storia che scorre alle spalle della scena, come fosse il copione di una vicenda che “nel mondo di fuori” può accadere. E poi ci sono dei fatti, gli umani fatti, che in scena accadono. Che relazione esiste tra queste due cose? Quale è reale? Quale, invece, deve esserlo?
Alessandro Bandini: Penso che il compito di un artista, o comunque la sua tensione massima, debba essere quella di riflettere, interrogarsi e creare a partire dalla realtà in cui vive: quindi come sarebbe possibile abbandonare il confronto con il reale?
Molte personalità sembrano chiedersi cosa possa essere oggi la rappresentazione teatrale, tenendo conto che la violenta dose di realtà, che quotidianamente ci bombarda e nella quale navighiamo, è come un mare impetuoso che ha provocato un abbattimento della distinzione tra attore e persona.
Quello che abbiamo cercato di fare in Una vera tragedia è stato mettere proprio al centro del discorso lo spettatore, manipolando il suo sguardo e il suo rapporto con l’autofinzione e autorappresentazione.
Nell’estate 2019 al Centro Teatrale di Santacristina ho avuto la fortuna di poter partecipare a due giornate di incontri dal titolo Il filo del presente: il teatro tra memoria e realtà.
Sono rimasto estremamente affascinato dall’intervento di Carmelo Rifici, secondo il quale più che di rappresentazione oggi dovremmo parlare di simulazione, e cioè di una forte bascule tra realtà e finzione. Rifici ha citato anche una teoria secondo la quale l’ottica sarebbe cambiata all’inizio del nuovo millennio, dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Aver visto la realtà frantumarsi avrebbe segnato un discrimine tra il passato e l’oggi, tra il prima e il dopo: la realtà non è dunque più rappresentabile, la si può al massimo simulare.
Mi sono trovato a discutere recentemente con alcuni ragazzi dei licei milanesi e non: ero curioso di sapere, da attore, quale fosse la loro posizione e con che occhi si ponessero di fronte ad uno spettacolo teatrale. Quello che è emerso dai loro discorsi, senza dare su questi alcun tipo giudizio o merito, mette in luce come sia impossibile da credere o comunque difficile da gestire per gli adolescenti il concetto di artificio teatrale: abituati sempre di più alle serie televisive e a nuovi tipi di linguaggi, il loro sguardo chiede e pretende un certo grado di credibilità. Questo non significa assolutamente che la creazione scenica debba abbassarsi o farsi semplice, anzi, proprio perché i ragazzi conservano l’istinto e il bisogno di vedere un lavoro che imponga loro un tempo e uno sguardo rituale, sarebbe bello dare loro gli strumenti per comprendere il presente attraverso il passato, la memoria e instillare in loro un desiderio di complessità.
È importante che l’artista prenda consapevolezza e accetti questa trasformazione e mutazione sul concetto di reale.

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