“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 05 April 2020 00:00

Lo stato delle cose: intervista a Carlo Gallo

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Per la ventunesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Carlo Gallo, un giovane autore, attore e regista che opera nella città di Crotone.
Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Carlo Gallo è un attore ed è uno dei fondatori della Compagnia Teatro della Maruca e dell’omonimo spazio off, il primo, della città di Crotone. È diplomato alla Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine. Da diversi anni recupera e trascrive memorie orali per strade, porti, mercati, fabbriche e campagne.


Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Deve incendiare l’anima, pervadere lo spettatore di bellezza, avere il bagliore dell’incanto. È importante che l’opera abbia la consistenza dell’acqua, che possa arrivare ovunque, anche in spazi non convenzionali, fruibile da una fascia di pubblico ampia che includa tutti. Per essere efficace deve inseguire questa utopia: bruciarsi tutta e subito nel qui e ora dell’esperienza e durare in eterno.
L’architettura della drammaturgia, lo stile e la scelta dei linguaggi per me sono centrali nella creazione scenica. Per scrivere ho bisogno di guardare le cose con gli occhi di un primo giorno e questo è quello che accade quando ascolto un anziano raccontare una storia, la sua presenza, le sue pupille che indagano nel ricordo. Il modo in cui rimango incollato alle sue labbra e al racconto, l’ipnosi di quei gesti, l’intreccio musicale delle parole, delle pause, la commozione, la rabbia o la gioia che provo con lui passo dopo passo.
Questo racchiude il senso profondo della creazione scenica e la sua efficacia. Chi crea è sempre alla ricerca della sua strada nel solco del sentiero già intrapreso, l’opera è un dono condiviso con gli spettatori alla fine di un processo o all’interno di un processo in evoluzione.
Ogni artista ha la sua pozione magica o la inventa ogni sera col pubblico, io ho bisogno di sentire la spiaggia dello Jonio tra le dita dei piedi, ascoltare quegli sguardi, quelle barbe, i visi e le mani di uomini che hanno vissuto, per Bollari è stato così, il pubblico assiste a cinquanta minuti di spettacolo che sono la sintesi di almeno quattro ore di materiale trascritto su carta. Che il pubblico sappia o meno di ciò che è rimasto fuori dalla creazione scenica poco importa, c’è qualcosa di magico però che rende l’opera un abisso sempre più profondo quando salgo sul palco batto il pugno sul petto e canto il rema-rema.
Discorso diverso per mio fratello Angelo, lui è burattinaio e scenografo, lui il mondo ha bisogno di costruirselo con le proprie mani, di plasmare la materia. Nel suo caso, spesso, nascono prima personaggi e marchingegni e poi per ultimo arriva il testo.
La filosofia è però universale: la creazione deve incidere rotture profonde, dolorose se necessarie, aprire spazi di riflessione, versare conoscenza, ispirarci ad essere migliori di noi stessi sempre.


Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa − aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni − eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Dobbiamo innanzitutto prendere in considerazione il modo in cui il teatro è diffuso sul territorio italiano, la ricchezza data dalla peculiarità di artisti e compagnie eterogenee. Sono dell’idea che bisognerebbe investire sulla decentralizzazione del sistema teatrale piuttosto che il contrario. Oltre ai festival, alle residenze, ai teatri che in questi anni hanno consolidato la propria posizione, proporrei di inserire dei fondi che permettano a organizzatori e compagnie di giungere nelle periferie e nei piccoli paesi. Fare teatro e vivere di teatro significa fare repliche, creare tappe, arrivare in paesi e piccole frazioni con i propri spettacoli.
Sono molte le associazioni e compagnie che lavorano in questa direzione sul proprio territorio, ma spesso si tratta di situazioni isolate senza alcun tipo di connessione con un circuito più ampio, nazionale. Il valore dell’operazione sarebbe molto alto: riportare l’evento teatrale dal vivo in paesini di cinquecento o seicento persone. Si potrebbe pensare per esempio a delle proposte per attori giovani, neo diplomati o compagnie/artisti meritevoli che per motivi diversi non hanno ancora ottenuto riconoscimenti o visibilità. D’altra parte, anche nelle periferie più lontane, esistono auditorium, sale teatro, vecchi cinema, edifici d’epoca e se non ci fosse questo magma teatrale “occulto” che si muove in silenzio, i luoghi rimarrebbero vuoti a lungo. Insomma una tipicità tutta italiana che potrebbe essere ufficializzata attraverso un sistema, delle azioni di bando precise.
Crediamo che la scena italiana teatrale sia ancora in pieno fermento, in ogni piccolo angolo dello stivale. Uno degli obiettivi dei bandi o dei fondi destinati al nostro settore dovrebbe essere quello di fare arrivare il teatro nei luoghi in cui non arriverebbe mai. Si pensa sempre alla centralità tralasciando il resto del territorio che ha desiderio e bisogno di essere attraversato.
(Bisogna riconoscere che il fermento c’è ed è vivo, e le volte in cui si esce da teatro soddisfatti sono di gran lunga maggiori a quando avviene il contrario).
Un’altra riflessione ha a che vedere con la dimensione del “tuttofare”. In questo momento sto rispondendo da autore? Attore? Regista? Distributore? Organizzatore? Scenografo? Sogniamo spesso di avere tempo da occupare solo per la creazione artistica, letture di libri, interviste, raccolta di materiale, costruzione di pupazzi e burattini, prove e poi recitare almeno undici volte alla settimana come diceva Eduardo De Filippo.
A mio avviso una soluzione potrebbe essere quella di affiancare alle compagnie, attraverso i bandi stessi, delle figure che si occupino della parte burocratica e distributiva, liberando i creativi e gli interpreti da ogni altro impegno: restituire tempo.
Dunque creare, pensare a un sistema che permetta ad ogni figura di svolgere il proprio lavoro a fondo.


La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Ciò che rende il teatro primordiale, antico e allo stesso tempo sempre attuale è la sua capacità di creare, con un solo racconto, immagini diverse nella testa di ogni singolo spettatore. Mentre milioni di persone ricevono la stessa immagine su WhatsApp, guardano un video su YouTube, a teatro ognuno di loro avrà la possibilità di immaginare quel personaggio, quella barca, quel mare blu-verde macchiato di scogli in maniera specifica ed unica. L’esperienza si brucia nell’atto di compiersi, e il viaggio sensoriale emotivo si rinnova ogni volta, anche assistendo allo stesso spettacolo più volte.
Il virtuale è ormai parte integrante della vita quotidiana, è con noi prima di dormire, mentre ceniamo, quando parliamo con altre persone. Il teatro come espressione del sociale viene contaminato da ciò che nel sociale si muove.
Allora penso che nella creazione scenica tutte le scelte sono possibili, a seconda del proprio percorso, del proprio stile, del proprio gusto, ma credo che il teatro in ogni tempo e luogo permetta un’esperienza di condivisione tra il corpo di chi è in scena e di chi sta assistendo all’evento: un’esperienza insostituibile della quale avremo sempre bisogno.


Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Intanto c’è da domandarsi che cosa veramente interessi l’artista, cosa vuole raccontare, come e perché. Detto questo, spesso sento dire, proprio da chi il teatro lo fa, che gli strumenti sono aumentati ma aleggia una certa ansia da prestazione creativa che suona come un “già detto, già visto e già fatto”, un atteggiamento che ci porta fuori strada se pensiamo a un rapporto possibile col reale.
Dunque mi domando: quali narrazioni ci caratterizzano? Quali scegliamo? Cosa nutre veramente chi crea? Cosa e come guardare? Come e cosa far vedere? In questa prospettiva il teatro continua ad offrire strumenti, ad avere un rapporto profondo, possibile con il reale, diventa spazio di conoscenza condiviso con il pubblico che abbiamo il dovere di andarci a cercare, che non possiamo aspettare soltanto e comodamente in sala.
La risposta, per me, sta nel tornare alle persone, ai luoghi. Il mio rapporto col reale avviene attraverso infusioni di memoria, di ripetizioni sottovoce del materiale “raccolto” senza l’ausilio di mezzi di registrazione: è un ascolto profondo. Ciò che ricordo lo trascrivo e se dimentico qualcosa  tornerà in superficie nella mente a distanza di qualche giorno o nel bel mezzo della notte. Questo esercizio “pitagorico” è il mio modo di confrontarmi con il reale.
Un’inversione di tendenza rispetto a un’epoca in cui tutto può essere impresso, registrato su dispositivi elettronici e porsi come specchio fedele della realtà. Ma è davvero così? Quale porzione di realtà restituiamo e quale escludiamo? Alla fine, come vedi, sono più le domande che le risposte su questo tema, ma forse è proprio questo interrogarsi costantemente il senso profondo dell’arte.

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