“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 29 March 2020 00:00

Lo stato delle cose: intervista a Chiara Bersani

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Per la diciannovesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo Chiara Bersani. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un'indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Chiara Bersani è un'artista poliedrica che travalica la consueta distinzione dei generi. Molte sono le sue collaborazioni con i danzatori da Alessandro Sciarroni, Marco D’Agostin e Marta Ciappina. Tra i suoi lavori ricordiamo Goodnight Peeping Tom, The Olympic Game, Family Tree, Miracle Blade, Tell Me More, oltre all’ultimo Gentle Unicorn. Nel 2019 vince il Premio Ubu come migliore attrice Under 35.


Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Alla base di ogni creazione artistica c’è per me l’identificazione del principio di realtà che la supporta. La messa a fuoco di tale principio avviene nelle primissime fasi di lavoro, quando si identificano i pilastri ai quali ogni pratica attraversata verrà ancorata. Durante l’intero processo di ricerca il principio di realtà avrà il doppio ruolo di sorgente e faro: da qui si innesca la scintilla che appicca il fuoco e di nuovo qui bisogna tornare a confrontarsi e rigenerarsi.
Si tratta di un principio che garantisce e tutela la coerenza interna dell’opera consentendo all’artista di affrontare ardite deviazioni, sperimentare l’incoerenza, scoprire forme di coesione opposte a quelle previste.
Una creazione necessita di strategie di orientamento, specifici punti cardinali e apposite bussole affinché l’artista possa perdersi senza smarrirsi, ricercare senza naufragare.
E qui arriviamo al cuore della domanda: di cosa necessita la creazione artistica? Tempo.
Come si ottiene il tempo? Con i finanziamenti.
Vorrei poter rispondere a questa domanda passando direttamente ad un ipotetico e ben più poetico secondo step, che sicuramente eleverebbe la qualità del nostro dialogo, ma sarebbe ipocrita parlare d’altro quando lo scoglio economico persiste (se non peggiora) di anno in anno. Senza le economie i tempi di sperimentazione si accorciano, gli spazi dedicati ad accogliere imprevisti si annullano. La ricerca, che per sua natura dovrebbe basarsi sul diritto all’errore, al cambio di rotta, al ripensamento e al balbettio, è costretta a barattare questi elementi in nome di schedule di lavoro che sembrano ideate all’insegna dello “one shot one kill”.
Ne deriva che l’artista e l’intera equipe creativa investono un’enorme quantità di energie, con conseguente assunzione di rischio, nel tentativo di ritagliare tempi cuscinetto che consentano un minimo di flessibilità senza mettere troppo a rischio l’opera. Per essere concreta: investire due giornate nella sperimentazione di un’intuizione per poi scoprire che non rispetta il principio di realtà rendendo necessaria una variazione di rotta, pone l’equipe davanti al bivio “coerenza vs tempi” ammantando l’intero processo creativo di un sottile e costante senso di ansia e frustrazione.
La posizione che vari artisti (tra cui anche io) stanno assumendo davanti a questa griglia è quella di risignificare il termine debutto: da momento in cui l’opera, confezionata e capace di brillare, viene presentata al mondo a step collocato all’interno di un processo di ricerca che sconfina nello spazio dedicato alle prime repliche. Sia chiaro però che questa strategia non deve essere accolta come la soluzione al problema visto che per l’artista non è a costo zero. Infatti quel mondo che cerca l’artista proprio per il rigore della sua ricerca è lo stesso che, nel momento della presentazione dell’opera, troppo spesso ne scorda le condizioni di produzione accogliendo la creazione come un risultato chiuso da leggere con la medesima griglia utilizzata per opere nate in condizioni completamente differenti.


Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa − aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni − eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Per ridiscutere la situazione esistente credo sia fondamentale tornare ad osservare il quadro generale e da lì avviare una riflessione sistemica basata sul riconoscimento dell’artista come professionista con potere contrattuale. Partendo da questa base si dovrebbero iniziare a discutere quelle che sono, a mio avviso, tre questioni fondamentali:
− FINANZIAMENTI PIÙ SOLIDI E CONTINUATIVI. Pochissime realtà, specialmente nel circuito indipendente, possono contare su partner produttivi che investano economicamente su di loro in maniera trasversale, ovvero non per una singola produzione ma con una progettualità articolata nel futuro. Nella maggior parte dei casi l’artista deve necessariamente ripartire da zero ad ogni nuova produzione, specialmente se lavora in sospensione tra diversi linguaggi o se, durante la sua carriera, sfora in territori differenti da quelli d’origine.
Solamente chi diventa Artista Associato di un festival o un centro di ricerca, oppure entra nei circuiti produttivi dei teatri stabili (ma qui per la danza o i linguaggi più fluidi l’impresa rasenta l’impossibile) può beneficiare di un sostegno di questo tipo. Va segnalato però che in entrambi questi casi le opportunità presenti nel nostro Paese sono numericamente sensibilmente inferiori rispetto alla quantità di autrici e autori professionisti di cui sono richieste le opere ma non supportate le creazioni.
− PIÙ RISCHIO D’IMPRESA DA PARTE DEI PRODUTTORI. La maggior parte degli enti che dispongono di significative risorse economiche tendono a supportare realtà autoriali già emerse e affidabili delegando ad altri spazi la scoperta e il supporto di autrici e autori dai linguaggi meno afferrabili.
Le curatrici e i curatori che svolgono in maniera sistematica e puntuale un lavoro di scouting e di sostegno ai nuovi linguaggi e alla sperimentazione, appartengono prevalentemente a realtà poco finanziate, considerate marginali e poeticamente etichettate spesso come preziose o resistenti senza che a questa stima corrisponda un supporto o una rete di sostegno da parte di strutture economicamente più potenti. La conseguenza è che sono numerose le realtà autoriali (non solo emergenti) che arrivano a produrre intere opere basandosi esclusivamente su una rete di residenze senza portafoglio o, nel migliore dei casi, con le giornate di lavoro pagate alla minima.
È importante ricordare che lo spazio in sala è solamente uno degli elementi fondamentali della creazione. Considerare come secondario tutto il resto (disegno luci, tempo di prove tecniche, collaborazione con musicisti per chi desidera suono inedito, possibilità di avvalersi di collaboratori esterni come drammaturghi e consulenti, tempo di studio teorico...) è profondamente sbagliato e pericoloso. Si alimentano così intere generazioni di artiste e artisti invitate/i dai produttori stessi a considerare come secondari tutti questi elementi facendo dell’arte povera una retorica imposta e non più un’eventuale scelta estetica.
− RICONOSCIMENTO DELLA NECESSITÀ DI UN’EQUIPE PER L’ARTISTA. Se accettiamo un sistema che delega allo spazio indipendente tutto il mondo della danza contemporanea e degli infiniti linguaggi non inscrivibili in una categoria specifica, allora lo stesso sistema deve riconoscerci la necessità di un equipe che lavori con noi nella creazione costante di nuove strategie produttive e distributive. Perché intercettare bandi è un lavoro. Compilarli è un lavoro. Identificare produttori è un lavoro. Stendere budget è un lavoro. Organizzare una produzione articolata in dieci mini-residenze sparse su tutto il territorio nazionale e senza portafoglio o con quote limitate di rimborsi spesa, è un lavoro. Inventare strategie di narrazione per permettere a un’opera di circuitare, è un lavoro. All’artista non deve essere chiesto di adempire a tutti questi ruoli ed è profondamente sbagliato il sottile pensiero per cui chi non accoglie tutte queste mansioni sia fondamentalmente snob. Quelle sopra elencate sono competenze specifiche che necessitano di professionisti per essere svolte al meglio. Non riconoscerlo, oltre a sminuire il ruolo fondamentale di manger, promoter, producer e così via aumenta il divario di potere tra il produttore e l’artista in quanto il primo si avvale sempre di tutte le figure sopra elencate pretendendo che il secondo sappia puntualmente interfacciarsi con ognuna di queste.
Se riconosciamo che creare arte è un lavoro allora dobbiamo riconoscere anche che ogni produzione è il risultato di una trattativa tra due soggetti, il produttore e l’artista, i quali devono essere in grado di gestire e trattare ognuno la propria parte di potere contrattuale. Un sistema che esige precisione, burocrazia ed efficienza deve mettere l’artista nelle condizioni di poterlo affrontare. La trattativa produttiva deve svolgersi tra due realtà professionali, non tra un padre generoso e un allievo in costante ansia da prestazione.


La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro Paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Rimando alla risposta fornita per la domanda precedente.


La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Oggi è il 17 Marzo del 2020 e credo sia ovvio, data la situazione internazionale in cui siamo, che rispondere a questa domanda con onestà sarebbe impossibile. Nessuno di noi ha idea di quando potrà tornare a vivere la scena né delle modalità con cui questo accadrà.
Quanto tempo passerà prima che ci sia permesso performare? Chi incontreremo in quel tempo futuro? Cosa porterà il pubblico nei teatri? Con quali aspettative? Quali ricordi? Chi sarà diventato? Cosa significherà per tutti la parola folla quel giorno? Come verrà vissuto il foyer?
E noi? Chi saremo diventati? Cosa vorrà dire per noi assumerci la responsabilità di riportare le persone nei tanto temuti luoghi chiusi? Per quanto tempo la parola “assembramento” farà paura?
E io che appartengo a quella fascia fragile attualmente privata di personalità, io che, a detta di molti, sono tra quelle persone “per cui tutti fanno il grande sforzo di stare in casa”. Io che appartengo a quel gruppo di persone che anche senza pandemia conosceva il significato di essere costretta a casa o di perdere un lavoro per motivi di salute...
Io, come vivrò il momento in cui torneremo ad incontrarci?


Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Siamo veramente sicuri di essere davanti a una dicotomia?
Personalmente sono sempre stata piuttosto dubbiosa sul considerare il virtuale come opposto al reale. Sono numerose le artiste e gli artisti che proprio per parlare del contemporaneo scelgono i mezzi virtuali, così come spesso l’attivismo grazie al virtuale ha la possibilità di creare reti e moti ondosi finalizzati ad agire sul reale... ma anche restando nel nostro ambito, o ancor più nello specifico nei miei lavori, che pure sono sempre profondamente analogici, nessuna mia opera avrebbe la sua attuale forma senza le possibilità di ricerca/studio/comunicazione/scoperta che il virtuale mi concede.
Prendiamo Gentle Unicorn: parte della sua drammaturgia è la creazione di un rapporto con il pubblico basata sulla graduale costruzione di una reciproca prossimità tra i nostri corpi e sulla silenziosa tessitura di una rete di sguardi. Questo significa che l’intera opera esplora elementi profondamente culturali alla cui variabilità è fondamentale che io sia preparata. Nella vicina Austria, per esempio, le bambine e i bambini con disabilità frequentano scuole speciali e raramente da adulti vengono inseriti nella società. Fare Gentle Unicorn in una piccola città austriaca voleva dire incontrare persone che non avevano familiarità con corpi eccentrici come il mio e infatti le reazioni sono state particolarmente forti sia nell’entusiasmo che nel terrore (è stata l’unica data in cui le due bambine presenti erano terrorizzate da me).
L’unico motivo per cui questa ondata emotiva così complessa da gestire non mi ha travolta è stato che, grazie a una collaborazione virtuale avviata due anni fa con un gruppo di artiste e artisti attiviste/i con disabilità austriaci, ero già stata informata del contesto culturale in cui andavo a lavorare. Il virtuale, in questo esempio, ha informato il mio reale indirizzandolo verso riflessioni che non avrei avuto la possibilità di aprire altrimenti.
Nell’ambito del mondo delle persone con disabilità il virtuale è spesso una via di accesso alla realtà irrinunciabile.  Consente a chi non può partecipare fisicamente a esperienze comunitarie, di aderirvi per una via diversa.
A costo di essere retorica, visto che scrivo dalla quarantena, invito tutte e tutti a fare un esercizio di memorizzazione sulle strategie messe in atto ORA per non perdere il contatto con il mondo grazie al virtuale. Chiedo di memorizzarla perché questa strada, che a molte e molti di noi risulta eccezionale e temporanea, la percorrono ogni giorno moltissime persone che, per differenti motivi, non possono uscire di casa o dal paese/città in cui vivono.
Quello che per tante e tanti è un temporaneo sentiero inconsueto, per numerosissime altre persone è un’irrinunciabile strada maestra.

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