“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 04 January 2016 00:00

La lingua, le “vecchie mura”, il gioco: intervista a Tonino Taiuti

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E stu spasso mo è fernuto: 
ce so’ gghiuto a na "Cantata",
ma però me so’ addurmuto,
aggio perzo na nuttata.
Senza cchiù chella curnice,
nun teneva cchiù sapore!
‘a "Madonna" era n’attrice,
"Sarchiàpone" era n’attore.
So’ spettacole ‘e Natale,
è na vecchia tradizione
comm’ ‘a tombola, ‘o bengale,
‘o Presepio, ‘o capitone.
Chill’ambiente, e chella gente
‘ncopp’ ‘a scena a recita’.
Chille ‘e mo nun fanno niente
pecché ‘a vonno stilizza’.

('A cantata d’ ‘e pasture, Raffeaele Viviani)


Bell’è Babbele, bella e senz’uocchie...
Vecchia, sorda e semp’annura...
E mo addò jamme?
Addò ce portane?
Da quale parte de’ mure, stanotte, amma piglia’ l’acqua d’ ‘a morte?
[...]

Lengua?
E che mi abbisogna di una lengua a me?
Ne tengo ciente,
‘e Menelicche
e una, di soppiatto, ‘e fuoco
e abbruscia,
abbruscia,
cupole e ciardine,
parucche e pettinasse,
nutricce e signore,
carrozze e ‘ciucesse [...]

(Signurì, signurì, Enzo Moscato)



Ho udito la chiave girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione [...]
Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine [...]

(What the thunder said, Waste Land, T.S. Eliot)


È tempo di mettersi in ascolto.
È tempo di fare silenzio dentro di sé.
È tempo di essere mobili e leggeri,
di alleggerirsi per mettersi in cammino.
È tempo di convivere con le macerie e
l’orrore, per trovare un senso.
Tra non molto, anche i mediocri lo
diranno.
Ma io parlo di strade più impervie,
di impegni più rischiosi,
di atti meditati in solitudine.

(Per un teatro clandestino, dedicato a T. Kantor, Antonio Neiwiller)


[…] Dunque, oltre a puntare su un pubblico di "massa" da intrattenere con lo “spettacolo”, l'attuale riforma e quella fascista rischiano di avere un altro punto in comune... “La guerra al dialetto". In epoca fascista fu proibito alle compagnie dialettali l'accesso ai teatri ufficiali, dove potevano agire solo le compagnie che recitavano in lingua. Questo perché il Fascismo perseguiva il pensiero unico e l'immagine di un'Italia in cammino verso magnifiche sorti progressive. Le compagnie dialettali, come quella dei De Filippo, di Raffaele Viviani, di Giovanni Grasso, invece mettevano in scena personaggi cenciosi e affamati, mostrando la povertà, la miseria e l'ingiustizia che c'erano dietro la facciata del regime.

(La legge contro il dialetto, la lingua unica delle riforma teatrale, Massimiliano Civica su Doppiozero)  



 

Circa un anno fa incappai in un gioiellino. Uno di quei lavori – no, non lo chiamerei “spettacolo” – che ti restano negli occhi e nelle orecchie, che seminano segni e semi nel tempo, anche quando – credi – non ci stai pensando più. Per via della la lingua, "la lengua che abbruscia", che scava, apre varchi, ferite, crepe, dove scorre, s’insinua o riaffiora la linfa viva e pulsante della poesia. Non dialetto: lingua. Questa lingua napoletana boccheggiante e bistrattata, serbatoio ricchissimo sul quale stiamo seduti, a volte, senza manco rendercene conto. Questa lingua che per qualcuno ha bisogno di sottotitoli o di essere “italianizzata”. Questa lingua – non solo quella napoletana – che è stata uno delle vittime silenziose ma eclatanti della recente legge sul teatro, braccio destro della definitiva deculturalizzazione operata in tutto il Paese.
Nella piccola sala del Teatro Arcas, dietro via Veterinaria, quella sera eravamo in dieci, forse dodici persone. Sul palco, c’erano Tonino Taiuti e Lino Musella. Con loro, Antonio Petito, Enzo Moscato, Raffaele Viviani, William Shakespeare, Giambattista Basile, T. S. Eliot... dialogavano, o meglio: i due attori facevano dialogare, interagire i testi, i toni, i ritmi, le diverse scritture e, attraverso questo, parlavano tra loro, improvvisavano: giocavano. Un gioco assai raffinato ma leggero, che in pochi possono permettersi. Per abitare una lingua – che siano le rime tonde e colorate di Petito o i saliscendi ossimorici e insolenti di Moscato – non basta solo conoscerla. Nel caso di Play Duett si tratta di praticare quei versi allo stesso modo di chi, tra quelle strade, si è perso infinite volte e tuttora ha piacere a perdervisi, di nuovo: approdando, ogni volta, in un luogo diverso. La pratica di questo gioco produceva effetti stupefacenti. Nella melodia di quei suoni antichi e modernissimi, i due attori creavano un sorprendente e inatteso cortocircuito, così che il Don Fausto di Petito o La festa di Piedigrotta di Viviani potessero parlare con Basile, o con i sonetti di Shakespeare, o con Eliot. Come spesso accade, nel caso di lavori preziosi, l’unico rammarico fu che il tutto passò quasi sotto silenzio, e che in pochi avessero potuto vedere questo particolare duetto. Play duett è stato di recente ripreso e messo in scena nell’ambito del Trentennale della Sala Assoli. Questa volta, ad accompagnare i due attori c’era il musicista Marco Vidino, che spaziava, anche lui in linea col senso del pastiche testuale messo in scena, dalle melodie classiche del mandolino al noise della chitarra distorta. Anche in questo caso, un allestimento essenziale – pochi oggetti di scena tra cui maschere di Pulcinella, un cilindro e una parrucca per il Don Fausto – in cui molto faceva lo splendido e fotografico disegno luci curato da Lino Musella di suggestioni bianche e rettangolari nel nero avvolgente e mistico della Sala Assoli, volutamente usata in tutta la sua estensione e profondità. E in questo buio avvolgente il lavoro è salito di livello, diventando una curiosa riscrittura incrociata – come l’intersezione Trianon di Moscato / Petrosinella di Basile – che dentro di sé conteneva tracce, schegge, germi di Beckett, Carmelo Bene, Leo De Berardinis e, uno su tutti, Antonio Neiwiller: un’invocazione ragionata e sentita a un mondo teatrale da sempre, per sua indole, sommerso, “clandestino” che proprio in quella sala, per un certo tempo, ha trovato la sua stalla/tempio. Non è un caso che da questo “teatro clandestino” arrivi l’invito a considerare la tra-dizione come una materia duttile, viva, contemporanea, universale. Giocare o imbalsamare. La differenza, per certi versi, sta tutta qui.
Poco prima dell’ultima replica di Play Duett, mentre nei vicoli fuori al teatro già iniziavano le prove (piro)tecniche per l’imminente Capodanno, mi sono fermata qualche minuto con Tonino Taiuti. Quella che segue è la trascrizione della nostra conversazione.

Da dove nasce Play duett?
L’abbiamo costruito io e Lino, soprattutto su un’esigenza e una voglia di lavorare assieme e di mettere in gioco le proprie passioni e ciò che ci ha accompagnato fino a questo momento, sia sulla scena che fuori: gli autori, la musica, tutto ciò che poteva entrarci. È un gioco che ci prendiamo la libertà di fare. Questa libertà non ci viene data spesso, anzi: quasi mai. Non capita di poter giocare come vogliamo noi, a volte uno è costretto a fare delle cose con un giocattolo rotto. (sorride)

Parliamo degli autori, e anche delle diverse sfumature di dialetto che compongono questa sorta di pastiche: da Basile a Moscato, passando per Viviani e Petito.
Un po’ sono gli autori che hanno fatto parte della mia vita, autori che ho frequentato e che ho recitato. In effetti, questo potrebbe essere inteso anche come un lavoro sulla lingua, della tradizione e non.

Questo lavoro debuttò circa un anno fa, all’Arcas a via Veterinaria. Rispetto a quella versione, è cambiato in diversi aspetti. Per esempio, soffermiamoci sull’inizio del tuo monologo iniziale, che prima non c’era: “È finita, è finita. Trent’anni fa, cà sott’, addò scennev' l’aneme rint ‘a nu bicchiere e’ na cantina piccirella. Perduto, perduto. Ancora un buio e poi loro, mischiati nella polvere. Song nero. Zero. Black out. Rasoi. E Zingari, più giù. E questa la chiamate vita teatrale?”
L’inizio e la fine li ho scritti io. Mi serviva un inizio. Questa sala è stata importante. Ho voluto recuperare quell’umore, quel sapore e quel colore che ancora la Sala Assoli mi dà. Mi sono venute queste parole, come se fossi accompagnato, come se evocassi, come se chiamassi i miei compagni che sono stati qui dentro.

È un omaggio anche a Neiwiller...?
Chiaramente, ho pensato anche a lui. Ma anche ad altro. A degli umori, come quando qui ho fatto Zero, da solo, con Umberto Guarino alla batteria, Antonio Fiore scrisse il testo. Oppure Song nero, con la regia di Renato Carpentieri. Mentre Neiwiller mi aveva fatto la regia degli assoli che facevo qui. Ho cercato di rievocare quel clima, sintetizzato in quel momento del buio, in una dimensione quasi beckettiana, questa voce che esce da un buio che fa parte dell’inizio di qualsiasi forma d’arte, dal cinema, al teatro.

C’è molto Beckett in questo lavoro, anche la stessa coppia Taiuti/Musella evoca un po’ Valdimiro ed Estragone...
Sì, chiaramente, senza farlo. Ci troviamo in quella dimensione, giocata, però, in chiave comica, più vicina alla nostra radice, al mondo che ci appartiene.

Sempre nel monologo iniziale, tu a un tratto ripeti: “È finita, è finita”. Volevo chiederti di scavare un po’ in questa fine.
(Mi guarda con gli occhi accesi, sorride) Eh. Innanzitutto, Beckett fa cominciare Finale di partita proprio così. Mi sembrava interessante filtrarla nella mia storia questa frase. È finita perché io credo che sia finito. Che non ci sia proprio più niente da fare.

Quando dici “è finita” ti riferisci a questo luogo, o più in generale al teatro?
Parlo del genere. “È finita” può essere anche l’attimo in cui tu stai per entrare in scena e poi entri e ricomincia. Però può pure essere che è completamente finita, nel senso che non c’è più niente da fare, dopo. A me interessa molto il momento, ne parlammo anche l’altra volta (intervista a Tonino Taiuti, Napoli Monitor maggio 2015). Quella soglia lì, quando inizia e quando finisce uno spettacolo, non mi piace. Perciò, forse, ho avuto la suggestione di dire questa battuta. Quel momento mi lascia pensare che tutto è finito, poi entro dentro e dico “no, ma non è così, forse c’è ancora speranza, voglia, divertimento”. Poi finisce e ricomincia di nuovo questa cosa... (sorride) me la spiego così. Poi, ci sono anche ragioni più misteriose...

Oggi riascoltavo alcuni estratti di Neiwiller. Parlava di questa forma/merce del mercato che è entrata nella vita, nel lavoro e nel teatro. Diceva: “Io faccio sempre lo stesso spettacolo, con un tempo diverso da quello imposto dall’esterno, forse questa è l’unica possibilità di contemplazione, l’unica possibilità di guardare, di far sedimentare i segni, poterli rimandare continuamente in discorsi diversi: questo è forse l’unico modo di stabilire una “tra-dizione”. Tu vieni da un teatro d’avanguardia, di sperimentazione che, per certi versi, nasce proprio sulla rottura con la tradizione... però, paradossalmente come riacchiappi tu questa tradizione, pensiamo ai testi che mettete in scena in Play Duett, non lo fanno in molti...
Sono trattati con uno spirito sperimentale, avanguardistico. Non siamo completamente immersi nella tradizione, siamo sempre con un piede dentro e con uno fuori perché veniamo da esperienze diverse, non perché la rinneghiamo. Io adoro la tradizione, e tra l’altro vengo anche da lì: sono di estrazione popolare, la tradizione la tengo dentro, mi appartiene. Per forza di cose, ho iniziato con un teatro più sperimentale perché, in quegli anni, i gruppi erano quelli, si faceva quello. E poi sono sempre stato portato verso altro. Mi sta stretta l’immersione completa nella tradizione. Non mi diverte. Mi diverte avere un distacco, penso che quando hai un distacco con la tradizione, facendola, diventa più universale: meno locale, meno ancorata, meno fenomeno etnologico o folcloristico. Diventa più viva, più europea. La confronti con altre esperienze, materie, autori. Non abbiamo paura di mettere Moscato con Eliot, o Viviani o Petito con Beckett. Sono autori straordinari e sono ancora vivi se questi testi si trattano come una materia viva, non come una materia morta. A parte i nostri contemporanei, come Moscato e Viviani, senza i quali io probabilmente non sarei proprio esistito. Sono i due autori che ho assimilato e assorbito di più, in maniera diversa l’uno dall’altro. Moscato è come se fosse un fratello, lo sento molto vicino per come ha scritto e trattato alcune questioni. Quando andavo a vederlo, sembrava che quelle cose le avessi scritte io. Viviani invece mi riportava in un mondo dell’infanzia, dei ricordi, nella mia vita più di scugnizzo.

Quando hai incontrato Moscato?
Abbiamo iniziato insieme, erano i primi anni ’80. Scannasurice. Io e Silvio [Orlando] facevamo Due uomini e un armadio. Facevamo una rassegna di teatro al Sancarluccio, da lì passammo all’Ausonia, poi Enzo scrisse Ragazze sole con qualche esperienza. Inoltre, insieme facevamo Pasta regina, gli spettacoli con Mario Santella, ci sentivamo tutti i giorni per telefono, anche con Annibale [Ruccello]... (a un tratto si ferma) Sembra sempre di ripetere le stesse cose... devo dirti che, allo stesso tempo, questa roba la sento come un macigno sulle spalle, è come se me ne volessi liberare. Vorrei alleggerirmi da questo macigno, che sono questi testi, questi autori che mi hanno formato... però, ormai... il mio teatro, sono io, non c’è nessuno più dietro di me. Non è l’esperienza, eravamo tutti su uno stesso piatto, poi chi ha preso una strada, chi un’altra. Il mio teatro sono io.

Tu hai un modo particolare di far interagire modi e segni diversi, a parte Eliot e Moscato, pensiamo anche alle canzoni, Piscaturello e poi il noise, il free.
A me la musica fa ancora piangere, come non mi fa piangere il teatro, per esempio.
Sono un’amante della melodia e poi dell’improvvisazione, mischio tutto. Non sono un purista, lo sono stato ma non lo sono più. Come se il mio cuore si spaccasse in due, una parte è romantica, e l’altra è più avanguardistica e contemporanea. È così in ogni cosa che affronto, studio, il cinema, la pittura la letteratura.

Parliamo di ritmo: ognuno dei testi che avete preso ha un suo ritmo, una sua scansione, e poi c’è anche molta improvvisazione, ogni sera lo spettacolo cambia. Come se rispecchiasse una sorta di nomadismo, proprio del tuo modo di fare teatro.
Sembra così ma il lavoro ha una sua struttura interna, non ha una preparazione ma, dal momento in cui va in scena, ha una sua linea. È volutamente uno spettacolo spoglio di regia, nudo, crudo, ma in scena si forma tutto il percorso.

Anche nella disposizione dei testi. Aprite e chiudete nel raffronto Moscato/Basile...
Il lavoro è diviso in tre parti. Abbiamo segmentato i testi per dare una musicalità diversa. Trianon [di Moscato] è un pezzo che ho fatto per tanti anni, ormai ne sono passati venti. È come quando un musicista affronta uno standard, ognuno lo fa in maniera diversa. Io non volevo ripetere quella versione lì. Poi ognuno ci ha messo il suo, anche nella scelta dei testi, in questo non ho dovuto faticare molto, perché sia io che Lino eravamo mossi dalla stessa esigenza.

Tra i testi che avete scelto ci sono anche autori non napoletani, per esempio la Waste Land di Eliot o i sonetti di Shakespeare...
I sonetti sono tradotti da un amico di Lino, Dario Iacobelli. La traduzione in napoletano mi piace molto di più di quella in italiano, credo si addica di più al testo inglese: si tratta di due lingue tronche, rende molto meglio il ritmo originale.

Lo spettacolo ha un allestimento minimo. Come mai avete scelto di usare tutto lo spazio della Sala Assoli?
Quello l’ho voluto io. Volevo il teatro vuoto. La cosa bella è che, facendo così, veramente è come se le mura parlassero. Le mura sono importanti. “Vecchie mura”, dice Beckett. Le vecchie mura...

A un tratto, tu e Lino affrontate meta teatralmente il discorso sull’importanza degli spazi piccoli in cui, a discapito degli Stabili, si può ancora “giocare”. Verrebbe da dire che, a distanza di trent’anni, non è cambiato molto...
No. Non è cambiato niente. Tra l’altro, ci sono delle cose che ancora non capisco. Prima ero ingenuo, non mi ponevo certe domande. Ora me le pongo e tuttora non trovo risposte. Soprattutto in questa città. Molte volte mi metto da parte. Ho la possibilità di poter giocare alla grande, mentre il più delle volte mi trovo a giocare, invece... (si ferma per qualche istante) miseramente. E non mi ribello più. Non me ne fotte proprio più. Lo faccio perché è il mio lavoro. Però, quando ho la possibilità, come questa, in cui posso giocare come voglio io... non lo scherzo, ma il gioco: il gioco per me è una cosa seria, come il gioco dei fanciulli, che è molto più interessante e più importante dello scherzo degli adulti. Quando ho la possibilità di giocare come dico io, si vede. Purtroppo lo vedono poche persone. Molti ci credono, molti non ci vogliono credere, molti se ne fregano. Io lo faccio lo stesso, quando ho la possibilità di farlo. E capita sempre meno. Qui mi hanno invitato perché ho fatto la storia di questo spazio. Questo spazio per me vale molto di più di uno Stabile e di molti altri luoghi di questa città. Ha una storia. Le mura, quello che è successo qua dentro. Tu lo senti. Il silenzio non è un silenzio: qui il silenzio parla.

Ricordi qualche episodio legato alla Sala Assoli?

... Neiwiller doveva fare uno spettacolo che si chiamava Blackout, con Silvio Orlando. All’epoca noi lavoravamo assieme, ma non ricordo perché io non ero entrato nel progetto. Lui aveva una mente aperta come molti altri miei colleghi e amici, soprattutto quello più vicini a me. Venni qui durante le prove, prima del debutto e gli dissi: “Tonì, vedi di trovare il modo di fare rientrare anche me in questo spettacolo”. E lui disse: “Ok, stasera entra e fa quello che vuoi”. Mi mise su un’altalena, improvvisata con una ruota da camion. E io su quest’altalena, come una scimmia, improvvisavo dei grammelot e dei monologhi mentre loro due erano in scena. Lo spettacolo poi divenne un lavoro in tre. (si ferma, sorride). Questo me lo ricordo bene. Come pure un’altra volta, con Umberto Guarino e Antonio Fiore, facevamo Zero, io facevo questa sorta di cabaret alla Lenny Bruce, allora eravamo affascinati da questo tipo di comicità. Poi mi viene in mente Rasoi. Una parte del film fu girata qua. In particolare, il mio monologo: montarono il sipario in scena e io feci il mio monologo proprio qua.

Prossimi progetti?
A parte lo Zeno che devo fare prossimamente al San Ferdinando, vorrei fare una mostra su Sun Ra [compositore, musicista, poeta afroamericano] in cui dovrei anche suonare.

Altri progetti teatrali, più “off”?
Ho questo pallino del Nastro di Krapp. Beckett. Sempre Beckett.

Che libri stai leggendo in questo periodo?
Varie cose. Wilcock, La sinagoga degli iconoclasti. Gombrowicz. E poi un libro sul Futurismo di Marinetti. Le poesie di Dario Bellezza.

... teatro?
Teatro… girovago un po’. Sempre con Beckett... (ride... e rido, anch’io).

È finita. È finita e sta per cominciare l’ultima replica dello spettacolo.

 

 

N.B.: le foto a corredo sono di Daniela Capalbo

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