“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 07 November 2014 00:00

Giacomo Leopardi: un uomo senza prudenza

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Nella versione filmica, il Leopardi che abbiamo imparato a recitare, senza sentimento, tra i banchi scolastici, è lo stesso uomo che ci dicevano amareggiato e triste. Eppure, Mario Martone, regista, con la performance attoriale di Elio Germano, restituisce qualcosa che forse era andata perduta. Qualcosa di smarrito, non contemplato, superfluo, forse più fastidioso della tristezza nel progresso. Questo è il grande pregio del film, non rinuncia allo stereotipo, ma intreccia fotograficamente l’immagine al flusso incontenibile del verseggiare, sfrutta appieno il potere della settima arte, arricchendo la parola di un corrispettivo visivo aderente alla ragione del nome che si fa sfondo.

Leopardi è un giovane uomo nato già offeso dalla natura, cagionevole di salute e sofferente nel corpo, attanagliato da tante piccole menomanze che, nell’immobilità della carcassa, favoriscono il volo libero del pensiero, la liberazione dalla gravità come forza e come avverbio. Il suo animo, però, non conosce la serenità, nonostante detenga il controllo pieno di più discipline, la malinconia attanaglierà sempre la sua vita. Nello snocciolarsi dello spettacolo, la dimensione cinematografica e quella presente si fondono in un’osmosi che rivela quanto, il poeta nato triste, sia ancorato alla nostra personale cultura letteraria, quanto Leopardi sia di tutti noi, noi stessi, la nostra poesia nazionale mai scritta. Il silenzio e la commozione sono tangibili, la fotografia è spesso un acquarello dalle tinte lievi, naturali. Gli sfondi della primissima infanzia e giovinezza leopardiana, sono colmi dei colori polverosi di una biblioteca o di un giardino, ove l’orizzonte è il solo infinito dolce che si sia mai aperto e chiuso agli occhi del giovane favoloso. La fanciullezza perduta è il rammarico più grande per l’uomo che anela al ritorno nell’illusione di una natura benigna, eppure la condanna alla grazia umana sembra essere abbastanza flebile, una raffinatezza che può essere vinta, o accresciuta, solo nella persistenza del dubbio, essenziale ed unica verità. Nel frattempo il corpo si strazia e la notte diventa metafora di una lontana voce che la mano si incarica di trascrivere, nonostante la visuale offerta al corpo ricurvo sia terrena, l’immaginazione riesce ad udire i suoni e i canori silenzi, qualcosa si schiude e il peso di una poesia si fa sinolo, essenziale bellezza dell’essere in tensione. Una somiglianza eterna abbraccia la mano e la luna contemplata, l’occhio e i crateri sul satellite, dentro questo segreto c’è la sapienza antica del primo uomo che, nella fissità degli astri, ha scorto un segnale, un’analogia profonda tra i sassi e le stelle.
L'astuccio delle sue ali, così definiva la gobba Leopardi, non contiene che versi e fatiche, prigioni senza catene, ma pieno di arbusti gravidi di frutti e, allo stesso tempo, soffocanti nel loro lussureggiante rapinare. In questa selva di carnose primizie, il mutismo irrisorio crea una finta pace, una lontana tregua che l'animo più capace percepisce come un inganno, un sonno di morte. Dentro e fuori le sbarre spinose, il poeta svela il disegno della muta presenza, quel suo ricamo famelico che nulla salva nella smania di creare da capo. Nel ripetersi cadenzato delle forme pure, il cuore dell'uomo appone uno spazio vuoto ove recuperare tempo, sentendosi immortale per pochi istanti già passati. Un grande animo, però, conosce la violenza sacra della natura e altrettanto violentemente rivela il suo tormento nella foresta aspra, dentro un inevitabile verso dichiarativo, una lotta a mani nude. Dal cespuglio piccolo dello sterminato giardino, l'occhio si staglia in panorami arrendenti e il pensiero rallenta, lo spirito si colma di tutto il creato che non si può abbracciare. In un rantolo infelice, le braccia arrivano a mala pena a carezzare il contorno e l'immensità si fa lieve, come un mare quieto dalle correnti riottose. Così Leopardi, seduto verso il sole, prega e dileggia, prosciugando la già arida terra e serbando in petto una dolorosa passione. Poi è ancora un attimo che l’adorato Dio riverberi, con distratta accondiscendenza, la tirannia delle forze ctonie nel mondo, allora, secca la radice e il fiore splendente brucia lentamente, fino a scolorire e incendiarsi in viso, fino a morire d'amore. La spina dorsale cede ai colpi delle promesse osteggiate, all'ultimo, la sua inclinazione, le permetterà un bacio fatale col mondo.
Il periodo napoletano è magistralmente gestito dal regista, ma è l’attore, il vero maestro, il grande punto di forza del film. Elio Germano possiede la dote rara che un attore dovrebbe sempre avere, quella di alienare se stesso e concedersi al personaggio come fosse l’unica cosa vera nel tempo e nello spazio, l’unica possibile. Lasciarsi usare, tiranneggiare e defraudare.
Giacomo Leopardi è ormai alle soglie di una malattia in stato avanzato, sulla pietra lavica, del suolo partenopeo, il bastone e la schiena si sbattono e inclinano come l’ossequio finale di un teatrante sulla scena, il sole e i canti popolari formano uno scudo illusorio e momentaneo all’ultima indicibile sofferenza. Tra le maschere e la stagione calda che sembra non finire mai, il verso si anima di un frenetico desiderio, un cupido pallore, la natura rigogliosa e nutrita avvampa la strada e i fiori, il mare gorgheggia all’orizzonte e la vita può persino sembrare udibile, senza lo sforzo del cuore. Il rumore di Napoli copre i colpi sordi, quei gravi suoni della musica, alloggiati nell’invisibile corpo. La religiosità, così isterica e convulsa, le processioni dove le prefiche trovano nuovamente occupazione, il paganesimo che ritorna e si moltiplica, la tellurica presenza di culti pelasgici, inebriano il pallido volto del poeta, in un’orgia sacra e profana. Il nemico della natura, a Napoli, scopre quanto questa possa essere infinitamente crudele e degenerata, e quanto i suoi figli siano, nella terra infuocata, invasati dalla sua bestemmia, felici dentro un’eresia.  
Lì, sul monte nero e vaporoso, l’uomo imprudente secerna le ultime stille di sangue e sudore, compone gli ultimi foni in rima, atoni e terresti. Nel fuoco della lava che bagna i fiori nutriti, il sesso tra il nettare e lo schiumoso magma pare sveli l’arcano mistero tra la grazia e la necessità. L’odorosa ginestra, l’innocente ginestra, 'contenta dei deserti’, sa, prima di noi, prima dei sommi poeti, che la morte non impedisce la vita.  


 

 

 

Il giovane favoloso
regia
Mario Martone
sceneggiatura
Mario Martone
con
Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis, Valerio Binasco, Paolo Graziosi, Iaia Forte, Sandro Lombardi, Raffaella Giordano, Edoardo Natoli, Isabella Ragonese, Federica De Cola
fotografia Renato Berta
musiche Sacha Ring
produttore Carlo Degli Esposti, Nicola Serra
produzione Palomar, Rai Cinema
paese Italia
lingua italiano
colore a colori
anno 2014
durata 137 min.


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