“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 20 October 2014 00:00

"Posh": il club della superficialità

Written by 

Oxford. Primo giorno delle nuove matricole all’Università. Cena di benvenuto. Fiumi di ragazzi entusiasti di gettarsi nell’avventura che li traghetterà verso il loro futuro fatto di carriere sfavillanti ai vertici della società. Così inizia Posh, il film della regista danese Lone Scherfing, trasposizione dell’omonima pièce teatrale di Laura Wade che dal mese di settembre, dopo l’esordio al Toronto International Film Festival, è approdato anche nelle sale italiane.

Facce di ragazzi per bene, di buona famiglia, facoltosi. Belli. Capelli pettinati, vestiti impeccabili, qualcuno ostenta un look finto casual. Tra di loro c’è una combriccola speciale, o meglio, che si considera tale. Sono i membri del Riot Club, un gruppo esclusivo di cui entrano a far parte solo i migliori, coloro che sono destinati  a “diventare fottute leggende”. Questa è l’illusione. È tutto qui il significato di Posh, un aggettivo la cui lettura può spaziare da “chic, fine, elegante” a “sfarzoso, di lusso e snob”. Ed è proprio per l’ultimo significato che propende lo sguardo della regista.
Quella del Riot è una tradizione che, tra incontri segreti e deliri di onnipotenza, si perpetra dal lontano 1776 e che, in barba allo stare al passo coi tempi ancora tiene duro tanto da far credere a chi ne fa parte, di essere un eletto. Il club deve essere composto da dieci membri, ma ne mancano ancora due per completare il cerchio. Vengono così “arruolati” Miles (Max Irons) e Alistair (Sam Claflin), entrambi ragazzi di estrazione sociale alta, ma estremamente diversi tra di loro. Tanto semplice e aperto al mondo il primo, quanto snob e classista il secondo. Alistair è fratello di un ex studente di Oxford (del quale occuperà di prepotenza la stanza) membro onorario del Riot, e vive nella sua ombra. Viene accolto nel club solo in virtù del suo nome. I protagonisti del film, membri del club, pensano di poter avere tutto in virtù di un disegno divino che li ha collocati in cima alla scala sociale. Il rango e il denaro sono il loro biglietto da visita. E già questo è sufficiente per far innervosire lo spettatore, molto spesso appartenente all’altra parte della società, quella senza privilegi, oppure ragionevolmente consapevole del fatto che non esistano diritti acquisiti  e che, per ottenere qualcosa, un po’ di fatica va messa in conto.
La pellicola va avanti, incurante dell’irritazione strisciante che si diffonde nella sala. E fino a metà non succede niente o quasi. Solo da pochi scambi di parole, da qualche primo piano dei due protagonisti/antagonisti, Miles e Alistar, si percepisce qualcosa di marcio. Chi guarda già sa chi è il buono e chi il cattivo e ha già capito che per qualcuno finirà molto male, ma il confine tra giusto e sbagliato è sempre molto sottile. Il racconto, fin qui, non è altro che un lunghissimo preludio al dramma centrale, la cena del Riot Club, che nell’opera teatrale è, in realtà, l’unico episodio intorno al quale si snoda la trama. Il banchetto (perché di questo si tratterà) viene consumato in un pub, in una sala rigorosamente riservata, a discapito degli altri clienti che vengono disturbati dagli schiamazzi del gruppo. È la celebrazione dell’eccesso, un’orgia di cibo, di alcol e di idee. I membri del club mangiano e bevono fino a sentirsi male, improvvisano comizi politici, tirano cocaina e cercano sesso da una prostituta. Arrivano addirittura a sfiorare l’abuso sessuale, risparmiato, però, in extremis. Distruggono il locale e, senza nemmeno scusarsi, tentano di mettere a tacere il proprietario offrendo soldi. Anche Miles, il moderato, il buono, colui che fin dall’inizio si distingue dal gruppo e che si innamora di una ragazza anche se non è del suo stesso lignaggio, si perde, è il caso di dirlo, nei fumi dell’alcol. Il tutto si svolge in un crescendo che porta alla violenza più insensata che rischia di concretarsi in omicidio. Il dramma sembra riportare tutti con i piedi per terra. Tuttavia non c’è lieto fine e non c’è redenzione. Qualcuno pagherà per tutti, ma non pagherà del tutto. Un ordine verrà ristabilito, ma le coscienze non saranno pulite e tutto rimarrà come prima. Il sistema delle caste persisterà e, anzi, allo spettatore si lascia intendere che non è solo “una cosa da ragazzi”, ma una struttura molto più complessa che governa anche la società. Che nasconde, che sotterra quanto c’è di marcio, ripulisce la facciata e ristabilisce le distanze tra le classi sociali. Quando si accendono le luci, in sala si incrociano sguardi perplessi, c’è silenzio tra i presenti che stanno cercando di capire se il film sia piaciuto o no. Ma resta un palpabile senso di fastidio per aver visto con i propri occhi un mondo vacuo, falso, spocchioso e, ahimè, vincente. “È solo un film” qualcuno vorrebbe dire. Ma non lo fa, perché sa che un sistema come questo, fatto di privilegi per qualcuno ai danni di altri, esiste eccome. Resta un senso di incompletezza, probabilmente per l’esigenza di una trama più fitta o per l’umana necessità di ottenere giustizia. Forse per questo la prima sensazione è che il film non valga il prezzo del biglietto. Ma, a ripensarci, a qualche giorno di distanza, la pellicola, forse, voleva essere solo un ritratto di certa realtà. Quei personaggi devono essere veramente detestati, quel modo di pensare, giudicato, e quel modo di vivere, condannato. Il film ha fatto centro.

 

 

 

Posh (The Riot Club)
regia Lone Scherfing
soggetto e sceneggiatura Laura Wade
con Max Irons, Sam Claflin, Douglas Booth, Holliday Grainger, Freddie Fox, Natalie Dormer, Jessica Brown Findlay, Ben Schnetzer, Amanda Fairbank-Hynes, Jack Farthing, Sam Reid, Olly Alexander, Matthew Beard, Joey Batey, Tony Way, Michael Jibson, Xavier Atkins, Amber Anderson
fotografia Sebastian Blenkov
musiche Kasper Winding
produttore Graham Broadbent, Peter Czernin
casa di produzione Blueprint Pictures
distribuzione Notorious Pictures
paese Gran Bretagna
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2014
durata 106 min.

 

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook