“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 05 June 2021 00:00

Lindbergh: l’interiorità e la sua visibile espressione

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Storie mai raccontate. Dietro questa traduzione applicata a Peter Lindbergh ci sono storie che tali non sono, ma soltanto colossali eppure intime suggestioni narrative, perché anche la più dettagliata immagine non rivela un’intera storia in modo esaustivo. Nulla può farlo. Ogni storia è inesauribile, in quanto ha preso avvio prima dello scatto, ha proceduto a svilupparsi, a cambiare e ad ammantarsi delle sensazioni distillate dallo spazio e dal tempo che esistono oltre il nostro campo visivo, come un dipinto o un altro manufatto.

Ciò è avvenuto durante la stessa sessione di fotografia ed avrebbe continuato ad accadere anche dopo di essa. È questo l’unico modo in cui si penetrano le emozioni e il contesto legato al soggetto ritratto, nonché il significato che quest’ultimo assume: ponendo al centro l’umano.
Lindbergh sa bene che è così, perciò il mistero non viene infranto, non è grossolanamente surclassato in favore dell’effimera immagine che registra il momento sulla superficie della carta stampata, e che nulla racconta al di là di un solo fotogramma, già deceduto in un battito di ciglia. Sotto i vestiti o sulla pelle nuda, l’essenzialità del soggetto si spoglia e al contempo si veste degli stessi orpelli di moda che, nella maggior parte delle immagini, rappresentano il motivo del puntuale lavoro fotografico. L’identità della donna, o dell’uomo, raffigurati, si impasta dunque con quei decori, i quali smettono di fungere da sovrastrutture, s’impregnano della peculiare soggettività e a loro volta la pongono in risalto, tramite una particolare caratterizzazione estetica.
Gli abiti, il trucco, gli oggetti, il corpo della persona inquadrata e le “comparse” si combinano in un solo organismo che attraversa un ambiente visuale divenuto espressione di quell’unica individualità, e che nei gruppi di più soggetti protagonisti riunisce tutto nell’identità collettiva, rafforzando ad un tempo le personalità singole.
La delicata, compatta e liscia forma di Karen Elson, nel nudo del ’97 di Los Angeles, è come la materializzazione di un respiro nel buio. Lo scatto in cui la sua gamba tesa occupa tutta la lunghezza della fotografia orizzontale è il sinuoso ma plastico riempimento dello spazio ridefinito dall’essere umano. Anche la posa delle seducenti gambe tese di Heidi Mount, immortalate nel 2008 a Parigi e sormontate dalla scenografica gonna di piume, così come le immagini di mani e i dettagli del corpo isolati, o persino le scarpe di Milla Jovovich, abbandonate sulla sabbia del deserto californiano, riportano al soggetto nella sua interezza, come se la spersonalizzazione estetica del pezzo anatomico o dell’indumento fosse un’istanza qui mai concepita. Il luogo circoscritto, e per estensione il mondo, sono quindi emblema della forza evocativa del soggetto stesso.
Tornano più volte certi visi e gli atteggiamenti che li accompagnano, come i tratti di Milla, per l’appunto, ridisegnata nella serie parigina del ’98 in quella sua figura esile e insieme statuaria, potenziata qui da uno stile che si situa intorno agli anni Venti del Novecento, attraverso la compendiaria, netta e sottilissima linea ridipinta sulle vere sopracciglia. Fra il volto “parlante” di Robert Pattinson, quello di una giovane Claudia Shiffer, d’improvviso così nordico e così autentico, completamente al naturale, o ancora la travolgente, espressiva sessione di immagini di Mariacarla Boscono, e la sequenza incentrata sul calamitante viso della Mount, solcato da una calda pennellata d’ombra, emerge una storia dal taglio cinematografico e gangster, ispirata a Quei bravi ragazzi di Scorsese. In queste opere realizzate per Vogue Italia nel 2015, a Brooklyn, Steffy Argelich, Kirsten Owen, Sasha Pivovarova e Guinevere Van Seenus, sono protagoniste di scatti che con ricercata teatralità ribaltano i ruoli della convenzionale rappresentazione della figura maschile definita da un’oscura e soggiogante posizione di potere.
In abiti dal taglio virile realizzati, fra gli altri, da Giorgio Armani e Paul Smith, e con acconciature ad essi abbinate, le quattro donne vestono in un’interpretazione disinvolta e convincente i panni stereotipati del fuorilegge, mettendo in scena, in diverse ambientazioni dell’area urbana portuale, l’algida e leccata strafottenza fatta di sigarette, espressioni sfrontate e di uno stile che ostenta un senso di invincibilità, ponendo al centro dell’immagine la propria figura enfatizzata, con gli anonimi guardaspalle uomini sullo sfondo.
L’intrigante, sottilmente ironica ed elegante stampa dei quattro soggetti seduti a tavola, intenti a bere, fumare e ad aprire crostacei, con il nitore del primo piano esaltato da una naturalezza paradossalmente costruita, illustra proprio la sussistenza di tutte queste opere fotografiche al di là della componente moda, la quale, seppur così sostanziale, esce al di fuori del proprio essere, supportando un panorama visivo a sé stante. Ecco che le Untold Stories si materializzano trovando quei percorsi inediti di cui l’autore parla, procedendo autonomamente, scardinando l’idea canonica di bellezza da copertina e concentrandosi sull’autenticità dei segni, sulla celebrazione dell’armonia intrinseca di tutte le linee e le imperfezioni del corpo, attivata dalla coscienza che alberga al di là di una fronte e di una silhouette, in una ricerca che fa passare per l’autodeterminazione della donna molta della possibilità di autodeterminazione dell’umano, secondo uno sguardo che per certi versi si avvicina a quello di Helmut Newton nello scopo, ma che assorbe il realismo senza rimodellarne la plasticità. Quello che si propone alla vista è un racconto manifesto, appena ricalcato dalle luci della ribalta, in verità volto a cogliere una dimensione umanamente privata, quale è, fra i diversi esempi, il profilo in scorcio di Nicole Kidman, che lascia giusto intuire un’espressione, mentre trova il proprio culmine nel fine chignon a chiosa della ricurva linea del capo.
Molto rivelatrice è l’installazione Testament del 2013, che s’inserisce all’interno del percorso e che ruota interamente su Elmer Carroll, incarcerato per aver commesso un omicidio nel 1990 in Florida e in attesa di subire la pena di morte che gli sarebbe stata inflitta di lì a un paio di mesi, dopo ben ventitré anni di detenzione. Come dichiarato dallo stesso Lindbergh, tale lavoro ci spinge a riflettere sulla questione della legittimità di questo tipo di condanna, a tentare di comprendere cosa si celi dietro quella corruzione dell’animo che porta a compiere azioni terrificanti, dal momento in cui tutti nasciamo innocenti. Ma, soprattutto, ci avvicina al soggetto ritratto.
Nel buio della stanza l’apparizione dei fotogrammi, stavolta a colori, ci fa sbalzare in un attimo nell’intima dimensione di questo essere umano, mostrando un ripresa statica del suo primo piano. Per trenta minuti Elmer guarda la sua immagine riflessa nello specchio unidirezionale, instaurando un dialogo muto che ci permette di immedesimarci nel suo stato d’animo. È come se parlasse direttamente a noi attraverso il solo sguardo, comunicandoci tutto quel bagaglio di umanità che nessuno ha potuto togliergli, ed esprimendo se stesso attraverso l’emozione triste degli occhi e del viso provato che si contrae e distende ripetutamente, e addirittura l’accenno ad un sorriso che sembra voler sottintendere una rassegnata, ironica e amara serenità. Il silenzioso messaggio è essenziale ed eloquente, è un’immagine di pura empatia, in grado di commuoverci nel profondo e lasciare una traccia indelebile di ciò che quella persona è stata, pur senza che la conoscessimo. È un po’ la stessa cosa che accade con l’artista che ha generato e voluto questa mostra. 
Così il viaggio visivo di Lindbergh lascia aperta una riflessione ampia e generale, ma non generica, su quel procedimento che indaga ed esalta la forma dell’umano e il suo valore, e getta una possente luce in bianco e nero su di un’esperienza di visione che continua a incidere sul nostro immaginario producendo nuovi risvolti, rinnovate interpretazioni e idee sulla prospettiva attraverso cui comunichiamo la nostra soggettività o esploriamo quella degli altri, muovendoci sempre fra l’interiorità e la sua esternazione.





Peter Lindbergh. Untold Stories
a cura di Peter Lindbergh
organizzata dal Kunstpalace, Düsseldorf
in collaborazione con il Peter Lindbergh Studio di Parigi
catalogo Taschen Verlag
foto: Lindbergh-1 Linda Evangelista, Michaela Bercu & Kirsten Owen, Pont-à-Mousson, 1988, Copyright: © Peter Lindbergh, Courtesy: Courtesy of Peter Lindbergh Foundation, Paris
installation views: Copyright: © Peter Lindbergh, Courtesy: Courtesy of Peter Lindbergh Foundation, Paris, foto di Amedeo Benestante
Museo MADRE
Napoli, dal 3 maggio al 20 giugno 2021

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