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Sunday, 29 September 2013 06:18

Teatro da vedere e storie da immaginare

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Raggiungere un teatro con quel più che congruo anticipo che si conviene agli ansiosi cronici comporta sovente l‘inconveniente di dover riempire il vuoto di un’attesa inventandosi punti immaginari in cui far convergere la distrazione del proprio sguardo, oppure appuntando i propri pensieri sull’inseguimento di fantasie più o meno peregrine.
Talvolta però quel congruo anticipo di cui sopra può rivelarsi favorevolmente complice dell’inaspettato, offrendo immagini pregnanti a quello sguardo altrimenti ramingo.

Così è stato ad Officina Teatro, dove, recatici per uno spettacolo, ci è stata gentilmente offerta la possibilità di assistere anche ad un altro, mercé il congruo anticipo e il vuoto di un’attesa da riempire.
Ne diamo conto nello specifico.
Vanille la visione – per noi – fuori programma, gradita sorpresa consistente in una messa in scena che intende offrire una propria angolazione prospettica sul concetto d’amore; il punto di vista è affidato a due sposini che sormontano un cilindro, bianco e tronco, in centro di scena, come pupazzetti in cima ad una torta nuziale. Ad accentuare il senso della pantomima, maschere deformi ne imbruttiscono i volti, ma soprattutto sembrano suggerire l’estraneità sostanziale dei due sposi novelli (come a dire: non ci si conosce mai davvero, prima di aver fatto esperienza di vita assieme); non una parola fra i due, solo rantoli, grugniti e sospiri ad accompagnarne afflati, dispetti, gherminelle e scaramucce, come a voler suggerire l’assenza di un codice espressivo palese ed inequivoco; dalle foto in posa scandite dai clic di un fotografo invisibile, si trascorre ben presto in bronci e braccia conserte dei consorti.
Deformità e difformità; di visioni, di istanze, di aspettative e desideri. Nello spazio circoscritto e condiviso del cilindro tronco il confronto veicola la conoscenza; passando attraverso cupezze e tensioni il pianto s’effonde in abbraccio, la luce della conoscenza reciproca può alfine digradare in penombra, via le maschere, i due finalmente si conoscono e si riconoscono, anche al buio, lasciandosi alle spalle il senso di estraneità.
Condensandosi in mezzora di teatro ben fatto, una regia semplice ma acuta si affida a due attori assai più capaci di quanto la loro giovane età possa far presumere. Vanille piace e convince, messinscena compiuta ed essenziale.
Soddisfatti e favorevolmente sorpresi, ci accingiamo alla seconda visione; teatro sensoriale, quello della compagnia Teatro dei Sensi Rosa Pristina, che abbiamo già avuto modo di apprezzare: le aspettative sono alte…
La locanda delle storie, questo il nome della rappresentazione (fatichiamo a chiamarlo “spettacolo” e ci viene difficile anche trovargli altra forma di catalogazione). Il foyer ridiventa luogo d’attesa, luce soffusa ci aiuta ad abituarci al buio da cui di lì a poco saremo avvolti, quando una benda scura ci sottrarrà il senso della vista, costringendoci ad allertare gli altri quattro, ad affidare le mani alle mani, a dischiudere le nari, a testare il palato ed a tendere l’orecchio a storie in sussurro ed a rumori all’intorno. Fatichiamo a chiamarlo “spettacolo” perché fatichiamo a considerarlo “teatro”, visto che del teatro s’annulla la radice etimologica del vedere. Ma è comunque qualcosa di fortemente evocativo e suggestivo, che facendo leva sugli altri quattro sensi, stimola la visione degli occhi della mente. Il tempo si astrae, dello spazio non v'è più percezione netta, ci si affida e ci si lascia trasportare in una dimensione che sa di remoto, di fuoco che crepita e rumore di stoviglie. Accomodati ad un desco apparecchiato, si aspetta che da un momento all’altro qualcuno ci venga da presso e ci racconti una storia, mentre suggiamo del brodo, mentre sorseggiamo del vino che “sentiamo” essere rosso, ma al nostro orecchio non si solfeggiano che poche parole. Così comprendiamo che le storie, in questa locanda avvolta nel buio del tempo, sono affidate alla nostra capacità di evocazione, a quello sguardo di cui una benda scura ci priva affinché lo facciamo volare lontano.
Questa volta però il percorso sensoriale ci appare meno capace di sprigionare quella potenza evocativa e suggestiva che gli avevamo riconosciuto in altre occasioni (in particolar modo nello straordinario Quando eravamo lupi, del quale forti le sensazioni ci si impressero e dal quale uscimmo vibrando di saltellante entusiasmo), forse perché non accompagnati a sufficienza nel viaggio oscuro da mani e parole in maieutica mansione.
Ci si lascia alle spalle il buio questa volta con un senso d’inconcluso, con la sensazione di storie ancora da raccontare e da ascoltare, da annusare ed assaporare e delle quali l’assaggio non ha saputo suggerire che fioco riverbero, lasciando in scia sapore poco intenso.
Riguadagniamo l’aria aperta della sera, con gli occhi che si riabituano alla luce, mentre ancora proiettano lo sguardo della mente ad intervistare sensazioni testé vissute.

 

 

Festival | Ouverture

Vanille | Per un dolce morire −iconografia di un caso diabetico
I° Studio
ideazione e regia Michele Pagano
con Alessandro Benedetti e Doriana Costanzo
maschere e parrucche Elena Luppino
durata 30'
San Leucio (CE), Officina Teatro, 27 settembre 2013
in scena 24 e 27 settembre 2013

La locanda delle storie
I° Studio
regia Susanna Poole
drammaturgia e produzione Teatro dei Sensi Rosa Pristina
abitanti Roberta Di Domenico de Caro, Davide Giacobbe, Antonio Pastena, Susanna Poole
paesaggi sonori Salvatore Margiotta
luci Davide Giacobbe
oggetti di scena Roberta Di Domenico de Caro, Selvaggia Filippini
durata 45'
San Leucio (CE), Officina Teatro, 27 settembre 2013
in scena 27 e 28 settembre 2013

 

 

 

 

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