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Thursday, 12 February 2015 00:00

Montaggio teatrale

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Mi sono interrogato per più di un giorno intero e ho iniziato la recensione molte volte. L’ho scritta, finita, firmata, poi l’ho cestinata. In quell’articolo – che non sarà quest’articolo – c’era la trama, le sue traiettorie rigorose, il racconto di una struttura drammaturgica che mi sembrava costituita da sei personaggi e, in particolare, da due coppie speculari e una figura a fare da perno, da fulcro, da congiunzione. Un articolo complesso, difficile da leggere, nel quale non c’era un’analisi lineare ma una frastagliata offerta di contenuti, di traiettorie, di prospettive. Quell’articolo rifletteva – di fatto – la natura apparente dello spettacolo di Benedetto Sicca, Il silenzio dei cassetti.

Il silenzio dei cassetti è, infatti, un racconto complicato, a tratti volutamente confuso, senza alcuna consequenzialità cronologica, senza alcun rispetto per l’apparenza ordinata. Sei attori, per più di sei personaggi, che si muovono su un palco spoglio ai lati e sul fondo e arredato – nel centro – soltanto da una decina di sedie e da un velo che fa da sipario iniziale, poi da lenzuolo, parete, coperta o da telo che copre ciò che non serve. Benedetto Sicca sembra offrire un microcosmo generazionale, del quale fanno parte conviventi che si stanno laureando o che sono già laureati, che esercitano un lavoro precario o attendono il primo impiego, che sono sposati e che arrangiano in una stanza non potendosi permettere una casa. “Sembra”, ho scritto, perché – adesso, trascorsi quasi due giorni – Il silenzio dei cassetti mi pare innanzitutto un testo sul rapporto tra l’arte e l’esistenza, tra i fatti e la scrittura dei fatti, tra gli eventi e la recita di questi eventi in assito; che sia – insomma – una trama sul vampirismo autoriale, sul furto delle vite altrui che compie il drammaturgo scrivendo un copione. Riosservo le immagini dello spettacolo – ricordandole qui, davanti al pc – e mi sovviene un momento nel quale un personaggio lamenta il furto di un’idea, un’appropriazione indebita: ecco, Il silenzio dei cassetti racconta questa indebita appropriazione che fa il teatro trascinando sul palco la vita, rubandola a chi l’ha vissuta per darne un’immagine, una scena, foss’anche una piatta o larvale visione.

Simone Tangolo partecipa a Il silenzio dei cassetti. Fino a ieri mi sembrava un attore tra gli attori. Più rifletto e più mi sembra che sia la proiezione di Benedetto Sicca, che sia cioè l’autore che agisce sul palco anche in quanto regista. Per gran parte dello spettacolo seguo soprattutto lui. I momenti davvero interessanti non sono quelli in cui entra nella trama dello spettacolo, interagendo in maniera paritaria e ugualmente illusoria con le altre figure, ma quelli in cui rimane agli orli della storia, avendo la possibilità di fuoriuscirne, di contemplarla, di plasmarla. Ogni tanto Simone Tangolo siede di lato, guarda, scruta, pensa, poi s’alza e si dirige verso il centro del palco, rientrando in una trama che dipende da lui, che è sua, su cui agisce come agisce chi la sta componendo: ideandola, lasciandola apparire, modificandola.
Simone Tangolo – mentre il pubblico entra in sala, chiacchiera, spegne i cellulari attende l’inizio non accorgendosi che lo spettacolo è già iniziato – fa avanti e indietro in ribalta, compiendo qualche smorfia dubbiosa. È l’autore che pensa e ripensa alla composizione ed è  il regista che riflette sul modo in cui dargli parvenza. Batte i tasti di un computer inesistente, seduto nell’angolo anteriore sinistro del palco mentre, da dietro il velo che fa ancora da sipario, vengono toni confusi e poi un paio di voci più nette e infine un dialogo: un risveglio, una coppia, il desiderio mattutino di sesso, una relazione che pare avere una sua dolcezza ma in cui si rilevano incrinature, insoddisfazioni, rancori pregressi. Ecco l’autore al cospetto con due dei suoi personaggi: non hanno ancora sembianza, non hanno corpo mentr’hanno presenza solo per una memoriale re-immaginazione compositiva. Spettri, fantasmi, ricordi di ciò che è stato e che torna ad essere sul palcoscenico ma in maniera disfatta, accennata, frammentaria; spettri – questi due e gli altri – di quello che è accaduto davvero e di cui adesso vengono offerti lacerti, apparizioni improvvise, brandelli dialogici, conversazioni spezzate, qualche momento. Se questa mia idea ha una qualche plausibilità allora devo collegare questi primi cinque minuti, in cui Simone Tangolo è solo e cammina tornando ossessivamente sui propri passi, con gli ultimi cinque, in cui Simone siede nel corridoio centrale della platea mentre, a centro palco, due attori (un lui e una lei) provano un dialogo teatrale che altro non è che l’insieme delle battute che, un’altra coppia, ha pronunciato in precedenza. È così che − la vita di allora − adesso diventa teatro.
I primi e gli ultimi cinque minuti sono dunque la cornice de Il silenzio dei cassetti ed il loro tempo è il presente mentre le due ore di recita che sono nel mezzo sono ciò che è avvenuto in passato e di cui appare ciò che ne rimane: abbagli, istanti, ricordanze varie.

Inutile cercare di rendere il contenuto interamente su pagina: il consiglio è di incontrare questo spettacolo e lasciarsi chiarire le idee progressivamente poiché è così che capita con Il silenzio dei cassetti: minuto dopo minuto emergono rapporti interpersonali, pesi e contrappesi nella coabitazione, schieramenti, atteggiamenti dubbiosi, egoismi, finzioni reciproche, delicatezze insospettabili che contraddistinguono le varie figure. Piuttosto a me interessa annotare che Simone Tangolo sposta i suoi compagni di scena come fossero manichini, che in alcuni momenti li conduce al centro o sul limite del palcoscenico, che un attore lo prende in braccio e lo poggia su una sedia come si farebbe con un pupazzo: e infatti questo come un pupazzo giace, inclinato lateralmente. Quindi questo spazio è uno spazio di prova ed è uno spazio mentale, ad un tempo arsenale delle ricostruzioni e cranica scatola dell’inventiva, in cui egli agisce facendo apparire e sparire contenuti possibili, ricordando, lasciando riemergere.
Perciò – quando alcuni tra gli altri interpreti (Paola Nichelini, Cecilia Logorio, Mauro Lamantia, Beppe Salmeti e Giorgio Sorrentino) stazionano anch’essi di lato mentre una parte dei loro compagni sta vivendo/recitando il ricordo di Simone Tangolo a centro palco – non si tratta di attori fuoriscena quanto di incarnali figure che spariscono dalla mente dell’autore, per tornare in piena luce uno, tre o cinque minuti dopo. Gioco riemersivo continuo, evocazione vorticosa e soggettiva che si nutre di citazionismo dichiarato (Conrad, Schiller, Pasolini, Il gabbiano di Čechov) e di alternanza di luci calde/fredde e orizzontali/verticali; di scene e controscene che coabitano avvenendo o rimanendo ferme ed immobili; di battute dette all’unisono e di toni vocali che s’alzano o s’abbassano fino a silenziarsi del tutto, così da rendere la sfumante lontananza del ricordo che non serve più e che non continua ed esistere.
In aggiunta questo velo bianco, che non è solo l’unico vero oggetto di scena ma che mi sembra – piuttosto – la metafora del flusso immaginativo dell’autore/regista: separa due coppie perché parlino contemporaneamente; nasconde le figure secondarie, di cui non importa la presenza effettiva; si disperde sulla testa del pubblico nel momento in cui il senso dell’opera dovrebbe trasmettersi dal palco alla platea.

È in questa abilità teatrale – con cui Benedetto Sicca conferma la sua crescita – che risiede la bellezza de Il silenzio dei cassetti ed è questa capacità nel costruire con la decostruzione, incorniciando una pluralità di spunti in una forma dai margini rigorosi, che applaudo alla fine, pur mantenendo qualche riserva. Su cosa? Sull’accumulo, che porta a una figura in più (quella di Beppe Salmeti) e alle vicende che lo riguardano. C’è questo filone esterno, che aggiunge il turismo economico/sessuale, l’imbroglio, lo sfruttamento erotico del potere lavorativo, di cui non riesco a capire la funzione e di cui mi sembra che Il silenzio dei cassetti non necessiti: non serve al gioco del teatro che rende la vita, non serve alla caratterizzazione degli altri attori e dei loro personaggi né serve a rendere completezza a uno spettacolo che, dichiaratamente, rifiuta la completezza formale.
“Io scrivo quello che le persone pensano”, “Tu scrivi quello che le persone fanno”, l’importante e che “vogliamo scrivere la stessa cosa”. È parte di un dialogo rivelatorio, in cui si dice che l’operazione fondamentale per una scrittura è unire le immagini, “le une con le altre” perché funzionino: “È una questione di montaggio”. È una questione di montaggio Il silenzio dei cassetti, opera che in apparenza mostra ciò che le persone fanno per rivelare ciò che invece pensano e che presenta tutto questo come un disordinato flusso onirico in soggettiva, ancora in attesa del suo montaggio definitivo. E al montaggio – mentre siedo in poltrona – si dedica questo autore/regista che ho seguito con lo sguardo, intento a mettere in ordine ciò che, in ordine, non è ancora.
Almeno così m’è parso, a due giorni di distanza.

 

 

 




Fuori Scena
Il silenzio dei cassetti

regia e drammaturgia Benedetto Sicca
con Paola Michelini, Cecilia Ligorio, Mauro Lamantia, Beppe Salmeti, Giorgio Sorrentino, Simone Tangolo
light designer Marco Giusti
disegno scenico e costumi Mariapaola Di Francesco
musiche Chiara Mallozzi
produzione Compagnia Ludwig
lingua italiano
durata 2h 10'
Napoli, Teatro Nuovo, 8 febbraio 2015
in scena 7 e 8 febbraio 2015

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