“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 28 May 2020 00:00

“Remind Me Tomorrow”, un album da ricordare

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Fino ad un anno fa non conoscevo Sharon Van Etten, giovane cantautrice del New Jersey attiva dal 2009; ciò che mi ha portato ad ascoltare questo disco è stata la sua copertina; succede spesso così con i libri e con gli album. Capita infatti che quando cerchiamo senza un’idea precisa qualcosa da leggere o da ascoltare, è proprio la copertina o un titolo ad attirare la nostra attenzione, arriva da noi, ci sceglie nel momento giusto ed infine sembra essere ciò che in realtà stavamo cercando.

Con l’ultimo album della Van Etten è avvenuta proprio questa magia, la sua copertina caotica, colorata, è un’istantanea di una cameretta in cui c’è una bambina incastrata in un contenitore di plastica e un bimbo che gioca accanto ad una culla, tutto intorno giochi, coperte, una scena insomma per me alquanto familiare, mi ha fatta sorridere e incuriosire, così partendo dal suo ultimo lavoro, a ritroso, ho scoperto questa talentuosa artista.
Il concept di questo ultimo lavoro della Van Etten sembra proprio trovare la sua sintesi in questa immagine, che racconta di un caos che è però pace interiore e una maternità che arriva per cambiare tutto, creando uno spartiacque tra passato e presente, una maternità che non rappresenta un limite bensì stimolo creativo, infonde coraggio ed è rinnovamento artistico. Non dobbiamo immaginare un album sdolcinato oppure un elogio della vita familiare, è un album di ricerca personale e artistica dove l’introduzione di nuovi suoni elettronici non risulta mai forzata ma si inserisce in maniera equilibrata rispetto al restante tessuto sonoro.
Sharon Van Etten non è più la stessa donna e la stessa artista che cinque anni prima aveva pubblicato l’album Are We There, premiato dalla critica e forse il più amato dai suoi fan. Sembra infatti di ascoltare una nuova cantautrice, che ha abbandonato i toni disperati che raccontavano di amori malati e di abusi in favore di testi ancora nebulosi ma che narrano una storia diversa. I nuovi brani descrivono ora un rapporto d’amore stabile, consolidato da una nascita, quella del primo figlio, ma parlano anche della rinascita di una donna che ha finalmente esorcizzato i propri demoni interiori e che ora è consapevole di se stessa. La Van Etten rinasce anche come artista e con coraggio abbandona i suoni folk/country e la chitarra acustica in favore della sperimentazione con tanto di effetti, sintetizzatori e beat elettronici avvicinandosi in un paio di occasioni al terreno musicale mai esplorato prima del trip-hop. Questa evoluzione è stata possibile anche grazie alla collaborazione con John Congleton ed altri artisti come Donna Missal; su quest’ultima esperienza la Van Etten ha così commentato: “È stato un esercizio divertente, e penso che qualsiasi cantautore dovrebbe farlo: ascoltare le proprie canzoni inserite in differenti universi. Aiuta a crescere come scrittore e performer. È stato davvero divertente scrivere quella canzone e lavorare con Katherine”.
La cantautrice ha anche parlato del proprio cambiamento di tendenza e della propria trasformazione personale e professionale in un’altra intervista: “Quando ho terminato di registrare il disco sapevo che non sarebbe piaciuto a tutti, probabilmente non piacerà a qualche fan ma volevo anche sfidare le persone, sono multidimensionale, non sono solo quella persona che hanno ascoltato in precedenza. La prima sfida è stata scrivere tutte le canzoni su tastiere, usando molti sintetizzatori, piano e organo. Un suono complessivamente più scuro e ho voluto abbracciarlo per la prima volta. Mi sentivo come se volessi che i fan vedessero quest’altro lato di me in cui puoi sentire tutte le mie influenze, come se tu venissi a casa mia e andassi in questa certa parte della mia sezione discografica che forse la gente non sa che ho ascoltato”.
Infatti nel primo brano I’ve Told You Everything sembra rivolgersi ad un’amica o probabilmente proprio ad un fan a cui spiega di aver raccontato nei lavori precedenti tutto del proprio passato, attrice non protagonista di eventi accaduti senza comprendere come siano avvenuti, “I have no idea” ripete più volte nel chorus, narra di vecchi amori sui quali non ha mai avuto il controllo quasi a voler chiudere con ciò che è già stato, pronta a sfidare con un nuova attitudine positiva la vita e la musica. Gli accordi di piano, che accompagnano la voce e in sottofondo la batteria, creano un’atmosfera cupa in cui trova spazio la sua confessione personale.
Il passato non è comunque mai completamente superato, e infatti compare di tanto in tanto in alcuni brani dove la cantautrice si lascia andare a riflessioni generali sull’amore e le delusioni vissute come nella seconda track, No One’s Easy to Love in cui sulle note pulsanti del piano si avvertono batteria e bassi distorti.
La Sharon del passato la ritroviamo anche in Malibu sia per le sonorità che per i temi, è infatti una rêverie in cui immagina un weekend romantico trascorso in giro per le strade delle California in a little red car, ascoltando alla radio The Black Crowes.
Completamente innovative e sperimentali sono invece Memorial Day e Jupiter 4, rispettivamente terza e quinta track dell’album. Nella prima la Van Etten fa sfoggio di una voce elegante e oscura di grande potenza espressiva e lirica accompagnata da synth e batterie trattate. Jupiter 4, secondo singolo dell’album, è una dichiarazione d’amore al marito Zeke Hutchins ma il titolo si riferisce al nome del sintetizzatore della Roland utilizzato per registrare il pezzo. Protagoniste quindi le sonorità elettroniche dal sound trip-hop.
Il rapporto di coppia e la vita matrimoniale ritornano in un altro brano: Hands descrive alcune dinamiche quotidiane come i litigi per questioni futili, le fragilità individuali, la paura della perdita, il suono si fa più irrequieto con influenza punk.
Lo stesso carattere turbolento e post punk lo incontriamo nel primo singolo estratto dall’album, Comeback Kid e nella famosa Seventeen, rispettivamente premiate tra le Greatest Song del 2018/19.
Comeback Kid è una canzone che descrive quella sensazione “proustiana” che ci prende quando si ritorna, dopo qualche anno, alla casa d’infanzia per andare a trovare i genitori. Entrando nella camera dell’adolescenza, gli odori, le foto, gli oggetti stimolano i ricordi. Girando l’angolo della strada, infatti, può capitare di incontrare persone conosciute un tempo e perciò sembra che nulla sia cambiato eppure ci si sente così irrimediabilmente diversi.
Seventeen è ancora un’immersione nel passato adolescenziale, caratterizzato da una irresponsabile leggerezza, da una libertà che appare più formale che sostanziale, poiché si presenta solo come una promessa. A un primo ascolto sembra un brano quasi spensierato ma in realtà nasconde un significato più amaro che si esplicita in alcune linee: “I used to feel free. Was it just a dream?” (....) “I see you so uncomfortably alone I wish I could show you how much you've grown” (…) “Afraid that you'll be just like me”.
Remid Me Tomorrow, quindi, considerato anche dalla critica uno dei migliori album alternative del 2019, per i sui testi sinceri e complessi, per il coraggio dell’artista di sperimentare nuovi suoni senza snaturare il suo stile comunque riconoscibile, merita realmente di essere ricordato.






Remind Me Tomorrow
Sharon Van Etten
voce, piano, organo
Sharon Van Etten
piano elettrico, sintetizzatore, cori Heather Woods Broderick
basso, sintetizzatore Zachary Dawes
tastiere, percussioni McKenzie Smith
chitarra, chitarra d’acciaio, passanti, sintetizzatore, tastiere, celesta, basso Luke Reynolds
sintetizzatore, drum programming, drum machine, drone, percussioni, organo, theremin, cori, sequenziatore John Congleton
sintetizzatore, voci, chitarra, campane, percussioni Jamie Stewart
chitarra, sintetizzatore, fiati, piano, celesta Lars Horntveth
tastiere, organo, percussioni, drone, piatto Brian Reitzell
tastiere Joey Waronker, Stella Mozgawa
produzione, ingegneria del suono, mixaggio John Congleton
masterizzazione Greg Calbi
etichetta Jagjaguwar
tracklist: 1. I Told You Everything: 2. No One’s Easy to Love; 3. Memorial Day; 4. Comeback Kid; 5. Jupiter 4; 6. Seventeen; 7. Malibu; 8. You Shadow; 9. Hands; 10. Stay

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