“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 19 November 2020 00:00

Sedici autrici per sedici sorelle

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Sedici racconti per sedici donne. Sedici voci dalla Colombia. Sedici voci femminili raccolte da sedici traduttrici italiane che le hanno trovate, tradotte e portate, per la prima volta, in Italia. Storie che sanno di yucca e tamales impastoiati nella disparità di genere, di un Paese afflitto da forti contrasti e sperequazioni, civili, sociali e politiche. Uno di quei Paesi in cui le vene aperte galeane scorrono più copiosamente (come purtroppo sappiamo bene, gli occhi ancora pieni come sono del tragico esempio offertoci dalla fine di Mario Paciolla).


“Non siamo né carne né pesce” diceva mio padre. Per questo motivo, quando nel 1969 la guerriglia arrivò e affrontò l’Esercito a La Velàsquez, vicino Puerto Boyacà, e comparvero i primi cadaveri per strada, mio padre decise di vendere la fattoria e comprare una piccola casa a Puerto Salgar. “Lì vedremo come sopravvivere” disse a mia madre. All’epoca io avevo nove anni.


(La desplazada, Juana Sánchez, di Patricia Lara Salive, traduzione di Daniela Minopoli)

Alcune storie scorrono davanti, lente come un fiume amazzonico, sopra il quale galleggino radiografie di tanti piccoli martirii quotidiani. Quelli perpetrati dalle FARC, ancora echeggianti di ferite scoperte e voci interrotte. Ingiustizia sommaria e populista costituiscono, infatti, il nerbo del racconto della giornalista de El Espectador ed El País di Cali, che ne riporta fedelmente i cortocircuiti logici che talvolta ricalcano il nonsense da regime d’Absurdistan che i tanti spiriti liberi (almeno sulla carta) riescono a mettere in luce, tipici di totalitarismi arroganti che cercano pretesti insensati per la loro violenza ingiustificabile contro i più fragili. Secchi i toni come il clima d’una foresta pluviale, a colpi di machete, la scrittrice porta avanti la sua storia che, rispetto ai giorni crudi della violenza eletta a regime in salsa mittleuropea, qui si assommano delle recrudescenze dei rapporti asimmetrici d’un conflitto di genere, da sempre irrisolto, dove la debolezza del maschio riesce a sopraffare la fortaleza femminile, riproponendo nel micro quanto, nel macro, viene a essere perpetrato in un Paese, purtroppo, ancora dal forte retroterra machista, come ben ci ricorda l’introduzione di Fabio Rodríguez Amaya. Ed è qui che riposa tutta la profondità e la necessarietà politica di un’opera simile.
“Uno sta con loro per necessità: bisogna cautelarsi. Ma, come diceva mio padre, non siamo né carne né pesce”.
L’autrice si riferisce ai paramilitari o agli uomini in generale? In divisa o senza machete, poco cambia.
“... a causa della nostra condizione di desplazados non venivamo considerati esseri umani: venivamo infastiditi quando andavamo a pagare l’affitto; le nostre figlie venivano emarginate e non potevano giocare con gli altri bambini… Quando io uscivo le chiudevo dentro casa. A quell’epoca dicevano alle bambine che siccome erano desplazadas erano una merda e gli lanciavano acqua e immondizia dalle finestre”.
Viene da chiedersi se in Colombia la condizione femminile di desplazada sia tipica e se la distinzione non sia solo il cambio di casacca e l’istituzionalizzazione formale della violenza.
Finisce un racconto se ne apre un altro. Cambio di toni e di registro. Mutamento generale di clima. Storia d’un amore, di quelli con la pioggia dentro, che ti folgorano dall’inizio tanto che ti pare ci sia ancora un Cortázar su questa terra. Non fosse che, stavolta, si è fatto donna.


“Poteva essere amore. In effetti, lo era. Ma poi lui iniziò a piangere”.
  (Perdere Bogotá, di Paola Guevara, traduzione di Giuliana Saviano)


Vi si legge, in filigrana, scorrendo le righe dell’autrice di Mi padre y otros accidentes, le tracce sedimentate di una storia forse vera, comunque comune, a suo modo universale: quella di due amici che giocano a essere qualcosa di più e che, nella solita dinamica di ruoli a corrente alternata e di riflussi, il giovane desiste dall’impegno, vede la sua sicumera capitolare, e tutte le sue teorie vertiginosamente inciampano nella pratica della vita di tutti i giorni.
“Lui le cucì addosso la purezza, la bellezza, la sacralità, la santità e altri ruoli che pesavano come il marmo sulle spalle di Emma”.
È questa, infatti, l’altra faccia del machismo sudmondista (e non solo, anzi): quella più ingannevole e infausta, la più sediziosa e seducente, quella cavalleresca. Il dominio tenero, il patriarcato leggero, quello che preclude ogni reale conoscenza, quello che priva ogni incontro della reciprocità del mutuo ri-conoscimento. Perché forse, sì, se ogni rapporto è asimmetrico, e in special modo quello amoroso si rivela insottraibile a questa logica, cionondimeno la più lieve delle barriere resta pur sempre una gabbia dorata che soffoca, con le migliori intenzioni, l’altro. Se a Rick Blaine e Ilsa Laszlo rimaneva sempre Parigi, all’Antonio guevariano, rimarrà, in questo caso, Bogotá.
I racconti si avvicendano, lunghezze spaiate e respiri diversi, diversi i toni, in un’alternanza di voci all’interno di un’unica polifonia che va a comporre questo rutilante maelstrom di correnti, ognuna con la propria sensibilità, che non si annullano né si accavallano ma, come gli affluenti quando confluiscono nel Rio, non a caso, delle Amazzoni, vanno, armoniosamente, a esaltarsi reciprocamente, restituendo tutta l’inestimabile ricchezza d’una vivissima biodiversità e alterità culturale, d’un immaginario altro eppure abile a toccare corde vicine al lettore e alla lettrice più curiosi di cimentarsi in un viaggio sul posto, impossibilitati come siamo, dal momento storico, a viaggiare fisicamente.



“Nonno José, che ricordava a malapena, forse non considerò il fatto che il sangue versato dalle sue mani avrebbe lasciato in eredità a figli e nipoti il desiderio di vendetta, oltre a terreni e case dai grandi atri e corridoi floreali”.
(L’incontro, di Olga María Echevarría Ruiz, traduzione di Mara Piscopo)


È il retaggio atavico d’un sud culturale che ritorna, quello che ci viene riportato dall’autrice, nonché docente di filologia ispanica, originaria di Medellín. Un sud con i suoi odori e i suoi sapori, immutati, benché ora siano travasati in bicchierini di plastica. Coi suoi peculiari codici culturali e valori, condivisibili o meno, ma che gli sono propri. Veri, reali, spigolosi, contro essi è possibile ferirsi, certamente, anche a lungo, di ferite che si tramandano di generazione in generazione, ma che non conoscono (ancora) gli smussamenti del mortificante appiattimento ideologico dell’olocausto valoriale in cui il nordoccidente è piombato senza possibilità di ritorno, abdicando a tutte le proprie varie specificità: a quella voce fragile e sottile che era il lascito di un popolo sommesso e perduto, quello delle campagne meridionali, che ancora ristagna in qualche piccola sacca di strenua resilienza.
Ortografie che cambiano, punteggiature che si alternano e cadono, chi spezzando il respiro chi prolungandolo, ogni narratrice ci conduce col proprio ritmo per secondare il proprio respiro.


“Allora un aborigeno dai capelli molto lunghi le si avvicina e si mettono a fumare e a ridere insieme. Tornando a casa mi affaccio alla finestra e vedo che lei è felice. Da qui invidio la sua faccia mentre negozia una bustina di risate…”.(Buona fortuna, di Melba Escobar de Nogales, traduzione di Valentina Grieco)

Sono tutte storie di retroterra, di un’umanità ferita, che si sottrae, che non avanza, che sopravvive, in qualche modo, a se stessa, ma sempre ai margini, puntando i piedi con ostinata resistenza.
“Lui non capì. “Odio la bellezza, per questo amo te”, gli disse, e allungò la mano per accarezzargli il viso ma proprio in quel momento Jerónimo si girò…”.
(Con i pioppi e il cielo di fronte, di Margarita García Robayo, traduzione di Rosa Schioppa)


Le storie di uomini e donne si evolvono, avvitandosi, e l’uomo, come di buona prassi, si defila, e così i racconti si volgono a un femminile più autonomo, che almeno nella narratività riesce ad avocare per sé e da sé il proprio spazio indipendente, emancipandosi da qualsiasi figura maschile a fianco, sia padre che marito che figlio, che si presti a valorizzare e conferire dignità a qualcuno che la dignità possa prendersela da sé, senza bisogno di intermediario che ne canalizzi la voce. Autrice di Los álamos y el cielo de frente, di Cartagena ma in prestito a Buenos Aires, scrive: “Trasforma la tua volubilità in qualcosa di bello”, recitava il bigliettino. Ema lo gettò via senza nemmeno tirarlo fuori dalla scatola”.
Il capitale sociale che attraversa e scorre le pagine, impregnandone le riga, trasuda e palpita, avendo al centro di esso un’umanità grondante e viva. Questo è quello che accomuna tutti i racconti e li rende interessanti: il modo in cui gli individui, anzi, meglio, le donne, interagiscono fra loro, anche scontrandosi, anche separandosi, unendosi e lasciandosi, trovandosi e perdendosi, in quel continuum che è la vita di tutti, da quella come da questa parte dell’equatore, in modo universalizzante.
…”Sei l’essere più perverso dell’universo”. Piangeva. Ema attaccò. Lo immaginò ubriaco, maleodorante. Il cellulare tornò a squillare. Lei cercò un asciugamano e si avvolse i capelli bagnati. Le faceva male la testa […] era furioso. Lei era nuda e si sentiva in svantaggio. Le sembrava così ingiusto che lui potesse chiamarla ogni volta che ne avesse voglia e che potesse aggredirla con qualunque cosa gli venisse in mente. “Fai quello che cazzo vuoi, sono stufa di questa voce da vittima”. “E non sono forse una vittima?”.
Quando la maternità si affaccia è sempre solinga, nelle pagine come nella vita, sempre più spesso. Il padre, il compagno, l’amante di turno, è sempre svaporizzato via, liquefattosi davanti all’impegno, all’assunzione della responsabilità della felicità dell’altro. Segno evidente e ricorrente di una femminilità che vuole, con una scrollata, pretendere quell’emancipazione troppo a lungo negata.

“Juanchaco è una comunità nera con case di tavole di legno e un molo di cemento custodito dai militari di una base navale lì vicino”.
(Ossa e pelo, di Pilar Quintana, traduzione di Margherita Russo)


Anche la natura trova il modo di ritagliarsi la sua parte, fra le pagine della scrittrice, tra l’altro, de La perra. Ovviamente è una natura sempre declinata nella sua essenza femminile: tradita, violata, brutalizzata, ingabbiata. Dall’uomo malamente addomesticata, nel vacuo tentativo di domarla, di renderla sommessa, come quel giaguaro di osso e pelo, che sembra essere l’erede malridotto del suo alter ego sepulvediano ne Il vecchio che leggeva romanzi d’amore.


“Marcelo era l’ultimo capriccio del mio menù di amori e orrori”.
(Bisessuali occasionali, di María Paz Ruiz Gil, traduzione di Maria Luisa Bentivoglio)

Dato lo scenario fin qui descritto è ovvio che nei vari acquerelli che si susseguono, come scorci e che danno sulle vedute d’interno delle anime delle donne che filtrano con la loro sensibilità il mondo ostile su cui provano a imprimere la loro traccia, la sessualità riveste un ruolo primario, spesso divampando, furiosa, avida, tanto smaniosa di riscatto quanto lungamente ne è stata privata, divampando come una fiammata di ritorno. Ne è pervasa l’opera della Gil, cui si devono, tra gli altri, Sexo sin comillas e #Femituits.
“C’è solo un posto più scomodo di un ascensore dove fare l’amore; e questo posto è la cuccetta di un treno”.
Guayabas (che prende il prestito il nome dal frutto subtropicale da cui si fa la goiabada) ha il merito di andare a rimpolpare il nostro immaginario latinoamericano (o almeno quello colombiano), andando ad affiancare ai tanti maestri riconosciuti, e ancora da scoprire, che hanno decolonizzato il nostro immaginario occidentale, col loro canto (impossibile elencarli tutti, da Arlt a Vallejo, da Marquez a Borges, da Sabato a Cortázar, da Onetti e via dicendo), finalmente, la parte che ci mancava: quella delle donne. E dato che il metodo non può tradire il fine, in letteratura come in politica, quando si voglia fare una sana e onesta militanza intellettuale, per ogni autrice vi è, e può esservi, solo una traduttrice, in modo da non tradirne la voce e restituircene i temi e la sensibilità nel modo più fedele possibile. Tramite questa interstiziale e trasversale sorellanza transcontinentale si perviene a un recupero necessario, al completamento di un quadro che, finora, si voleva rimanesse lacunoso e parziale, fallato, terribilmente manchevole come, purtroppo, e in ciò permane fedele a se stesso, quella società, quella latinoamericana (ma di nuovo, purtroppo, solo in modo più evidente), in cui la donna scalpita per appropriarsi del posto che le spetta. È a maggior ragione, quindi, che proprio da quella realtà si può alzare la voce della donna a pretendere, con più forza e con più decisione, anch’essa la libertà di esprimersi, di erompere il silenzio che l’attanaglia e contribuire, con lo sguardo che getta sul mondo, a rovesciarne le insopportabili storture e offrire un’altra interpretazione: la sua. Riusciamo così a scoprire una narrativa nuova e vivace, inedita, colpevolmente negletta, variopinta, nient’affatto emula dei sentieri già percorsi dall’occidente, ma che sgomita per trovare un proprio passo e aprire una via che le sia propria. E che questo libro ha il merito di tramitarci e far approdare anche alle nostre sponde, risalendo la corrente atlantica, rifacendo a ritroso le tratte dei dominanti, per portarci nuova linfa e farci riscoprire mondi, quello sudamericano e quello femminile, che abbiamo saputo solamente schiacciare. E allora che cosa può esserci di meglio che lasciarsi annettere da questo continente sconosciuto alla deriva, dai suoi linguaggi, le sue parole autoctone, che da contaminate si fanno contaminatrici, e lasciarsi travolgere da questa mezcla variopinta di umori, sapori, colori, espressioni polisemantiche, che ci riporti un nuovo plurale femminile?





Guayabas
a cura di Rosa Schioppa, Valentina Grieco
prefazione di Fabio Rodrìguez Amaya
postfazione di Rosa Schioppa
Castelvecchi Editore, Roma, 2020

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