“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 25 February 2020 00:00

Rileggendo “La peste” di Camus

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La prima impressione che ho di questa lettura è che libri così, adesso, non se ne potrebbero pubblicare. Pur essendovi un protagonista che racconta, non è l’uomo il personaggio di questo romanzo.

Non è la malattia, non è l’epidemia, non è la morte e non è neppure il dolore. Il romanzo si stende come un lenzuolo bianco sopra la vita di una città, mentre l’epidemia la storpia radicalmente. L’oggetto dell’epidemia non sono i singoli corpi, è un insieme di persone che, nonostante la loro diversità, impressiona la carta come fosse un corpo omogeneo. Il personaggio è la città di Orano, in Algeria, sotto il controllo francese, negli anni ’40. Gli editor contemporanei richiederebbero più azione, più violenza, più amore, più sesso. Poveretti, cercano la letteratura come fosse pettegolezzo a una festa mal riuscita. Camus sa descrivere i sentimenti di una città e gli servono pagine intere prive di azione.
Eppure, ricordo Lo straniero e non posso fare a meno di ritenere quest’ultimo superiore a La peste, forse perché nei drammi personali mi rigiro meglio che in quelli collettivi, ma non posso dire di più perché è passato troppo tempo da quella lettura e per me è come una fidanzata di vent’anni fa: ricordo di averla amata ma non ricordo il suo volto, ricordo che mi ci sono specchiato (nel libro e nella ragazza), ma non ricordo il suono della sua voce.
Ebbene, nella Peste contavo i morti – centotrentacinque al giorno – ma non contavo il dolore, né la tragedia, come invece l’ho contata in Cecità (Saramago) e ne La strada (McCarthy), perché, in questi ultimi, la distruzione collettiva si è tradotta subito in distruzione dei protagonisti, quindi anche del lettore. Ne La peste è la città che arriva quasi alla distruzione, ma non i suoi singoli cittadini, la morte dei quali è sorvolata dall’autore, salvo che quella di un bambino che cede all’insonnia della malattia fra grandi sofferenze. Quello è stato il passo più triste, più esplicito, unico esempio di tutto il male, quasi una pornografia del dolore e dell’amore di chi lo amava. Nel resto del romanzo, non si spiega troppo, non si indugia sui particolari.
Nel disastro collettivo, c’è spazio per per l’amicizia fra il medico e il suo aiutante che, in un altro passo indimenticabile, abbandonano per un momento il loro compito di salvatori e si rifugiano su un terrazzo, per guardare la città dall’alto. Si siedono e, mentre la luce delle stelle gli si conficca nel cuore, riescono a dimenticare la malattia e a sognare quel bagno in mare che è vietato dalle autorità.
Perché in una condizione di disperazione, anche i piccoli desideri concedono “quella sorta di tremenda libertà che sta in fondo alla miseria”.




Albert Camus
La peste
Bompiani, Milano, 1948
pp. 245

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