“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 20 February 2014 00:00

"La bella estate". Una lettura

Written by 

“io non so ancora se sono un poeta o un sentimentale”

(Cesare Pavese)

 

L’eterno ritorno dell’uguale governa la complessità dell’universo, che continuamente rinasce e continuamente rimuore, senza mai sfinirsi, senza mai giungere ad una fine che sia vera Fine, perché non tarderà ad arrivare un nuovo Inizio.

Le cose del mondo si piegano sotto il peso di un tempo infinito, ripetendosi per sempre e per infinite possibilità di combinazione, ma rimanendo sorprendentemente sempre uguali. Una trappola statica a cui è sottoposto anche il destino umano, il cui inesorabile rettilineo della mortalità procede accanto al cerchio del tempo dell’anima. Le stagioni s’inseguono e si susseguono, ormai più per convenzione che per un reale mutamento (climatico), presentandosi come periodi fondamentali affinché la nostra vita (l’anno solare) abbia un senso. L’inevitabile e consueta e banale ma mai banale metafora della vita basata sulle stagioni mi intenerisce. Mi fa sorridere, incazzare, disperare, piangere di felicità, piangere di tristezza, di malinconia. C’è un momento in cui il sole raggiunge il punto più alto dell’orizzonte, e suggerisce ai corpi surriscaldati di liberarsi dei vestiti per iniziare finalmente la stagione tanto attesa. È questa l’Estate, la metafora per eccellenza della giovinezza.


"Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te. […] Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso? In cui la tua risposta sarebbe stata 'Mai intesi cosa più divina'?"

(Friedrich Nietzsche, La gaia scienza)

 

È in quell’attimo immenso che risiede l’Estate, quella dentro di noi. E anche quella di Cesare Pavese.
Lo scrittore descrisse La bella estate come “la storia di una verginità che si difende” sullo sfondo di una Torino grigia e crepuscolare in cui vive la sedicenne Ginia, una sartina semplice ed allegra. Ginia spensierata vive ogni giornata di sole convinta di conoscere di già il mondo e credendo che ad attenderla ci sia un futuro roseo e meraviglioso. Ma Ginia non è solo Ginia. Pavese ne traccia i contorni lasciandola abbastanza indefinita affinché la sua sedicenne possa essere tutti i sedicenni del mondo, innamorati della vita, pieni di aspettative inebrianti e di entusiasmo estivo, convinti che quella sensazione di onnipotenza non finirà mai. Ogni giorno è colmo di innocenza, di curiosità, di una nuova scoperta, di una libertà che si perderà con le foglie d’autunno, quando la maturità farà luce su quella che era stata l’energia giovanile. Per Ginia l’estate inizia con un amore disperante da cui si lascerà sedurre, dopo rimorsi e resistenze interiori, e da cui resterà delusa quando si renderà conto che il suo amore è destinato a consumarsi nel breve attimo di una stagione. La bella estate è dunque un clima morale che precede la disillusione dell’età adulta per restare congelato forse proprio in quell’attimo immenso che interrompe per un solo istante l’eterno ritorno.

 

"Quando fu sola nella neve le parve di essere ancora nuda. Tutte le strade erano vuote e non sapeva dove andare… Si divertiva a pensare che l’estate che aveva sperato, non sarebbe venuta mai più"

(Cesare Pavese, La bella estate)

 

Al di fuori di quell’attimo immenso, tutto il resto è destinato a ripetersi e a ritornare sempre uguale a se stesso (che in chiave psicologica richiamerebbe anche Freud e la sua teoria della coazione a ripetere) paralizzando l’uomo che nel frattempo però non riesce a rompere il cerchio dell’eterno ritorno e addirittura, nonostante questo, crede persino di essere in movimento verso il futuro. 

 "Non sai che quello che ti tocca una volta si ripete? Che come si è reagito una volta, si reagisce sempre? Non è mica per caso che ti metti nei guai. Poi ci ricaschi. Si chiama Destino"
(Cesare Pavese, Il diavolo sulle colline)

Ma se di paralisi si parla, come non ammettere che quell’attimo immenso, se mai c’è stato, che quel piccolissimo ma sconfinato istante che abbiamo vissuto poco prima che la normalità ci piombasse addosso, sia stato in grado di rendersi interminabile e di immobilizzarci completamente, al punto tale che persino ciò di cui avevamo assoluta certezza che non si sarebbe ripetuto mai più, finisce anch’esso per ripetersi all’infinito nella nostra mente, nel ricordo, facendoci rinascere e rimorire ogni volta. Ed è tutto qua il valore essenziale delle cose. Il valore temporale che non muta nel tempo, che vale fino alla fine degli anni, che si rende poesia in quel contenuto che va molto al di là del vero significato delle parole e che poneva Pavese di fronte alla sua dubbiosa identità di poeta, o di semplice sentimentale. Probabilmente era entrambe le cose. Il suo carattere introverso ed instabile non lo rese capace di sostenere il peso de La bella estate che volge al termine, pubblicata infatti solo un anno prima del suo suicidio, avvenuto nel 1950 in seguito ad una delusione d’amore, ed annunciato nella raccolta di poesie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.      
Sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte, direbbe Freud, una morte in cui continuamente ci imbattiamo, almeno da un punto di vista cerebrale. Il problema è quando il trapasso ti fa lo scherzo di combinare vita&morte insieme, anestetizzandoti in un dolce e singolare stato di turbata quiete, senza permetterti di rinascere ma neanche di morire come si deve. Sei vivo e morto insieme dunque, e finisci per non capire quale tra le due parti avrà la meglio. Però La bella estate te la ricordi sempre, anche quando non sai più cosa sei. Concediamoci di credere che Cesare Pavese si sia ucciso proprio nel rispetto di quell’attimo immenso, che non sarebbe mai più tornato ma che continuava inesorabilmente a ritornare, per effetto di un eterno ritorno ormai insopportabile e quasi patologico. Era necessario sostituirlo con un nuovo attimo immenso, che fosse stato però stavolta veramente irripetibile.

 

Cesare Pavese
La bella estate
Einaudi, Torino, 1949
pp 111

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook