“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 22 November 2020 00:00

Ecocardiogramma del terremoto – Irpinia, 23.11.1980

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Avellino. Domenica 23 Novembre 1980, ore 19:34. 
Quarant'anni dopo. Quarant'anni e il ricordo è intatto, presenza costante.
Mio papà stava guardando la partita di calcio serale (quel giorno c’era Juventus – Inter), un rito irrinunciabile, a quei tempi, in Italia, della (altrimenti solo) santa domenica.

Io, mamma e mia sorella Alessandra – che aveva due anni e mezzo − eravamo in bagno. Mia madre mi stava asciugando i capelli, dopo avermeli lavati e tagliati. Lei era in piedi, io seduta sul bordo della vasca da bagno. Le docce, a quei tempi, in Italia, si usavano poco. Mia sorella circolava e già predicava.
C’era anche un’ospite a casa, una ragazza di Aquilonia, il paese di mia madre, che era venuta ad Avellino per badare a me e a mia sorella Alessandra, visto che mamma, giusto la settimana precedente, aveva subito una delicata operazione chirurgica a Napoli. Aveva infatti ancora la benda intorno al collo e, probabilmente, i punti.
La comprensione di qualcosa di anomalo, di grande, di ‘spettacolare’, di unico la ebbi quando, per la seconda o terza volta mamma mi riprese dal mio presunto muovermi che le impediva di asciugarmi bene i capelli: vidi mia madre sbiancare, tacere e immobilizzarsi e, dietro di lei, il lampadario volteggiare furiosamente. Ero una bambina molto irrequieta, in effetti, ma quella volta stavo immobile, come sempre quando un phon si avvicina(va) minacciosamente al mio cuoio capelluto. Temevo che mi bruciasse, come puntualmente, in svariate occasioni in cui altri mi asciugano i capelli, avveniva e avviene... Bene, tornando alla problematica più rilevante, all’improvviso si sentì un fortissimo boato, poi ci fu l’inizio del dramma teatrale impersonato dal Sig. Sisma.
Dissi qualcosa del tipo: “Mamma, il lampadario dondola!”. Non ero preoccupata, o spaventata, quanto più incuriosita. Avevo cinque anni, il tempo in cui la fantasia e la creatività possono modificare a proprio agio, o, certo, anche disagio, qualunque evento. Da piccola, evidentemente, ero incomprensibilmente ottimista... Eppure, quella volta, addirittura ebbi ragione.
Mia madre mi prese e uscimmo dal bagno per andare nella sala, dove a papà erano caduti gli occhiali. Irrimediabilmente rotti. All’epoca, si usava il vetro per fare gli occhiali. Ma all’epoca, per fortuna, si era anche previdenti, quindi papà ne aveva un paio di riserva... Sì, ma con quella scossa violentissima, non erano caduti soltanto gli occhiali... Era crollato in terra anche lui e sussurrava: “Il terremoto!!!”. I problemi drammatici della mia famiglia furono, in quei novanta, interminabili secondi, due: mia sorella che ancora non camminava benissimo, e mio padre che, per la violenza della scossa, non riusciva ad alzarsi. I muri sembravano impazziti. Il sisma fu sussultorio ma anche ondulatorio: il muro sembrava volerci fagocitare. Ricordo le pareti avvicinarsi al centro della stanza e poi rimbalzare indietro, con violenza. Cadeva tutto: libri, bicchieri, tazze, ninnoli. Black out: la luce andò via. Per fortuna la serata era buona e c’era quindi un certo chiarore dall’esterno, mi pare di colore rossastro. L’indice che segnava l’intensità del terremoto, secondo una studiosa, fu talmente lungo e forte che non riuscì a registrare tutto, a reggere l’entità devastante della scossa. Quando l’incubo finì, almeno per quei novanta secondi, ci precipitammo giù, in strada, dopo che mio padre ebbe miracolosamente trovato gli occhiali della salvezza.
Se a questo aggiungo che mia sorella doveva essere presa in braccio, che i miei genitori non riuscirono a trovare le sue scarpette, che abitavamo al quinto piano e che io volevo scendere scivolando sul corrimano della scala, con mia madre che cercava di riportarmi alla ragione, il quadro della drammaticità assoluta (e grottesca) della situazione può apparire più chiaro e completo.
Novanta secondi, per un terremoto, sono un’infinità. Una magnitudo pari al decimo grado della Scala Mercalli (all’epoca, si usava quella... il grado massimo era dodici), 6,9 gradi della Scala Richter. Il mio status di terremotata inside, con un marchio originario, mi ha dato il privilegio di vivere diversi altri terremoti, da adulta. Mai, questi, hanno superato i quindici-venti secondi di durata, per dare il senso dell’infinità percepita di un terremoto di novanta secondi. E quando tutto gira intorno, sopra e sotto, ogni secondo è un’espansione del tempo incredibile che lo dota di infernale vita propria.
Per tornare alla narrazione, mentre la mia famiglia miracolosamente sopravviveva, nella provincia soprattutto di Avellino, ma anche di Potenza, migliaia di persone morivano e/o perdevano la casa, perdevano parenti, amici. Perdevano tutto. Le stime ufficiali, in quella devastazione non del tutto ricomprensibile né emotivamente, né, tantomeno, materialmente, dicono di quasi 3.000 morti, circa 9.000 feriti, quasi 300.000 sfollati. Furono toccate, in misura inferiore, anche le province di Salerno, Benevento, Napoli, Caserta, Foggia.
Noi quattro intanto, quella tragica sera, non sapevamo bene cosa fare, né dove andare. Il mio ricordo è nitidissimo, come fosse oggi, neanche ieri; come fosse adesso che scrivo. Avevo cinque anni, uno sguardo acuto, seppur occhialuto, un’alta energia vitale, una forza lucida.
Papà, stoicamente, dopo alcuni minuti che eravamo on the road, risalì a prendere le chiavi della macchina, un po’ di soldi, le giacche per tutti, le scarpette per Alessandra.
Decidemmo (decisero i miei genitori, più che altro) di andare verso Fontanarosa, ameno paesino sempre in provincia di Avellino, dove vivevano degli zii cari. Con le linee telefoniche (fisse, altro non c’era) ovviamente saltate, non c’era modo di mettersi in contatto con nessuno. Fu quindi angosciante non sapere se i nostri parenti, che non vivevano ad Avellino, ma in Alta Irpinia (che si rivelò poi essere stata la zona dell’epicentro del bestiale tremblement) stessero bene... ma bisognava salvarsi, sopravvivere. Gli zii di Fontanarosa avevano una villetta, ritenuta dai miei genitori più sicura del nostro appartamento al quinto piano in uno dei (pochi, per la verità) palazzi di oltre dieci piani del capoluogo irpino. Una sorta di mini-grattacielo, se proporzionato alle dimensioni della piccola città di provincia del Sud... La villetta dei miei parenti, e quelle adiacenti dei loro fratelli e sorelle, tutte in fila, in stile americano, avevano anche ampi e splendidi giardini, per cui avremmo dormito in automobile, mal che fosse andata.
E a noi bambini andò maluccio, in effetti... Molteplici, continue, lunghe scosse di assestamento si susseguirono durante la serata e la notte, per cui gli adulti ci misero a dormire in auto, ritenendola più sicura di una casa. Prima, però, mangiammo ciò che c’era in casa e gli adulti si dedicarono a svariati caffè corretti con l’anice, preparati di continuo da mia zia Liliana. La condivisione allevia la pena, si sa. Noi bambini, per quel che mi ricordo e che mia madre mi ha confermato, dormimmo benissimo in auto.
Il giorno successivo, via radio – unico mezzo funzionante e affidabile − una cara amica di mia madre, Adriana Raimondi, ci cercò e ci propose di ospitarci in provincia di Napoli. Intanto, da tutta Italia, cominciarono ad inviare vestiti, scarpe, cibo. Ci impiegarono diversi giorni ad arrivare, perché non si sapeva neanche dove molti paesi dell’Appennino meridionale interno si trovassero. Mio zio Pino, fratello di mia madre, arrivò a Fontanarosa per verificare se fossimo lì: fu un sollievo, per lui e per noi, visto che neanche dei parenti più stretti avevamo ancora notizie.
Dopo diversi giorni, ci spostammo verso Sorrento, ospiti della generosa amica di famiglia, in una zona più meno toccata dal sisma. Restammo lì fino a prima di Natale, quando poi ci trasferimmo ad Aquilonia, il paese di mia madre, leggermente distante dall’epicentro del terremoto, dove i danni non erano stati irrimediabili, e dove restammo fino alla primavera inoltrata, tra numerose scosse di assestamento, alcune delle quali configurabili come veri terremoti a sé stanti. A Morra De Sanctis, invece, il paese di mio padre, sempre in Alta Irpinia, c’era stata una vera e propria distruzione: la casa di mio padre era completamente crollata, con tutti i suoi libri distrutti, come distrutti furono i mobili in legno costruiti da mio nonno, un noto e ammirato falegname. Il paese era un cumulo di macerie. Storie familiari e di vita cancellate in poco più di un minuto: questo sono i terremoti, questo è stato il terremoto del 1980: un marchio a fuoco per chiunque l’abbia vissuto.
Non ho grandi ricordi di ciò che faceva (o diceva) la mia sorellina... era troppo piccola per fare e ricordare, probabilmente. Ricordo che giocavamo e che era serena. Quante risorse hanno i bambini, quanto c’è da apprendere da loro. Io continuavo a prendere tutto come un’avventura. Un ottimismo talmente elevato e incosciente da trasformarsi poi, da adulta, in un irrimediabile pessimismo cosmico. Tutti i nodi tornano al pettine, evidentemente...
Ma, forse, fu una rimozione istantanea, non certo degli avvenimenti, quanto del loro significato devastante e delle conseguenze. Capivo infatti che intorno a me si svolgeva qualcosa di epico, e grave, ma preferii concentrarmi sul fatto che ero in campagna, con i miei cuginetti, a potere esplorare la natura, divertirmi all’aria aperta. Anche se, nei giorni successivi a quello del sisma, atipicamente caldo e afoso – come se il calore fosse un messaggio predittivo − si gelava... All’epoca, novembre era il mese che presentava in maniera chiara le intenzioni ostili dell’inverno e in molti paesi dell’Irpinia, e non solo, la neve provò a coprire quell’incommensurabile dolore col suo silenzio prezioso. Quella volta, non ci riuscì.
Il sisma del 1980 fu la tabula rasa delle esistenze che fece sparire le parole “futuro” e “speranza” dal lessico delle popolazioni colpite, popolazioni – quelle interne - mediamente di bassa estrazione, con, tra di loro, tanti contadini, silenziosi, tenaci e fieri. Anche a causa del terremoto, l’agricoltura e la pastorizia in quei terreni è andata sparendo. A seguito di questo tragico evento, migliaia di persone ripresero ad emigrare. Addio, terra mia... terra semplice, genuina, ricca nel suo frugale dipanarsi. Sono rimaste le briciole del cemento che crollò e che continua a sgretolarsi e che ha sottratto, insieme con il malaffare che si impadronì della “Ricostruzione”, qualunque possibilità di armonico sviluppo endogeno.
Il terremoto fece infatti sparire quelle parole anche nelle persone più giovani, dinamiche, istruite e vogliose di sapere e di fare. Instillò però in loro una sete inesauribile di conoscere, incontrare, eliminare la raggelante sensazione di distruzione esterna e interiore con l’atto creativo, e di sognare. Sarà per questo che un ironico orgoglio misto a passione per la visione caratterizza me e tanti miei concittadini e conterranei, ovunque noi siamo e andiamo.
Per esprimere il significato anche recondito di quell’evento che a tutti noi ha tolto una parte di certezze e un po’ della solidità necessaria a una serenità primigenia, userò una similitudine: la mia terra, e noi che quel terremoto abbiamo vissuto, siamo come un cuore che è andato in tachicardia fortissima, ha poi vissuto diverse aritmie, ha visto le sue pareti creparsi, ma non ha cessato di battere. Il segno grafico è quello di un elettrocardiogramma impazzito che sa di (laico) miracolo di sopravvivenza.
Anche al terremoto devo la mia inquietudine esistenziale, l’insopprimibile desiderio di provare a portare un messaggio di solidarietà e bellezza nel mondo, e il mio incessante ricercare significati, potenzialità, promesse in ogni cosa. La terra trema ancora, trema sempre, di continuo, il cuore continua a battere nonostante le ferite, le incrinature, le sofferenze. Quelle indimenticabili, stratificate macerie sono il dolore che è la forza che sempre deve fare andare avanti.





(ringrazio per la ricostruzione puntuale mia madre, Raffaela Tartaglia)

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