“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 10 June 2018 00:00

Ernie Miller

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“La vita di ogni uomo finisce allo stesso modo. Sono i particolari del modo in cui è vissuto e di come è morto che differenziano un uomo da un altro. Voglio continuare a scriver il meglio e il più sinceramente che posso finché morirò. E spero di non morire mai”.
Ernest Hemingway

 

Ketchum, buco del mondo nella contea di Blaine, 21 luglio 1961.
Da dietro una finestra un uomo scruta con occhi spenti la notte, seduto su di una poltrona in pelle bergere.
Il cielo è tetro, le nuvole oscure, la luna assente; la calura è insopportabile. Una luce fioca riesce, tuttavia, a oltrepassare le nubi, ma non abbastanza da donare nuovamente luce a quelle iridi prive di speranza.

 

La speranza aveva deluso Ernie Miller innumerevoli volte e, di conseguenza, Ernie Miller aveva semplicemente smesso di sperare. Appoggiato inerte sopra la scrivania, un sigaro il cui fumo aromatizza la stanza. Un frammento di cenere incandescente, precipitata dalla testa del sigaro, prende a bruciare leggermente la punta di un foglio, apice di una serie infinita di altre carte scritte a mano − la calligrafia appare confusa, il tratto veloce e tremante, le cancellature si sovrappongono al manto di inchiostro. Nella stanza un odore amaro di carta bruciata giunge fino al respiro calmo di Ernie, ma questo non lo disturba.
Lentamente si alza e si avvicina alla scrivania. Prende una bottiglia di Tremblement, miscuglio d’assenzio liscio con brandy, il preferito da Toulouse Lautrec, al quale però Ernie Miller ha aggiunto un goccio di champagne. Ernie Miller beve avidamente dal collo della bottiglia, ne fa fuori un quarto, poi torna a sedersi sulla poltrona.
“Mary!” chiama.
Mary giunge subito nella stanza, sul volto un sorriso che nasconde un’evidente preoccupazione; Ernie la cinge a sé e la bacia sulle labbra rosee.
“Hai preso le medicine che il signor Saviers ti ha prescritto?” gli chiede Mary con occhi malinconici, scintillanti di un amore folle.
“No”.
L'apatia in cui l'animo di Ernie era caduto in quei giorni si era tramutata in angoscia nel cuore della dolce Mary. Alcuni giorni prima, la donna aveva sorpreso il marito con il fucile puntato alla tempia, mentre recitava dei versi di Paul Verlaine, colto da una delle sue solite crisi − il sentimento e la passione di Mary avevano rassicurato Ernie quel giorno e la sera avevano fatto l'amore.
Ernie la prende in braccio e comincia ad accarezzarle con un dito la bocca. In quel momento Mary si accorge del foglio sulla scrivania che, nel frattempo, ha preso fuoco, e si alza di scatto.
“Ernie! I tuoi racconti stanno bruciando!”.
“Lascia pure che brucino allora e torna a sederti sulle mie ginocchia”.
Mary spegne il fuoco leggero, ma la punta sinistra del foglio è ormai distrutta e ora del titolo non rimane che un frammento “... gerous Summer”, che va a confondersi con il tratto insicuro della stesura.
La donna osserva la bottiglia di Tremblement vuota per i tre quarti, ma non dice nulla, e torna a sedersi sulle ginocchia del marito, cingendogli le braccia intorno al collo e nascondendo la testa sopra la sua spalla; Mary chiude gli occhi, Ernie comincia ad accarezzarle i capelli, il cervelletto di lei vibra.
“Quei racconti non valgono niente”, esclama Ernie Miller d’un tratto, sentendosi in dovere di chiudere la questione.
“Eppure mi sembravano così ben scritti”, sussurra lei dal suo nascondiglio.
La luce della luna fa capolino da dietro una nuvola, rischiarando le copertine di una moltitudine di libri gettati in terra, qua e là, per la stanza.
“Oggi sono stati nuovamente qui, li ho sentiti”.
“Chi?” Mary conosce già la risposta, ma il dottor Saviers le ha suggerito di assecondare le costruzioni mentali del marito.
“Ci osservavano, oggi pomeriggio, attraverso la finestra del salone. Se tornano un’altra volta, li ucciderò tutti quei bastardi!”.
Mary alza la testa dalla spalla di Ernie − non le è permesso abbandonarsi alle proprie tristezze, suo marito non deve comprendere che anche lei ha paura, bisogna che lei sia forte in circostanze come questa, le aveva detto il dottor Saviers.
Mary guarda ora l’amante negli occhi.
“Il Bureau e i suoi schifosissimi agenti federali mi tengono sotto sorveglianza dai tempi della guerra di Spagna e adesso tentano di fottermi per aver sposato una cubana”.
“Il mio visto e quello di Valery sono in regola, Ernie. Non possono farci nulla”.
Mary stringe forte Erny e lo bacia appassionatamente.

...

“Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non son: porto i capelli neri, neri come el carbon”.
Ernie Miller ha spento la luce e se ne sta da solo, nel buio; Mary singhiozza sola e al buio, nella camera da letto, quando sente il marito canticchiare. Ernie Miller è solito andare a letto molto tardi, quando le luci dell’alba tagliano già in due l’orizzonte. Non aveva mai abbracciato la moglie tra le lenzuola calde, i loro occhi non si erano mai assopiti cinti dalla stretta dell’altro, i loro respiri non si erano mai confusi nella notte; quella canzoncina, che il marito aveva sentito per la prima volta da un’italiana di nome Fernanda Pivano, era il modo in cui Ernie Miller ogni notte manifestava il suo amore per la moglie, era per Mary un sonnifero, una carezza fatta di parole.
Ernie Miller prese il fucile e due cartucce, nel caso il primo colpo non gli fosse bastato.

PRIMO QUADRO: LAGO MICHIGAN, 1910.

“Prendi la mira, così... e poi premi il grilletto in questo modo... vedi Erny? È facile, adesso prova tu, coraggio”.
“Ma papà...”
.
“E mi raccomando, tieni sempre il calcio del fucile contro la spalla, non vorrai forse rimanerci secco tu, spero? Ecco, vedi quel cervo laggiù, sulla riva del lago?”
.
“È pesante”
.
“Quel cervo è la vita. Fagli saltare le cervella, figliolo”
.

SECONDO QUADRO: ACCAMPAMENTO DELL’AMERICAN RED CROSS, BORDEAUX, 1918.

“Un colpo a una gamba è straziante, certo, ma con un’amputazione sul campo te la cavi. Oh amico, ma immagina un colpo nel ventre… la morte arriva lenta, in mezzo alle tue stesse viscere”.
“Non so se vorrei vivere tutta la mia vita su una sedia a rotelle”
.
“Sempre meglio che un colpo alla testa, ragazzi. Un colpo alla testa ti lascia secco all’istante”
.
“E tu Miller, cosa ne pensi?”
.
“I tedeschi ti hanno mangiato la lingua, amico?”
.
“Lasciatelo stare, quello lì. Si è arruolato come volontario, non vedete che ogni volta che parliamo della morte ha un’erezione?”
.

TERZO QUADRO: UGANDA, 1954

“MARY! MARY! STAI BENE?”.
“Ernie...”
.
“AAAH! Devo essermi fratturato una spalla! Fernàndez, vieni qui, aiutami a sollevare quest’ala!”.
“Subito, signore”.
“Fernàndez, avevi detto che il trabiccolo avrebbe retto fino a Pamplona!”
.
“Uno stormo di ibis ci è venuto addosso, signore!”
.
“Uno stormo di ibis?”
.
“Dobbiamo accamparci signore, il sole sta calando”
.
“Merda la fusoliera è andata. Fernàndez, ma dove cazzo siamo?”
.
“Credo in Uganda, signore”
.

QUADRI:

Elizabeth.
Pauline.
MARY.

“Signor Hemingway?”.
“Sì”
.
“Signor Hemingway, la chiamo da Stoccolma. Lei ha vinto il Nobel, signore”.
“Troppo tardi”.
“Signor Hemingway? Pronto, signor Hemingway?”
.


TuTuTuTuTuTuTu.


“Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non son: porto i capelli neri, neri come el carbon”.
BANG!

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