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Saturday, 25 April 2015 00:00

Una lacrima al primo minuto (un attimo di Teatro)

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Ho sempre odiato il teatro, l'idea stessa che qualcuno davanti a me potesse guardarmi e mentirmi senza preoccuparsi troppo di farlo con discrezione. Ho studiato la storia e le poetiche del teatro con entusiasmo ma, dal vivo, lo spettacolo teatrale mi è sempre sembrato una violenza adulta di cui non ero capace di reggere il peso. Il libro, lo schermo, il quadro: corpi morti rassicuranti le cui menzogne non inquietano. Ma un uomo, una donna, a portata di bacio, impossibili da conoscere, che mi parlano senza rivolgermi mai la parola e senza nemmeno chiedermi come sto! Come accettarlo con serenità? Come emozionarsi davanti a questa oscenità? Come accettare il vile patto e dimenticare l'uomo sotto la sua invisibile maschera per poterne credere la storia?

Ho sempre odiato il teatro, perché per me l'arte è sempre stato un rifugio dalla vita, e il teatro invece è quanto di più simile possa esistere alla realtà.
Eppure l'altra sera assistendo ad una rappresentazione in uno spazio occupato a Bologna, il teatro ha saputo soddisfare quella necessità segreta e solitaria che sfogo solitamente la sera coi porno: il pianto. A questo punto il lettore si aspetterà che parli della bravura degli attori, della qualità dei copioni, della trama o dell'originalità della performance. Ma niente di tutto questo ha causato quelle lacrime scuotendo il mio gelido animo. Ragazzi giovani che parlano di casa, immigrati, viaggi, lavoro, libertà, teatro, albe, padri, proteste, sogni, di Ulysse: in fondo niente di più banale. Anche le battute fatte dall'occhialuto col taglio fuori moda erano così stereotipiche da far sorridere più che ridere. Insomma bello, ma niente di nuovo e niente di eccezionale: è con questa triade che oggi i critici più sinceri si ritrovano costantemente confrontati in ogni campo e anche ai livelli “più alti”.
Ma d'altronde il pubblico di oggi se la merita un'arte di qualità che sia frutto di fatica, genio e dolore? Quella stessa sera, a circa metà spettacolo, un ragazzo si è seduto accanto a me, ha fumato due sigarette di fila, e poi se n'è andato. Sulla mia sinistra invece sin dall'inizio c'erano così tante persone con bottiglie di vino che era davvero difficile trovare un po' di aria da respirare.
Mentre da un lato qualcuno mentiva per dire qualcosa di vero, dall'altro qualcuno era venuto proprio per quel mentire soltanto per distrarsi un po' dalla propria noia esistenziale. Attorno a me chi davvero era qui perché gli importava ascoltare? E credo che anche questo valga per tutte le forme d'arte e per ogni pubblico: l'abitudine a consumare uomini e anime come fossero biscotti.
Ecco perché ho pianto al primo minuto: perché ho provato quel brivido da cui comincia l'arte.     
Perché in quegli istanti silenziosi dal palco ancora vuoto ho visto e sentito il coraggio di farsi avanti nell'oceano del già-detto, di spogliarsi senza chiedere niente in cambio, di chi cosciente della propria mediocrità e di quella altrui, nonostante tutto, decide di fare un atto di Parole, di dire qualcosa in cui crede lasciando a sé e agli altri una fragile memoria di un mondo inesistente che è stato possibile. In questo il teatro non ha pari, perché annulla la distanza, perché lì davanti a chi guarda non è possibile ignorare la verità del volto, della voce, del corpo e di quel cuore che batte.
E per questo, forse, il teatro è oggi l'ultima e l'unica spiaggia dell'arte da cui costruire quella assurda ma necessaria resistenza per ridare non solo all'arte ma soprattutto all'uomo la sua coscienza umana in una realtà dove “Io” e “Tu” hanno oramai perso qualsiasi significato ed identità.

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