“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 03 December 2016 00:00

Miti e retoriche del referendum

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Giorno 4 dicembre saremo a chiamati a votare, a esprimere le nostre idee dunque e a far contare la democrazia. Ma ecco un problema poco considerato: da dove vengono queste idee? La nostra scelta, già ridotta a una crocetta fra due alternative imposte da altri, potrà davvero dirsi libera e coscienziosa? Ingenuamente si potrebbe essere certi di sì, e pensare che essendo nostre queste idee vengano esclusivamente da noi, dalla nostra intelligenza e sensibilità, al massimo dalle esperienze del nostro vissuto e dalle persone a noi più vicine capaci d'influenzarci. O ancora si potrebbe credere che tutto dipenda dalla propria capacità d'informarsi.
Nulla tuttavia è più lontano dalla verità.

Le nostre idee, infatti, ancora prima di essere nostre sono sempre il frutto del nostro contesto storico, di quanto sappiamo del passato e dei miti in cui viviamo. Le nostre credenze e certezze più intime sono così dovunque attorno e fuori da noi, inevitabilmente legate a quelle della nostra comunità e ai criteri ritenuti da questa giusti per ragionare. Ce lo dimostra in modo inequivocabile per esempio la storia della scienza, con i diversi periodi storici che hanno sempre rigorosamente dimostrato come esatte e inconfutabili molte idee che per noi oggi sono assurde.
Questo non vuole affatto dire, però, che viviamo in una qualche grande dittatura del pensiero orwelliana e che non siamo che vittime ignare di chissà quali complotti o voleri oscuri.
Fosse anche solo per il fatto che all'interno di una stessa comunità convivono sempre versioni e interpretazioni diverse dei fatti. Certo gli universi discorsivi nei quali viviamo ci influenzano, i media e i politici ci danno versioni del mondo non sempre sincere eppure alle quali dobbiamo spesso credere fino a prova contraria. Ma per quanto ben costruita possa essere una bugia, se noi vi crediamo è sempre perché in fondo dietro a questa si cela un qualche valore a cui crediamo.
Proprio per questo diventa molto importante avere coscienza di questi miti della nostra contemporaneità, perché se dovessimo ignorarli sarebbe proprio come ignorare il significato del testo che andremo a votare. Senza di questo non può esservi alcuna libertà e alcuna scelta coscienziosa, poco importa quanto “bene” ci si sia potuti informare, ammesso che informarsi oggettivamente sia davvero possibile.
Per fortuna, però, questi miti sono tutt'altro che celati e sono dovunque nel nostro vivere e pensare quotidiano, così palesi e onnipresenti da finire col diventare invisibili. Si tratta dunque di vedere quali sono chiamati in causa da questo referendum e di porsi il quesito del referendum con maggiore coscienza critica. Non che si possa non credere a qualche mito o non cedere al fascino di una qualche retorica, certo, ma il pensiero critico e libero comincia proprio con l'ammettere a sé stessi le proprie fedi.
Quanto segue è dunque una piccola riflessione su quattro “miti” (e retoriche conseguenti) che fanno parte dei discorsi a favore del “Sì”. Non si tratta affatto di entrare nel merito dei vari punti della proposta di modifica costituzionale e di criticarli, ma di ragionare sulle fondamenta “logiche” per cui quelle idee hanno una tale forza convincente. Non si tratta però nemmeno di una qualche riflessione a favore del “No” per “convincere”, la scelta del sì come bersaglio polemico deriva semplicemente dalla coerenza interna al Sì che permette questa piccola analisi mentre sarebbe impossibile per il No che non ha un unico fronte o programma di opposizione con temi altrettanto significativi e ricorrenti. Si tratta insomma solo di invitare a prendere coscienza del perché vogliamo e possiamo credere in questa riforma, e questo al fine di poter votare con più coscienza.


1) L'utopia della competenza e la logica del testimonial

Nel suo bellissimo quanto amaro spettacolo sulla democrazia, Giorgio Gaber raccontava:

“Il referendum per esempio, è una pratica di democrazia diretta, non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla 'variante di valico Barberino Roncobilaccio', ha effettivamente qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire solo sì se vuol dire no, e no se vuol dire sì”.

E di fatto quanti di noi possiedono quella conoscenza tecnica e giuridica tale da poter valutare tutti gli impatti che può avere il cambiamento della Costituzione proposto? Pochissimi.
Durante i mesi del dibattito mediatico tuttavia il problema non è mai stato posto, quasi che sarebbe stato insultare i cittadini. E di fatto per molti l'idea può sembrare offensiva, in un periodo storico in cui, principalmente grazie a Internet, siamo diventati tutti esperti medici con Yahoo answer e Wikipedia, abituati cioè all'idea di poter accedere liberamente al sapere, di poter capire tutto, in un tempo relativamente breve e a pezzettini. Ora un accesso aperto a qualunque informazione non è in sé per nulla negativo, anzi. L'idea che tuttavia dalla lettura di informazioni “sfuse” si arrivi al sapere senza troppa fatica lo è parecchio ed è sicuramente una delle grandi utopie della nostra contemporaneità. Chiaramente non è così, chi ha intrapreso degli studi universitari, poco importa quali, sa bene che nel concreto non esistono “materie” del tutto separate, che ogni cosa per un qualche aspetto necessita di altre competenze per essere compresa, e anzi di fatto in tutti campi i progressi avvengono oggi grazie all'interdisciplinarità: ovvero non solo avendo una conoscenza vasta e particolare su qualcosa, ma anche andando poi a confrontarsi con settori del sapere completamente diversi. Una grande retorica di Renzi durante i vari dibattiti (e che si trova anche sulla pagina del PD), è invece proprio l'idea che gli oppositori inventino storie per fare polemica ma che “basta leggere” per capire tutto e poter votare serenamente.
Ora chiunque abbia mai fatto una ricetta di cucina sa benissimo che nemmeno per una torta “basta leggere”, lo sa anche chiunque abbia cercato di montare qualcosa come un ventilatore seguendo le istruzioni, lo sa chiunque abbia mai letto un romanzo che capire non ha niente a che vedere col leggere, chiunque abbia mai scritto un curriculum sa bene che quando c'è un qualche interesse le parole sono esile confine fra menzogna e verità. Se poi un qualunque difensore del Sì venisse a un qualunque dibattito di M-Fil 05 vedrebbe un sacco di gente affermare tesi completamente diverse dopo aver letto esattamente le stesse cose. Un bel dilemma per cui giustamente Zagrebelsky su La7 ribatteva a Renzi: “Non si tratta di leggere, ma di intendere”.
Posto che una tale retorica può avere senso solamente in quanto interpretata alla luce dell'utopia della conoscenza (per illuminazione non divina ma da monitor), il punto è: ma allora che fare? Davanti al problema della propria, giustificatissima, incompetenza nella nostra quotidianità solitamente ci comportiamo diversamente a seconda dell'importanza che diamo alla scelta che dobbiamo prendere. Nel caso della torta rischiamo anche di bruciarla, indecisi su un libro o un film chiediamo il parere a un amico, e quando si tratta di cose tipo la nostra salute o la nostra auto tendiamo mediamente a preferire figure professionali tipo il meccanico o il medico... Magari confrontando anche più pareri professionali per essere proprio sicuri, specie quando si tratta di dover rimuovere qualcosa a cui ci eravamo abituati. Ma ecco che il dibattito invece ha seguito la logica pubblicitaria del testimonial, con i vari VIP a favore o contro. Ora senza nulla togliere all'intelligenza e sensibilità che si possono ipotizzare di Begnini e Servillo, è certo uno strano caso quello di decidere in base a quanto faranno loro, piuttosto che per chi un po' di più sicuramente ne capisce come non solo i cinquantasei “professori” giuristi e costituzionalisti del no ma anche altri docenti a favore del sì come Giovanni Guzzetta che non ha raggiunto nemmeno le cento views.1
Forse un riflesso della poca importanza che diamo un po' tutti oggi alla politica? Non è detto, anzi parrebbe una banalità, e in fondo non è affatto questo il punto. La vera domanda è: cosa può mai voler dire infatti “votare come x” su fiducia quando x non lo si conosce neppure e non sembra appartenere a una qualche intellighenzia che possa davvero aiutarci a decidere dicendo la sua?
Se il vicino feticista dei piedi vota no, tutti quelli del no hanno votato come i feticisti?
L'esempio su base di “preferenze sessuali” può sembrare paradossale, eppure se pensiamo alla grande mobilitazione del Movimento LBGT per il sì (e con parte della argomentazioni che si basano sul dare un voto di opposizione ad alcuni X del no), ci rendiamo conto che paradosso e realtà sono sempre più vicini di quanto sembra. O meglio ci rendiamo conto che questo voto presunto libero e coscienzioso è già un voto demandato per necessità: ci sarà non solo chi vota come il partito, ma anche chi vota LGBT, chi vota Stefano Accorsi, chi vota l'opposto di Salvini, e alla fine il rischio è che il voto più ragionato arrivi da chi deciderà di votare a caso.
Non si sta qui di certo negando l'importanza del confronto con i propri concittadini, né dell'informarsi il più possibile per decidere al meglio o la possibilità a chiunque di esprimere e avere un parere anche molto intelligente senza avere per questo una laurea in Giurisprudenza o Storia. Anche quella del “tecnico-esperto”, dopotutto, può facilmente diventare un'altra mitologia.
Ma si sta piuttosto invitando a diffidare dalla logica del testimonial, il resto come appunto diceva Gaber non è un problema di questo referendum ma semplicemente democratico.


2) Il mito della novità e la retorica del futuro
La grande retorica del Sì è stata quella del futuro, del domani, del cambiare finalmente il Paese liberandolo da una Costituzione vecchia come il dopoguerra. Quasi come avere un Iphone vecchio cinquant'anni: che vergogna, certo che non funziona niente in Italia. Anche questi discorsi sono legati a una particolare voracità e venerazione contemporanea verso la novità. Lo sanno benissimo quelli del marketing che il nuovo vende più di qualunque altra cosa, anche quando di fatto è uguale al vecchio e basta che non lo sembri. E d'altronde da molti punti di vista un vecchio Nokia può essere preferibile a un qualsiasi smartphone appena uscito. Lo viviamo al cinema con un periodo hollywoodiano di incredibili remake del “vecchio”, lo viviamo nella nostra quotidianità quando proviamo un qualche bisogno di cambiamento e andiamo a tagliarci i capelli o fare shopping.
Lo viviamo nella crisi delle relazioni tradizionali, che ovviamente di per sé non è un male se questo ci rende più felici. Certo la novità non è qualcosa che abbiamo scoperto e imparato ad apprezzare negli ultimi trent'anni, credere nel nuovo è una fiamma che anima tutti noi: “La novità è la cosa più vecchia che ci sia” insegnava Prévert. Ma ogni epoca declina, anche qui, i suoi criteri per la novità, decide cosa possa essere cambiato e cosa no, cosa sia un vero cambiamento e cosa ne sia solo il pretesto. Si può volere la novità del momento o volere la novità più radicale di sempre, e sono cose molto diverse. Molti dei voti del Sì derivano da questa visione e speranza, più che giustificata in un Paese che certo non è perfetto. Ancora una volta però avere coscienza di questo mito contemporaneo, che domina ogni cosa attorno a noi, pare importantissimo in quanto sembra che si stia per votare perché altrimenti non cambierà mai più nulla per decenni. È la grande retorica apocalittica tanto del sì che del no: l'idea di dover votare per le conseguenze estranee al testo proposto, con tanto di piaga tipo invasione dei grilli e fallimento finanziario. Un voto dunque per il futuro, in cui ognuno però propone una diversa versione della novità da preferire: la nuova Italia con la nuova Costituzione o la nuova Italia con un nuovo governo dopo il fallimento di quello attuale nel caso dovesse vincere il no. Questo ovviamente non è di certo l'atteggiamento mentale preferibile, non che il futuro non debba essere tenuto in conto ma di certo senza costruire castelli di sabbia in riva al mare tempestoso. Rimane invece seriamente da chiedersi se esiste una qualche connessione diretta fra il cambiamento che si vuole e un mezzo proposto per raggiungerlo, o se appunto giocando coi nostri desideri l'ultima novità non si rivelerà poi una fregatura che aveva dietro molti interessi tranne i nostri.



3) L'eros della velocità e la retorica della vittoria

Questa attenzione è tanto più necessaria quando la mitologia della novità vive assieme a quella della velocità. Anche qui un'altra grande retorica del referendum: semplificare, tagliare, abbreviare, quasi che la nostra Costituzione alla luce di oggi venga accusata di essere poco ergonomica e user-friendly. E ancora una volta in palese opposizione col nostro normale modo di agire e pensare per le cose più importanti, dato che siamo tutti concordi persino in cucina sul fatto che i piatti pronti in due minuti non siano salutari e che in generale per le cose di valore serva dedicare del tempo.
Non esitiamo a dirlo per i romanzi che servono anche anni perché escano bene, ma anche per il sesso se finisce in fretta non ci si fa una tanto bella figura. Questo ragionamento è totalmente coerente con la logica del consumismo certo, ma in palese opposizione con la cautela di cui parlavamo prima per le scelte importanti, e cioè con la lentezza, col valore della riflessione ponderata e del confronto di idee. Fare leggi deve diventare semplice e veloce, ma perché mai?
Si tratta forse di produrne di più per avere un Paese migliore, è un problema di capacità di produzione? Eppure i tempi medi di approvazione non giustificano affatto questa idea, non pongono nemmeno il problema, se non che nelle eccezioni alla regola i tempi lunghi per certe leggi pongono il problema delle divergenze e spaccature politiche del nostro Paese.
È molto interessante a questo riguardo la metafora usata dai favorevoli al sì del ping-pong fra Camera e Senato, perché nessuna metafora è mai innocente. Il rinvio della palla a ping-pong, infatti, avviene in una situazione molto particolare: quella di un antagonismo. Ora in che modo e mondo Camera e Senato potrebbero mai essere antagonisti? Si può allora pensare forse a una metafora alternativa, molto italiana: quella del calcio in cui giocatori della stessa squadra ma di diverse zone del campo si passano la palla a vicenda avanti e indietro, e sempre per uno scopo comune.
Ma una metafora del genere, molto più realistica, non poteva andare bene per gli interessi del Sì, che sono quelli di chi sembra preferire al gioco di squadra il mito dell'attaccante inarrestabile, che da solo parte come una freccia da centrocampo e che in quanto vincente segna a colpo sicuro.
Che per carità è anche sul serio un modo per vincere la partita e si deve valutare, ma che d'altronde impone una certa visione che è esattamente alla base della, d'altro canto spesso esagerata, paura di deriva autoritaria del Paese alla luce di questa riforma e della legge elettorale spingendo alcuni a chiedersi: a quando la regola per togliere dal campo anche la squadra avversaria per rendere il goal ancora più veloce?


4) Il mito della felicità luccicante
Nella semantica dei discorsi di Renzi sul referendum, i termini e i temi riferiti al denaro sono davvero innumerevoli. Si parla addirittura di “contenimento dei costi” anche nel testo che si andrà a votare, che è semmai una conseguenza di quanto proposto e non una proposta (chi direbbe no?), conseguenza come quella di non eleggere più direttamente i senatori ma che, come giustamente ha fatto notare Travaglio, viene omessa. Ovviamente non è un male parlare di denaro esplicitamente, e non è preferibile fare finta che non c'entri nulla con l'andamento della vita politica del Paese, sebbene poi se si calca un po' troppo la mano non è tanto strano che si venga accusati di cercare di comprare i voti delle persone. Ma è invece un grande rischio, per chi vota, quello di dare per scontato che quei soldi andranno a chi sostiene il sì, perché nulla garantisce la destinazione effettiva del risparmio, poco o tanto che sia secondo le varie posizioni.
Sembra spesso invece che ci si dimentichi che fare politica è anzitutto fare una scelta di priorità, e non è come avere un borsello e donare semplicemente a chi chiede o merita secondo qualche criterio di oggettività. Proprio per questo i periodi di crisi hanno di buono che almeno ci mostrano proprio quali settori siano prioritari per il governo, e di conseguenza quali miracoli non dobbiamo aspettarci perché anche con molti più fondi sarebbe comunque sempre una minima parte a esservi destinata. Per questo al fine di sperare in una realtà sociale più equa le garanzie devono riguardare la discussione e creazione delle leggi, guardare alla qualità del processo che porta alla nascita leggi. E non bisogna affatto credere al mito contemporaneo per cui più soldi significano più felicità per tutti, perché molto ovviamente non è affatto così.
A questo discorso si ricollega poi infine proprio la retorica sulla presunta “casta” che toglie soldi all'Italia e che si dice venga combattuta con questa riforma, il che è molto divertente detto da parte di chi appartiene a uno dei più alti livelli della scala sociale e gode di molti privilegi tipici di una casta sociale così intesa. Si tratta anche qui, ovviamente, dell'ennesima parola chiave per far scattare sentimenti di rabbia nelle persone, con a turno tutti che si accusano (magistrati, politici, accademici) di far parte di una qualche casta nullafacente e ladra: di occupare poltrone inutili. Tutto questo nuovamente non dovrebbe aver nulla a che fare col voto del 4 dicembre, accettando con intelligente rassegnazione ciò che la storia insegna: che è assai difficile che chi ha dei privilegi ci lotti contro.

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