“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 19 October 2020 00:00

L’eterotopia dell’incubo di “The Lighthouse”

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Al centro di The Lighthouse (2019) di Robert Eggers c’è una vera e propria eterotopia dell’incubo, un’isola solitaria e sperduta. Il termine “eterotopia” è stato coniato da Michel Foucault per indicare degli spazi separati dal normale contesto quotidiano, che ci immettono all’interno di una spazialità e di una temporalità altra.

Il film, destinato al circuito dello streaming, nella visione cinematografica offre sicuramente il meglio di sé (una delle rare occasioni di poterlo vedere in sala è stata al FI PI LI Horror Festival che si è svolto a Livorno dal 9 all’11 ottobre scorsi): girato in 35 mm e con una fotografia in bianco e nero realizzata con maestria da Jarin Blaschke che evoca il cinema espressionista di Murnau, ci proietta in una limbica e nebbiosa atmosfera infernale.
Si inizia con un movimento di viaggio, il quale si configura come una erranza amniotica e regressiva su acque allucinate e sconosciute: due personaggi, il giovane Thomas Howard (Robert Pattinson) e l’anziano Thomas Wake (Willem Dafoe), suo supervisore, vengono portati da una imbarcazione su un’isola dove dovranno svolgere la loro mansione di guardiani del faro.
Se la nave, secondo l’analisi di Foucault, si configura come una “eterotopia per eccellenza”, anche l’isola ha assunto nell’immaginario letterario e filosofico la valenza di uno spazio demandato all’utopia (spesso i luoghi utopici sono isole: essi sono infatti rappresentati come autarchici e isolati dal resto del mondo). Come scrive Margaret Cohen, “l’isola è una porzione di terra definita dal suo rapporto con l’acqua. Da una prospettiva metropolitana, essa appare come lo spazio ‘vuoto’ dell’orientalismo, un mondo intatto da usare come meglio si crede: da porre a contraltare utopico alle ingiustizie della metropoli – conquistare e coltivare secondo i suoi interessi” (M. Cohen, Il mare, in Il romanzo, vol. IV. Temi, luoghi, eroi, a cura di F. Moretti,  Einaudi, Torino, 2003, p. 440). La nave, in questo caso, conduce i due personaggi verso una anti-utopia, un luogo infernale dove possono emergere allo scoperto i più reconditi risvolti legati alla follia. Il movimento di viaggio iniziale è simile a quello che apre Shutter Island (Id., 2010) di Martin Scorsese: una imbarcazione che, fra inquietanti nebbie, si muove verso l’isola della follia e dell’obnubilamento mentale. Ma Eggers aggiunge una nota estetica più raffinata, se così si può dire: quella nave iniziale sembra quasi un marchingegno teatrale che, dopo aver condotto i protagonisti nello spazio insulare, si staglia sullo sfondo come un terribile e inquietante omen, a metà fra il veliero che trasporta il vampiro in Nosferatu (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens, 1922) di F. W. Murnau e i tetri marchingegni naviganti che solcano i mari posticci di E la nave va (1983) di Federico Fellini. I personaggi, come già accennato, attarversano un mare oscuro e ambiguo, foriero di incubo e di follia che esploderà nel corso della narrazione. Si deve ricordare che la follia è associata all’acqua dallo stesso Foucault: nella cultura e nell’immaginario occidentale la ragione fa parte della terraferma, mentre la “disragione” (calco del francese déraison) appartiene al mondo acquatico. Lo studioso francese ricorda infatti l’usanza rinascimentale di abbandonare i folli su delle imbarcazioni: la “nave dei folli” assume le vesti, allora, di uno “strano battello ubriaco che fila lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi” (M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1978, p. 20). L’isola è quindi una eterotopia sperduta in mezzo al mare della follia e dell’incubo: un vero e proprio spazio dove possono liberarsi i più reconditi e terribili risvolti dell’orrore.
Lo ‘spazio altro’ messo in scena da Eggers racchiude in sé numerosi topoi della letteratura marinaresca: il vento e le tempeste, i gabbiani e i loro versi, i racconti e le ballate dei marinai (il vecchio Wake è infatti un ex marinaio che ha trascorso l’intera vita imbarcato in mezzo a pericoli e avventure), le ubriacature. La stessa caratterizzazione del personaggio di Wake possiede in sé numerosi rimandi alla figura del capitano Achab di Moby Dick di Herman Melville, dalla gamba di legno fino all’aspetto luciferino, nonché, nella fattispecie, all’interpretazione di Gregory Peck in Moby Dick, la balena bianca (Moby Dick, 1956) di John Huston. Ma possiamo ricordare anche molta narrativa ‘marinaresca’ di Poe (dal Gordon Pym fino alla Discesa nel Maelström) e di Lovecraft nonché la poesia di Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, nella quale l’uccisione di un albatros da parte di un marinaio rompe il patto d’amore fra uomo e natura.
Anche con il suo film precedente, The Witch (2015), il regista ci aveva offerto la rappresentazione di un’eterotopia dell’incubo: la casa isolata ai margini di un bosco dove si trasferisce il predicatore religioso con la sua famiglia, dopo essere stato espulso dalla comunità puritana in cui viveva. Per raggiungere lo spazio ‘altro’ è quindi necessaria una ‘espulsione’ dal contesto sociale dell’umanità: chi viene allontanato, quasi come un capro espiatorio o i folli rinascimentali, non può che entrare in contatto con la dimensione dell’orrore e dell’incubo. Così, anche Howard e Wake, in The Lighthouse, vengono quasi allontanati dalla comunità degli esseri umani e condannati a vivere in solitudine: il mondo esterno, separato dal mare, da terribili tempeste e da inenarrabili viaggi, appare veramente come un’altra dimensione. L’unico lascito che di esso rimane è il cupo suono della sirena della nave che li ha accompagnati. Si tratta di un suono che, oltre ad essere fisico e reale, assume dei tratti onirici ben delineati: è la somatizzazione dell’incubo, della lontananza e, per certi aspetti, della follia. Si può ricordare come il suono della sirena, con tale valenza, assuma un ruolo assai importante nel cinema di Ingmar Bergman, basti solo ricordare l’incipit di Il silenzio. Del resto, lo spazio dell’isola come luogo dell’incubo e della follia appare assai spesso anche nella cinematografia del grande maestro svedese (possiamo ricordare Come in uno specchio, 1961, Persona, 1966 o La vergogna, 1968, tutti girati sull’isola di Fårö dove lo stesso regista si era stabilito).
L’eterotopia insulare dell’incubo produrrà allucinazioni in un crescendo iperreale. Le ombre espressioniste si allungano su un universo in rovina, attraversato dalle reliquie del tempo incancrenite negli oggetti dell’arredamento della misera casa in cui i due alloggiano, nel piccolo amuleto a forma di sirena che tormenta Howard, nei macchinari che lo stesso deve curare e che lo imprigionano e lo condannano come un industriale inferno, nella stessa pipa d’avorio di Wake, quasi oggetto magico e rituale che il vecchio marinaio tiene sempre in bocca al contrario. E allora, l’incubo non può che arrivare dal mare, come in un racconto di Hodgson o di Lovecraft, ora sotto le vesti di revenant, ora sotto quelle di una sirena ammaliatrice. All’insegna di una mescolanza di stili di matrice postmoderna, la narrazione si sposta dal registro tragico e quasi ‘epicizzante’, in alcune rappresentazioni della figura di Wake, magistralmente interpretata da Willem Dafoe, fino a quello comico e burlesco, e solo sfiorando gli interstizi del genere gotico. Perché definire The Lighthouse come un film horror sarebbe estremamente riduttivo: esso si configura semmai come un interessane pastiche che racchiude in sé più generi nonché, come già notato, diversi riferimenti sia cinematografici che letterari. Fino a potersi intendere, per certi aspetti, come una rilettura postmoderna del mito di Prometeo (ma su questo non riveleremo altro). Perché all’interno di un ambiente prettamente moderno, rivelato ai nostri occhi da un bianco e nero espressionista (nella vicenda narrata siamo a fine Ottocento), si insinuano continui rimandi alla condizione esistenziale di esseri umani in una postmodernità abbrutita dalla produzione industriale avanzata: l’alienazione, la solitudine, la coazione a ripetere, la volontà di rifugiarsi in un mondo parallelo offerto dai media di massa. Vero e proprio oggetto del desiderio, icona appunto di un desiderio rappreso in una condizione esistenziale minata dall’incubo della propria incertezza, è la lampada del faro, dispensatrice di luce accecante e perturbatrice, che assume quasi la valenza del monolite di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) di Stanley Kubrick.
Un desiderio che risplende e agghiaccia la mente in uno spazio dove l’isolamento produce follia e incubo (e potrebbe venire ancora in mente Kubrick col suo Shining). Uno spazio separato dal normale contesto quotidiano, isolato e circondato dal mare, in preda a venti e tempeste: una eterotopia dell’incubo che imprigiona e dalla quale è veramente impossibile fuggire.





The Lighthouse
regia Robert Eggers
sceneggiatura Robert Eggers, Max Eggers
con Robert Pattinson, Willem Dafoe, Valeriia Karamän, Logan Hawke
fotografia Jarin Blaschke
montaggio Louise Ford
musiche Mark Korven
produzione RT Features, Parts & Labor
distribuzione Universal Pictures Home Entertainment
paese USA, Canada
lingua originale inglese
colore bianco e nero
anno 2019
durata 109 min.

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