“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 26 March 2020 00:00

Quel West venato del malinconico disincanto della fine

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Ci sono film a cui si resta legati ben al di là del loro intrinseco valore artistico. Ci sono film che animano il nostro immaginario – perché magari si legano a un’epoca, all’infanzia, al ricordo delle persone insieme alle quali li abbiamo visti, alla giornata particolare in cui ce ne è capitata la visione, allo stato d’animo che ce l’ha ispirata, o magari semplicemente appartengono a un filone che abbiamo particolarmente amato – e per questo ne conserviamo una memoria che ne travalica in parte l’estetica (anche se, in fondo, non riusciamo proprio a smettere di farceli piacere e a sancirne una valutazione razionalmente equanime).

Faccio il mio coming out in materia e ammetto (rivendico) la mia passione infantile (e attuale) verso i film di Bud Spencer e Terence Hill, quel cinema semplice di sganassoni e buoni sentimenti che – per me – evoca l’infanzia e una visione del mondo ancora incorrotta e, perché no, anche un po’ favolesca, sia pur venata da note di bonaria cialtroneria. Erano film per lo più ingenui, alcuni dei quali però hanno finito per essere epocali, si pensi ad esempio ai due Trinità, il primo in particolare caposaldo di quel sottogenere che era il western comico, filiazione spuria dello spaghetti-western. E proprio inscrivendosi in quel solco, tra i film a cui sono legato ce n’è uno di quel sottogenere: Il mio nome è Nessuno, con Terence Hill qui senza Bud Spencer, ma coprotagonista con un grosso calibro del cinema americano come Henry Fonda. La mano dietro alla macchina da presa è quella di Tonino Valerii, l’ombra palpabile che gli aleggia dietro quella di Sergio Leone, che il film l’aveva pensato e l’avrebbe dovuto dirigere e si limitò invece a girare solo alcune scene – su espressa richiesta dello stesso Terence Hill – in particolar modo, di Leone pare siano le sequenze del gioco dei bicchieri nel saloon e quella dell’orinatoio.
A questo film sono legato – ma è una consapevolezza che traggo ora mentre scrivo da un orecchio teso ad ascoltare il mio inconscio – forse proprio perché la sua chiave d’accesso al mondo e alla storia è quella di un incanto fiabesco, di una morale ingenua e fanciullesca, del mito a cui poter guardare ancora con gli occhi d’un bambino. E l’incanto fiabesco, se vogliamo, era anche quello che proprio Sergio Leone aveva adottato come chiave d’accesso all’epopea del West, entrando in un epos che non gli poteva appartenere per nascita e tradizione culturale, ma appropriandosene e sovvertendone le regole e i principi cardine, calandolo in una dimensione palesemente irreale e al contempo iperrealistica, ammantandolo dei toni della fiaba eppure smitizzandolo, ambientandolo in una realtà in cui gli eroi non sono più quelli del western classico e tradizionale, e cioè personaggi a tutto tondo, integerrimi e tutti d’un pezzo, ma sfaccettati, magari dalla faccia sporca e dalla zazzera incolta e intrisi di difetti e umane contraddizioni (come racconta lo stesso Leone durante una master class tenuta al Centro Sperimentale di Cinematografia negli Anni ’80).
L’idea di Leone finisce per sfociare in un western epico e a un tempo crepuscolare, elegia di un genere che di fatto stava già conoscendo il proprio declino e l’inesorabile epilogo; l’avvento dei “tempi nuovi” di cui si parla nel film stava inesorabilmente spazzando via la frontiera e il desiderio di raccontarla, ne sono emblema diversi film western americani che recano in sé i germi di questo crepuscolo, come La ballata di Cable Hogue (1970) di Sam Peckimpah, il cui protagonista (Jason Robards) muore investito da un’automobile, o come Il pistolero di Don Siegel, con l’ultimo John Wayne, ormai malato (nella vita come nel film), stanco, appesantito, con la tristezza del crepuscolo – proprio e di un’intera epoca – che riverbera nel fondo dei suoi occhi e che si reca ad affrontare il suo ultimo duello a bordo di un tram (un tram a cavalli, però!), simbolicamente interpretando non solo la propria uscita di scena, ma proprio lo svanire di un’epopea, una sorta di immaginifica cavalcata verso il tramonto dell’eroe stanco, a sancire la fine della Frontiera.
Ma, al di là delle divagazioni – che pure potrebbero offrire spunti per aprire finestre concentriche tendenti all’infinito, un po’ come l’arco della porta di casa di Ethan in Sentieri selvaggi – tornando a Il mio nome è Nessuno, ben si inscrive in questo solco di crepuscolarità, non tanto e non solo perché rappresenta a suo modo la visione leoniana della fine di un epos che trasmigra verso i tempi nuovi, ma anche perché avrebbe dovuto rappresentare una sorta di addio al genere da parte di Leone, il quale però poi non firmò espressamente la regia, figurando solo come produttore (oltreché come ideatore del soggetto), ma di fatto pare abbia avuto occhio vigile e attento sulla regia di Tonino Valerii, che già era stato più volte suo assistente.
Il film narra le ultime vicende di un eroe del vecchio West, Jack Beauregard (Henry Fonda), ormai deciso ad appendere le armi al chiodo, a chiudere con sparatorie e duelli e a riparare in Europa a consumare una tranquilla vecchiaia, eroe ormai postumo a quella frontiera che i pionieri avevano spostato sempre un po’ più a ovest. Ma lungo il cammino intrapreso per uscire di scena, Jack incontra Nessuno (Terence Hill), una sorta di angelo custode scanzonato e sognatore, cresciuto nel mito di Beauregard, per il quale sogna un gran finale che faccia entrare a pieno titolo il suo eroe nei libri di storia, affrontando tutto da solo i centocinquanta banditi del Mucchio Selvaggio. Jack non pare dello stesso avviso, sente ormai il suo tempo finito, la vista è sfocata e un battello con destinazione Europa lo attende a New Orleans, rinuncerebbe senza alcuna remora a questo appuntamento con la Storia; ma “il destino a volte lo si incontra proprio sulla strada presa per evitarlo” e Nessuno sarà il non tanto occulto regista dell’impresa che varrà a Jack l’ingresso nelle pagine dei libri di storia.
Ma chi è questo Nessuno di cui non sapremo mai il nome? È per certi versi il “protagonista ombra” della vicenda; se la suggestione iniziale del soggetto lo aveva immaginato come una sorta di Ulisse calato nel West, lo sviluppo della storia ce lo consegna piuttosto come simbolo emblematico di una moltitudine, incarnazione di quel meccanismo della Storia per cui sono gli eroi a finire nei libri, ma sono le miriadi di “signori nessuno” a scrivere davvero quelle pagine a volte essendo semplicemente carne da cannone, altre volte – come nel caso di Nessuno – lavorando anonimi nell’ombra, rimanendo sconosciuti anche quando diafana li investe la luce. E sia ben chiaro, a Nessuno essere in piena luce non dispiace, “luccichi come la porta di un bordello”, gli dirà sarcastico Jack.
Ed è un personaggio dalle connotazioni surreali, quello interpretato da Terence Hill, un po’ Peter Pan con l’inesausta voglia di prendere tutto per gioco e trasformare ogni cosa in burla; un po’ una sorta di creatura ‘messianica’ che appare dal nulla a cambiare il corso della storia e degli eventi (non a caso, nella prima scena in cui lo vediamo apparire sullo schermo, egli significativamente emerge dalle acque di un fiume); un po’ anche – lo si è già accennato – un angelo custode, come parrebbe simboleggiare quella sella portata sulle spalle che sembra disegnare un paio d’ali aperte sul suo dorso.
Più concreto e all’apparenza disincantato il personaggio di Beauregard: quello stesso Henry Fonda a cui in C’era una volta il West (1968) Sergio Leone aveva cucito addosso per la prima volta un ruolo da ‘cattivo’, perché spiazzasse un pubblico abituato a vedere in lui sempre l’incarnazione del bene, qui ritorna a un personaggio in chiave positiva, ma lo fa per muovere un passo d’uscita. Il West sta finendo e con esso i suoi eroi. E il passaggio di testimone, da uno che è stato qualcuno a qualcuno che ha scelto di rimanere nessuno, non potrà fermare l’inesorabile avanzata dei tempi nuovi.
Tra i due si instaura un rapporto come tra maestro e discepolo, anche se a tratti i ruoli sembrano sovvertirsi, con Fonda/Beauregard che sulle prime appare perplesso e contrariato da questo inusitato interesse che Hill/Nessuno prova verso la sua figura. Ma finirà per assecondarlo, omaggiandolo con una lettera finale scritta dopo aver compiuto il destino che Nessuno aveva scritto per lui, dopo aver affrontato la masnada del Mucchio Selvaggio e dopo aver – anche qui simbolicamente – abbandonato le proprie armi in terra per lasciare il West e una vita da eroe che aveva ormai completato il suo corso.
A iscrivere il film a pieno titolo alla tradizione dello spaghetti-western concorrono anche le musiche di Ennio Morricone, che richiamano in qualche misura i toni epici delle colonne sonore dei film di Leone e che qui connotano il personaggio di Nessuno coi toni scanzonati della burla, mentre sottolineano con una variazione sul tema dalla wagneriana Cavalcata delle Valchirie l’avanzata a cavallo del Mucchio Selvaggio. Mucchio Selvaggio che è una citazione del succitato Sam Peckimpah (The Wild Bunch, 1969), regista che viene tra l’altro evocato con un nome su una lapide nel cimitero indiano. Tale scena è stata girata nel pueblo di Ácoma, a quanto pare il più antico insediamento umano degli Stati Uniti di cui si abbia contezza (e il toponimo viene anche citato espressamente nel film come sede di una miniera).
Diverse le scene che conserviamo nella memoria come cult, a partire da quelle eminentemente comiche che riprendono certi collaudati stilemi delle commedie interpretate da Terence Hill (come le sequenze di botte, girate in accelerazione), o come l’apologo dell’uccellino che Nessuno racconta a Beauregard invitandolo a trovarvi una morale, o ancora come l’omaggio chapliniano della mela mangiata da Terence Hill e ‘rubata’ dalle mani di un bambino (curiosità: si tratta di Jess Hill, primogenito di Terence). Fino al passaggio di consegne finale, in cui vediamo riproporsi la stessa scena d’inizio film, nella bottega del barbiere, con Nessuno, ormai diventato “qualcuno” che ripete quanto fatto da Beauregard in apertura, a modo suo ma con il medesimo effetto.
I “tempi nuovi” sono ormai arrivati, il West sta finendo – se non è finito già − ma la Storia continua, continueranno a farla gli eroi in cui gli uomini hanno bisogno di credere, ma continueranno a scriverla, nell’ombra, i Nessuno della cui esistenza gli uomini hanno bisogno, forse senza nemmeno esserne davvero consapevoli.





Retrovisioni
Il mio nome è nessuno
regia Tonino Valeriii
da un’idea di Sergio Leone
soggetto Ernesto Gastaldi, Fulvio Morsella
sceneggiatura Ernesto Gastaldi
con Terence Hill, Henry Fonda, Jean Martin, Piero Lulli, Mario Brega, Benito Stefanelli, Marc Mazza, Alexander Allerson, Reemus Peets, Antoine Saint-John, Franco Angrisano, Tommy Polgar, Ullrich Műller, Angelo Novi, Carla Mancini, Antonio Palombi, Humbert Mittendorf, Emil Feist, Luigi Antonio Guerra, Claus Schmidt, Neil Summers, Leo Gordon, R. G. Armstrong, Steve Kanaly, Geoffrey Lewis, Jess Hill
fotografia Armando Nannuzzi, Giuseppe Ruzzolini
musiche Ennio Morricone
scenografia Gianni Polidori
montaggio Nino Baragli
produzione Rafran Cinematografica, Les Films Jacques Letienne, La Societé Imp-Ex Ci.
distribuzione Titanus
paese Italia, Francia, Germania Ovest
lingua originale inglese
colore a colori
anno 1973
durata 115 min.

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