“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 08 October 2019 00:00

Il “nostro” Joker

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Joker. Il farsesco personaggio, e la persona in esso contenuta, che in ogni immaginazione si erge a guida sregolata del nostro più sinistro io, tirando fuori con un maieutico e perverso procedimento psicologico, il marcio sedimentatosi in quella fragile bolla interiore di disperazione, solitudine, invisibilità.
Quell’invisibile che la mimesi del clown, vetusto e insieme eterno feticcio dell’umana ironia del vivere, cerca di trasformare ogni volta in arte, con la grazia del fallimento, dell’impacciata timidezza, del tenero candore che si sforza di non divenire sprezzante vittimismo, arrogante risentimento, pregiudizio nei confronti del mondo intero.

Arthur Fleck è un ragazzo già vecchio, con le spalle incurvate dal peso di una sofferenza quasi atavica, della cui oscura origine si percepisce solo il desolante effetto sul presente. Egli vive come corpo nervoso ma prosciugato, teso ogni istante in una convulsa e grottesca smorfia involontaria, a lambire con la mente una definitiva, presagita perdita di stabilità. In una Gotham City crepuscolare, dove il divario sociale, la disoccupazione, l’emergenza rifiuti e le criminali conseguenze di tale complessivo sfacelo regnano sovrane e in apparenza incontrastabili, emblema delle metropolitane miserie del globo, il vulnerabile pagliaccio dall’animo gentile e dalla velleitaria ambizione di diventare un grande comico televisivo, subisce le colpe di una città che non è in grado di accudire i suoi figli più indifesi.
Arthur è malmenato, schernito, umiliato continuamente, per strada e in ogni luogo di lavoro, ed è vessato da un’ansia di affermazione che un suo precedente disturbo mentale, aggravato ora dal taglio dei fondi all’assistenza sociale e dalle sempre più sfortunate vicissitudini del quotidiano, ostacola e rende confusa, insana, sconcertante. Nel crescendo di tale angoscia esistenziale, pallidamente rischiarata dalla sola vicinanza della madre, sua non autosufficiente e angustiata coinquilina, la consapevolezza di non essere al centro di nessuna vita, nemmeno della propria, diventa sempre più dolorosa, fino a quando il tormento non esploderà in scoppiettanti fenomeni al di fuori di una figura umana impossibilitata all’amore, spingendosi sino alle più feroci conseguenze, e a fare anche di quel suo unico mito, il Murray Franklin mattatore televisivo (impersonato da Robert De Niro) e succedaneo di un padre mai conosciuto, un arcigno e spietato persecutore alla stregua, se non peggiore, di tutti gli altri.
Nella commovente, lieve e carismatica danza dei suoi delicati arti, ennesima contorsione nevrotica ma musicale, liberatoria eppure incatenante, per il Joker interpretato da un Joaquin Phoenix all’apice della sua dolente e malinconica arte, la realtà si dispiega senza una consolatoria incertezza, nel suo depresso e cinico squallore, sintetizzato da viscide e inquietanti réclame. Poche volte si è visto un così disinvolto collimare fra i sogni e il realismo delle scene, in quest’opera che rende l’onirico tangibile e il reale astratto incubo, pur nell’evidente e disarmante concretezza che accompagna quest’ultimo dall’inizio alla fine della lucida e umbratile pellicola. Diversi passaggi istantanei fra un atto e l’altro, suggellati dalla medesima statica posizione dell’attore protagonista in un diverso ambiente, nel netto cambio di scena, fanno di quella luce impietosa, e in un certo senso allegoricamente “fosca”, il silenzioso incedere di inesorabili momenti di rottura, di furiosa e patetica caduta. Tutto ciò sostanzia la simbolica, articolata ma minimale estetica del film e i suoi significanti, sfavillanti in quell’Arthur che, come un altro Schiele ritorto sulla sua propria macilenza, supplichi al contempo l’arrivo della morte e il ritorno, in questo caso la prima vera manifestazione, della vita. 
La semplicistica e affrettata accusa di glorificazione della violenza, frutto di un brusco fraintendimento, non trova riscontro in questo intenso lavoro, il quale semmai dissotterra le radici del male per mostrare la più perentoria e contemporanea colpevolezza di tutta la società. Il Joker di Todd Phillips è in verità uno schiaffo in piena faccia, che attraverso la reazione esasperata e l’odio della massa non suggerisce violenza, bensì un’idea sovversiva, potente, puntuale e asservita a una ribellione attiva delle coscienze. Lungo le vie della città senza tempo i ricchi e potenti vivono, pur senza volerlo riconoscere, a scapito degli emarginati, abbandonati a loro stessi, destinati a divenire relitti di ciò che furono, o che avrebbero potuto essere. In un simile contesto l’orrenda evoluzione di Fleck, sviscerata nella sua più intima e commovente umanità, giustificata dalla mostruosità che pervade tutta la devastata dimensione circostante, prima di contaminarne lo spirito, si mostra come l’effetto più malefico e irrimediabilmente distruttivo, la naturale e agghiacciante conseguenza di un’infinita serie di gravi errori commessi da tutti, vittime comprese. Per questi stessi motivi non può essere giusta la strada, e si tratta di un punto rivoluzionario, che si prospetta attraverso l’atteggiamento del candidato alla carica di sindaco Thomas Wayne, padre di un ancora imberbe Bruce, il quale interpreta, per la prima volta in toni negativi, il portavoce di una classe privilegiata che si macchia del delitto di ricusare qualsiasi contatto con l’afflitta maggioranza dei cittadini, e l’incapacità, la codardia che non permette di calarsi in quel mondo di cui tuttavia non si potrà mai evitare di essere parte, unico modo per arrivare a fare, sul serio, del bene.
Ne deriva un’arroganza permeata di disattenzione e malcelato, seppur non necessariamente in malafede, egoismo, che offende e infiamma animi già troppo sollecitati, fino a condurre alla deformazione di questi ultimi, alla detonazione di un ammasso di rabbia nera e potente, che spersonalizza e raduna folle impazzite e inarrestabili nel nome di quel sanguinoso eroe che il popolo stesso ha consacrato, e che soltanto attraverso gli occhi di quel coacervo umano, ormai pericoloso quanto disperato, finalmente avverte il peso della propria esistenza, si vede per la prima volta. Tutto il resto non può più avere importanza, l’innocenza non può più essere recuperata: il destino è compiuto, e così sarà sempre, nel circolo di quest’universo immaginario che è invece esattamente il nostro, e che si ripeterà all’infinito, se non inciso dal paradosso di un tumultuoso deragliamento in grado di piegare la linea di un passato già scritto.
Ma ogni tempo ha il suo Joker, come ogni Joker ha il suo tempo, ed è in questa attuale rilettura che si incanala e amplifica la voce del dolore, la quale muove dagli ancora vani tentativi di contestazione e di risoluzione del reale, per scorrere lungo il versante parallelo della più trepidante finzione. Con molti gesti e poche asciutte, autentiche parole, questo sofferto processo della regia evoca ogni istante il muto e intricato discorso che leggiamo negli occhi di Phoenix, assorbendone tutta la vitale disillusione ed estirpandone quell’ultima vena, carica di una speranza a lui appena negata.





Joker
regia Todd Phillips
soggetto Bob Kane, Bill Finger, Jerry Robinson
sceneggiatura Todd Phillips, Scott Silver
con Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beetz, Frances Conroy, Brett Cullen, Glenn Fleschler, Bill Camp, Shea Whigham, Mark Maron, Douglas Hodge, Ieigh Gill, Josh Pais, Brian Tyree Henry, Dante Pereira-Olson
fotografia Lawrence Sher
musiche Hildur Guðnadóttir
costumi Mark Bridges
scenografia Mark Friedberg
produttore Bradley Cooper, Todd Phillips, Emma Tillinger Koskoff
casa di produzione Joint Effort
distribuzione Warner Bros.
paese Stati Uniti d’America
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2019
durata 123 min.

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