Eppure mi sono sempre chiesta come sarebbe stato se un giorno la letteratura si fosse incaricata di prendere la parola e parlare, come un fantasma che da altezze sconfinate osserva e cita col dito il mondo, un fantasma colto che usa Shakespeare per descrivere la guerra e la caduta, e Proust per raccontare il gusto che sprigiona un dolce quando richiama alla memoria il tempo. Il tono della sua voce sarebbe cavernoso, secondo me, arrochito dall’attesa, parlerebbe nel modo più colto che si sia mai potuto immaginare, con una punta di tristezza che la renderebbe vecchia e affasciante, non userebbe le virgole e per arrivare ad un punto ci metterebbe tanto tempo. Avrebbe moltissimo da dire, probabilmente non racconterebbe nessuna storia, nessuna epopea, non si intratterrebbe a bere il tè delle cinque con nessuna signora inglese, non comanderebbe un’armata e non farebbe nulla di così eccezionale per farsi notare. Camminerebbe in una città qualsiasi, ma bella, immersa in una nebbia fuori stagione, vivrebbe nell’incantamento degli eventi e nessuno si aspetterebbe pietà da lei. La letteratura sarebbe un grande personaggio e un grande narratore, descriverebbe i suoi caratteri come se avesse paura che scomparissero, probabilmente sarebbe come stare a teatro dove gli attori sono fantasmi blateranti che sussurrano qualcosa ai vivi, e i vivi a momenti evaporerebbero, come davanti alla morte che tratteniamo mortale affinché non ci dimentichi. Passerebbe le giornate a spiare divertita e sofferente l’umanità, le sue abitudini, le sue ossessioni, i suoi stessi fantasmi. Non scriverebbe un libro lungo, né epico, solo il resoconto delle cose che non si vedono e che non succedono, ma che esistono come abitudini latenti e come pensieri scoordinati. Si sentirebbe a tratti superba, perché ha sempre l’ultima parola, lei che è immortale, allora potrebbe ripudiare e spergiurare sugli assenti, potrebbe cambiare le carte in tavola e disturbare la memoria di qualcosa che ci ricordavamo diverso, nessuno le potrebbe sopravvivere, allora nessuno sarebbe al sicuro dalla sua narrazione. Avrebbe in mano la verità e la menzogna, le immagini oniriche dei sogni, la mappatura completa dei continenti, e l’omertà di Dio. Credo però che sarebbe la più onesta delle scrittrici, perché non le interesserebbero i fatti, ma solo quelle qualità seconde che sono espressione della vita possibile e mai esperita in ognuno di noi. Il suo discorso avrebbe per oggetto quello che non succede o quello che non sappiamo se sia successo, quello che abbiamo pensato e quello che poi non abbiamo fatto, quello che non è mai avvenuto nonostante l’avessimo desiderato più di ogni altra cosa. La letteratura starebbe nei ricoveri più sotterranei della nostra personale esistenza, enumererebbe le giacenze e le possibilità, il cumulo di azioni morte e sogni privi di risvegli. Perché la sua storia e il suo libro può solo raccontare dell’isola che ci poteva essere e non c’è stata, della segreta fantasia che mostra la nera schiena e sussurra per sempre ai mortali ‘Domani nella battaglia pensa a me’, pensami e non dimenticare mai che al fondo di ogni giornata che finiva c’ero anche io, come voce o come mano a supplicarti di tirarmi fuori dal vuoto. Mostrato questo, la letteratura tacerebbe solo alla fine per non sciupare niente e per ricordare, nella sua lunga notte, dove il cuore è così bianco, la sua voce che è quella di nessuno.
“Domani nella battaglia pensa a me” è questo: la letteratura che impugna la penna e si racconta, raccontando di noi, senza di noi. La nostra libertà consiste nel poter svelare, nel poter entrare nella storia, la sua invece nel mantenere il velo dipinto che ci illudiamo di non vedere mai.
Javier Marías
Domani nella battaglia pensa a me
traduzione Glauco Felici
Torino, Einaudi, 2014 (1994)
pp. 292