“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 12 November 2017 00:00

Ogni mattina

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Non lasciarmi, Drusilla.
Ora apro gli occhi, solo cinque minuti e apro gli occhi. Che ora è? Non ricordo cosa ho sognato stanotte. Devo smetterla di fumare erba, ho perso i miei sogni, tutti quei bei film nei quali non mi sentivo mai così pesante, ho smesso di sognare? No, ci sono ancora, ma non ricordo niente la mattina, ormai il sonno è diventato un coma profondissimo, non c’è più mio figlio, quel bambino bellissimo e bianco come il latte che sogno da quando ero io stessa una bambina. No, basta, da stasera non fumo più, speriamo solo non ci sia nulla di terrificante oggi la fuori. Speriamo.

Ora apro gli occhi, altri cinque minuti e apro gli occhi. Sarà tardi? Questa coperta è morbidissima, mamma rimane sempre la compratrice più sapiente che conosco. Devo tirare fuori la testa, almeno la testa, il calore di questa coperta mi sta paralizzando, fluttuo dentro il mio uovo caldo, non rotolo, non mi muovo, resto ferma dentro questa prigione morbida e scura, sono invisibile, nessuno mi cercherà se resto qui dentro tutta la giornata, magari penseranno che sono già uscita. Il telefono, quello sì che squillerà, se non rispondo mi verranno a cercare, mi troveranno. “Come sei svogliata Giulia, ma perché non ti impegni un po’ di più a far funzionare la tua vita, ma perché non esci da questo letto e ti assumi le tue responsabilità?”. No, gente, assolutamente no, io me le assumo le mie responsabilità, mi sento in colpa per ogni vostro piccolo fallimento del cazzo, per le volte in cui piangete e non bastano le parole che vi dico, per ogni tazza lasciata marcire in cucina, per quella maglietta rossa che non ho avuto tempo di lavare, per la spazzatura da buttare, per le vostre risate che mi arrivano dal soggiorno e non so doppiare con la mia. Mi sento responsabile e in colpa, gente. Però sono delusa, così delusa da questa storia che la vita va presa come viene che, vedete, stamattina non esco fuori dalla mia tana e non prendo la vita in nessun modo, la voglio dimenticare, insieme a tutte le cose sporche nel lavandino, voglio nascondermi e non farmi trovare dai rimproveri e dalle parole così inclementi, dai tempi morti e da quelli che non so vivere, che alla fine chi ha detto che io debba vivere questa vita ad alta voce, chi ha deciso che debba accettare tutto, non sono stoica, sono triste, ma non come un adolescente scema, no, sono triste come tutte le persone che a furia di prendere la vita come viene hanno smesso di capirne il significato. Ci vuole energia da vendere per accettare tutto, ora non ne ho neppure un po’ per dare alle cose una direzione diversa, sono sepolta sotto i massi del caso e del destino, sotto le macerie delle persone distratte, delle parole sbagliate, dei compromessi, della violenza degli abbracci sciolti prima che si annodassero. Perciò andate voi a lavorare stamattina, andate all’università, lavatevi i denti e affrontate le due ore di lezione al posto mio, e mi raccomando state attenti che la borsa si abbini alle scarpe, più di tre colori addosso non sta bene, la camicia che sia stirata, la spazzatura buttata, le tazze lavate, i giochi di società la sera giocati.
Non lasciarmi, Drusilla. Ho paura.
Ora apro gli occhi, davvero. Saranno le dieci, sento dei rumori in soggiorno, qualcuno sta lavando i piatti di ieri in cucina, qualcun altro poggia le tazzine colorate sul tavolo, sono vuote, le sbatte, a breve verranno riempite di caffè. Per fortuna in questa casa si svegliano tutti tardi come me, mi sento meno un essere inutile. Voglio fumare una sigaretta, ora mi alzo e mi unisco a loro, vediamo chi è di buon umore stamattina. Ogni giorno la stessa storia, gli stessi riti, speriamo ci sia posto sul divano, mi girerà la testa appena mi alzerò da questo letto, ho bisogno del divano. Cinque minuti ed esco fuori.
Non scrivo da mesi, ma se penso a questo non mi alzo più. Non scrivo da troppi mesi, forse un anno, qualche riga sparsa, mai un bel pezzo che mi dia l’impressione di aver raccontato una storia profonda, reale. Forse non scriverò più, ma poi se non scrivo che faccio? No, non posso mollare, tutto ma non questo. Non so neppure pensare più, che poi esiste un modo corretto per farlo? So solo che i miei pensieri sono disconnessi, non ce n’è uno che valga la pena trascrivere per farne una bella frase, manco l’obiettivo di parecchio e da troppo tempo. La vedo questa strada dritta, fiancheggiata da alberi alti e fieri, le chiome non troppo folte, riesco a vedere oltre, ma alla fine di questa strada niente, orizzonti indistinti, come parole inesatte, imperfette, monche, troppe virgole, troppi punti, su una strada si cammina non si gira su se stessi, ed io giro, mi viene da vomitare quasi, era tutto più semplice prima. Questo ‘prima’ mi ossessiona, tutti hanno un prima, un tempo passato bruscamente interrotto, mai più riavuto indietro. C’è un fossato profondissimo ormai, non c’è un ponte e niente di niente, non tornerò a casa. Devo ricominciare da capo, addio innocenza, da qui in poi devo familiarizzare con un doppio significato delle parole che ho imparato, dovrei impastarle di nuovo in bocca, anche se più amare, meno nuove e dolci, che tradimento enorme la vita quando la vivi. Ti mostra quel doppio fondo, ecco sì, sono incastrata nel doppio fondo, come dentro questo letto, prima era tutto fuori, esposto, c’era una fiducia immensa, gli spazi ampi erano riserve di ossigeno e vento, oggi tutto si è trasferito dentro, nascosto, spaventato, tramortito dalla brutalità, da quel doppio fondo che a tradimento ti risucchia e dal quale non se ne esce più. Il piano orizzontale si inclina a un certo punto, fanculo i meravigliosi puristi, alla me che lo fu, sognatori e amanti giovani io vi invidio, godetene finché potete, riempitevi il cuore prima che una mano banale e scheletrica si prenda il ripieno verde della vostra stagione migliore.
Non lasciarmi, Drusilla. Ho paura. Ho paura dell’immensa solitudine dei mostri.
Questa frase mi è rimasta incastrata in testa, Camus ti prego, anche tu, spostati per favore, fammi alzare da questo letto, ho una lavatrice da fare se non voglio rimanere senza mutande tra qualche giorno. Drusilla, Drusilla ritorna ti prego, dagli inferi o da qualsiasi posto tu ti sia cacciata, non lasciarlo.
La solitudine dei mostri, questa solitudine delle dieci del mattino, tanto lo so che fuori piove, come ieri, lo sento, sui vetri c’è un affollato scalpitio, l’inverno graffia con unghie sporche alla finestra, mostro inaudito, rumoroso anche quando con aspetti freddi e glaciali riempi di silenzio bianco il mondo. Drusilla, ti prego, non andartene, solo Dio va via, a lui l’alto compito di farsi attendere e desiderare e implorare per poi disattendere tutte le speranze e le preghiere, tu rimani, essere umano, carcassa a breve, coraggio, rimani, non lasciarci.
Mi alzo.
È tutto come ieri, tutte le cose intorno a me dormono un sonno profondo, i mostri sotto il letto non ci sono più, solo questo silenzio, l’immobilità delle cose inanimate e amate, qualcosa dovrà pur cadere dal cielo, o dal soffitto, e condannarci a morte, la solitudine di quei mostri − senza più la forza di essere cattivi − anche stamattina, come ogni mattina, mi ha risposto che sì, avevo ragione: è inutile, nessuno ci sentirà.

Il pavimento è freddo.
I piedi nudi.

Non lasciarmi, Drusilla. Ho paura. Ho paura dell’immensa solitudine dei mostri. Non andartene.

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