
Extra La locanda delle chiacchiere
«Il viaggio s’arresta in una locanda: scoppietta la fiamma, una musica dice il suo tono, il bisbiglio di voci vi domina legando i tavoli ai tavoli, gli uomini agli uomini. È qui che i racconti s’incontrano».
Vorremmo dire che questo non è un addio. Vorremmo poter dire che Il Pickwick sarà ancora una casa accogliente per la scrittura di tanti, ricettacolo di inchiostri messi in condivisione.
Vorremmo...
I.
La piazza in stile veneziano
del millecinquecento; torretta
con le ore, antiche e ferme:
le dieci
di una tiepida mattina
a primavera.
La piazza, le bandiere, tanta gente.
La gente, le bandiere.
Dal palco
le parole. Di lotta,
resistenza. Poi canzoni.
La gente tanta gente
tutta stretta.
Guardiamo la ragazza
in prima fila,
fissiamo nella mente
il suo sorriso. Ci crede,
lei ci crede, è lì
per questo.
Coscienza del suo gesto,
fiducia nella storia,
In piedi, al posto giusto:
è lì che aspetta.
II.
Tre statue, nella piazza,
più una loggia.
La statua della fede
raccoglieva in passato
rabbie e denunce
di fogli cittadini.
La loggia offriva
protezione al potere.
Di lato, libertà.
Autorità, di fronte.
Oggi è lo stesso.
Statua parlante
ma loggia muta.
Non si risponde
a chi chiede ragione.
III.
Poi c’è un cestino
per i rifiuti.
Innocuo e mite,
di ferro vecchio.
Ci infileranno
qualcosa dentro:
malta nel secchio
o polvere da sparo
(tritolo e dinamite).
Non è una cava
da far saltare,
non è trincea
da sbrandellare.
Pochi minuti.
Corpi per terra
il sangue il fumo
lava di guerra.
IV.
Un nuovo ordine.
Ordine nuovo.
Nuova obbedienza
da strutturare.
Siamo soldati.
Siamo servizi.
Siamo pagati
per trucidare.
V.
Tutto quel rosso
tutto quel fumo.
Idranti e pioggia
a ripulire:
tracce di morte,
tracce di colpe.
Urla e sirene,
pianti e catene.
Divise a muro
per transennare
la loggia intera:
ma chi è scappato
sta già al sicuro.
VI.
Di quel sorriso
in prima fila
non c’è più
impronta.
Quello che conta
è sconfessare
la connivenza
del Nostro Stato.
Hanno deciso:
frutto bacato
di estremi opposti
sola violenza
da condannare.
VII.
Testimoni tribunali
omissioni
piste false.
Otto morti.
Di feriti,
un centinaio.
Danni fisici
e morali:
il tributo
all’amnesia.
Cinquant’anni
di impostura.
Uno scandalo
che dura,
squassa la
democrazia.
Marzo 2022
Nuje c’alluccamm’ pe’ ce sentì
E nun guardamm’ pe’ verè
Nuje che ‘e banner’ so’ stracci allert’
E che ogni straccio è ‘na banner’
“È il miglior gelato del quartiere”, dicevano dai balconi dell’intero perimetro dell’isolato. Il miglior gelato, il migliore, gridavano in coro. Spinto da cotanta spinta pubblicitaria, mi accinsi a recarmi nella migliore gelateria della zona. Così dicevano i bontemponi.
In un buio assoluto redento solo da pochi riverberi fiochi e dispersi, residuati di una luna già tramontata da un pezzo, due piccole strutture dalla facciata triangolare sostavano in mezzo a un prato leggermente scosceso. Le due tende canadesi avevano un tessuto e un tono indefinibili quanto i loro presunti occupanti, non essendo presente al loro interno nessuna luce che potesse far indovinare le sembianze di questi ultimi.
“Te la senti di fare un giretto?” chiesi al mio amico Roberto. Lui non esitò, neanche un nanosecondo, e lanciandomi uno sguardo dei suoi con le pieghe sulla guancia sinistra, disse sì. Ci incamminammo allora lentamente verso il Parco Sempione. Era sabato, un giorno di primavera particolarmente luminoso a Milano. Eravamo stati a pranzo da un nostro collega. Tra noi gli amichevoli incontri costituivano ormai una regola esistenziale.
I morti non barcollavano più per le strade. Penzolavano dagli spessi rami delle querce di Sam Town. Appesi come moscerini dal peso incontrovertibile. Pieni ne erano gli angoli delle strade dei quartieri più bassi. Nel quartiere un tempo più popoloso, la gente non usciva più per via del tanfo insopprimibile che tendeva a incatramarsi sull’asfalto. Da una certa distanza parevano decorazioni per Halloween ma quelli erano dei maledetti cadaveri in putrefazione da settimane! E in quel quartiere c’era più poco da mostrare, probabilmente niente più gente da far uscire.
− Se ho un ricordo davvero bello, con Antonio?
Tutt’a un tratto la faccia seriosa di Isaia mostrò il più delicato dei sorrisi. Era anche il più ammaliante che qualcuno avesse mai visto aprirsi lungo la linea di quelle labbra pallide.
Ero nel bel mezzo di un sogno. Un sogno fantastico, perché incomprensibile. Poi mi ha svegliato il mio cellulare. Mi chiamava una società di cui non ricordo il nome per vendermi qualcosa. A malapena sono sceso dal letto.
Quasi barcollando mi sono trovato in cucina. E ad occhi semichiusi ho allungato una mano, che ha agguantato la bottiglia di whisky. L’altra mano, quasi agisse in autonomia, ha rovistato tra i bicchieri dietro al lavandino scegliendo quello col quale ho un rapporto di frequentazione quotidiano.
Litigavano da due ore, in automobile, sotto la pioggia battente, respirando polvere d’interni. Litigavano in maniera accesa e nel mentre lei chiedeva fazzoletti. Dove sono i miei fazzoletti, urlava, nel tentativo di spostare l’argomento della conversazione sul bisogno di asciugarsi, lacrime, sudore, muco. Non ne poteva più.
L’allarme trillava come un depravato campanello di scuola. Valerio si precipitò fuori mentre lo squillo scellerato assordava tutti, e con un unico balzo superò i due gradini fatti apposta per estraniarlo da quell’altro pianeta che era la strada.