“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 17 January 2020 00:00

Filippo Dini e la divisibilità dell’uno

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Ci sono introduzioni sonore all’opera che realmente introducono, nel senso che conducono dentro, dentro alla situazione, dentro all’atmosfera, dentro alla scena. Arturo Annecchino ci conduce dentro, sdraiati a terra, sull’arida terra estiva di campagna, al chiar di luna, ad ascoltare le cicale cantare, con il latrare dei cani che, in lontananza, avvisano di arrivi inaspettati; quando il sipario si apre la scena pensata da Laura Benzi ci rivela subito la cogenza dell’introduzione, siamo proprio in campagna, davanti ad una villa della campagna emiliana (nome d’invenzione Fasolara), a far ombra, nel buio pesto della notte, ci pensa la luna.

Dalla quinta laterale entrano furtivi Giove e Mercurio, silenziosi si introducono nell’abitazione, dal fondo della platea, sbraitante al telefono, Sosia si fa luce con una torcia: la dicotomia dei personaggi è subito chiara; su quest’antitesi si giocherà tutto lo spettacolo − secondo la nostra opinione − su questo continuo rimando tra opposti, molto più che sugli equivoci, si reggerà l’intera struttura registica e drammaturgica. C’è, cioè, un gioco di doppi, dove il doppio non è banalmente lo sdoppiato, il replicante ma il suo contrario, un doppio in antitesi con il suo uno, con la sua matrice, una sorta di stampo che, avendo ricevuto una precisa forma negativa in cavo, permette di riprodurre la stessa impronta in positivo, c’è l’uno e c’è l’altro dell’uno, c’è un piano divino e un piano terreno e ogni piano si traduce in una proposta attoriale opposta e contraria, con un tono e un ritmo caratterizzante: c’è il Dio e, in sua alterità, c’è l’uomo, c’è un uno integerrimo e c’è l’altro dell’uno corruttibile, c’è un uno placido e un altro dell’uno irrequieto, c’è un uno rigoroso e un altro dell’uno pressappochista. Proprio l’uno che in quanto tale non sarebbe divisibile, lo diventa nella proposta di Filippo Dini. E ancora, ogni uno contiene in sé il suo opposto, ogni altro partecipa dell’uno, come se nel porre l’altro lo conservasse in sé, parziale, inconscio. Se il Dio Giove ha un tono pacato e sicuro, un ritmo lento, preciso e vigoroso, il suo altro, Anfitrione, è irascibile, precario e distante e però c’è precarietà nella posizione scenica assunta dallo stesso Giove − simultaneamente Giove e Anfitrione appunto − così come c’è vigore nella volontà di Anfitrione; se l’uno è colto, preparato e profondo, il suo altro è ignorante, sgrammaticato e superficiale, ciò nonostante Giove anela l’umano, le sue possibilità, anche la possibilità di unirsi carnalmente a una donna (Alcmena, e non è un caso che scelga di assumere le sembianze di Anfitrione per riuscirci), soprattutto desidera il suo essere nessuno (conviene essere nessuno, dice), l’assenza di responsabilità, poiché tutto quello che accade di sbagliato nel mondo è colpa degli Dèi, mai degli uomini. Se Mercurio è talmente calmo da sembrare sonnolente, il suo altro, Sosia, è esagitato, eccessivamente veloce nel corpo e nella lingua, e però nel loro confronto/scontro iniziale sarà proprio Mercurio a stupire per  sveltezza.
Anfitrione, che Plauto presentava come un valoroso combattente tornato vittorioso dalla battaglia contro i barbari, qui è un improvvisato politico che riesce a sbaragliare, per intervento divino, i suoi avversari politici, conquistando il 70% dei consensi elettorali; Sosia, che Plauto aveva voluto servo di Anfitrione, diventa qui il suo autista.
Se il Giove di Gigio Alberti è perfettamente in linea con quella che ci sembra la lettura drammaturgica, se il conflitto interiore che lo tormenta si palesa sin dalle prime battute, se nella sua interpretazione riesce a calibrare la possenza del Dio con la fragilità dell’uomo che in lui si cela, convincendoci con le sue doti attoriali, qualcosa sfugge di mano a Giovanni Esposito/Sosia.
Giovanni Esposito è un bravissimo caratterista, è uno che da solo riesce a bastare alla scena, sul palco si muove come un atleta, scegliendo partiture fisiche non facili, riuscendo a equilibrare perfettamente lingua e corpo, improvvisando battute e ammiccamenti al pubblico, eppure qui è eccessivo, è troppo: troppo veloce, troppo urlante, troppo isterico, troppo distante dalle interpretazioni degli altri attori, è come un grattacielo che taglia la linea d’orizzonte di un paese di pianura, come un elettrodotto in una valle deserta e qui la valutazione dell’impatto ambientale non può non essere negativa; ci stupisce come Filippo Dini abbia “acconsentito” a questo one man show, non può essere pensato come cifra stilistica del personaggio, non si può immaginare un personaggio così fuori portata, che rischia (e ci pare ci sia riuscito in qualche passaggio) di mettere in ombra altri interpreti, il confronto con Mercurio, ad esempio, non regge (al di là delle sbavature di Valerio Santoro), troppo distanti i toni, i ritmi e le intenzioni; possibile che questa isteria debba appartenere solo all’autista? Se cioè fosse voluta, non dovrebbe esserci una reazione negli altri personaggi? Perché sono tutti non curanti di quell’energia? Perché la danno per normale quando tale non è? E se volesse essere denuncia di un malessere, se vogliamo, anche un po’ contemporaneo, frutto dello scollamento sociale e dei ritmi dell’oggi, a maggior ragione ci dovrebbe essere una presa di coscienza da parte di qualche astante.
Altra interpretazione che non convince, ma con maggiore forza, è quella di Barbora Bobulova, ci sembra sbagliato proprio il personaggio, occorreva un altro temperamento per poter interpretare Alcmena: non abbiamo visto reazioni credibili agli inganni di Giove, nessuna rabbia incredula, nessuna disillusione offerta agli spettatori, colei che si sarebbe dovuta risentire più di tutti, quella il cui piacere era stato preso con l’inganno, non ci regala nessuna vibrazione emozionale. Anche in lei, inoltre, troppa distanza dai toni degli altri, già dalla prima scena sul balcone con Gigio Alberti, perfettamente nei panni del desiderante lui, troppo fintamente ritrosa e sensuale lei; distante sempre da Antonio Catania, troppo fintamente disperata, e poi le mani, per due ore quelle mani sono sempre state alte, nei capelli, sugli occhi, sulle gote, vibranti in aria, sempre al di sopra dell’altezza della vita, quasi a voler portare tra le dita una carica interpretativa che non c’era da nessun’altra parte in lei.
È piaciuta molto, invece, Valeria Angelozzi, nei panni della moglie di Sosia, simpatica, briosa, giusta.
È stato bello ritrovare sul palco Antonio Catania e Gigio Alberti, ci hanno ricondotto alle visioni cinematografiche adolescenziali, in cui Salvatores la faceva da padrone, bello ritrovarli in cartellone con Giovanni Esposito e Filippo  Dini, con cui avevano già lavorato di recente (Regalo di Natale e I cavalieri).
La riscrittura di Pierattini dell’opera plautina, infine, non convince completamente, va bene la contemporaneizzazione, va bene la trasposizione geografica, va bene la scelta del politico qualunquista e rampante ma alcuni riferimenti sono apparsi un po’, diremmo, compiacenti e compiaciuti, furbescamente a favor di pubblico, ruffiani insomma, pensiamo a quelli piuttosto banali all’emergenza migranti o alla legittima difesa o alle citazioni di questo o quell’altro leader politico (è l’Italia che lo vuole, è il Paese che me lo chiede), la sensazione è che abbia voluto vincere facile... e in effetti c’è riuscito, l’entusiastico applauso e la standing ovation finale l’hanno dimostrato.
La riflessione che accompagna la nostra uscita dalla platea ha a che fare proprio con le relazioni tra ricercatezza e accoglienza positiva nel pubblico, tra qualità e programmazioni; ora, senza alcuna pretesa filosofica (o anche filosofeggiante), il dato certo è che gli spettacoli particolarmente di ricerca e innovativi hanno difficoltà ad essere inseriti nelle stagioni teatrali proprio di quegli Stabili che per definizione dovrebbero essere d’innovazione, altro dato certo è che più commerciali e di bassa qualità sono gli spettacoli in cartellone e più incontrano il piacere del pubblico.
Scritto ciò, non crediamo che la proposta cui abbiamo assistito sia di bassa qualità e che non abbia elementi innovativi, lo spettacolo ha una buona struttura, è divertente, godibile, sono giuste le luci, i costumi, i suoni, sicuramente ci sembra eccessivo l’entusiasmo del pubblico, questo sì, non siamo di fronte a un capolavoro, abbiamo però la consapevolezza che è lui, il pubblico, a pagare il biglietto e decretare la riuscita (la chiamiamo così?) di uno spettacolo, e se il pubblico vuole questo allora forse bisogna darglielo. Oppure no?





Anfitrione
da
Plauto
di
 Sergio Pierattini
regia Filippo Dini
con Gigio Alberti, Barbora Bobulova, Antonio Catania, Giovanni Esposito, Valerio Santoro, Valeria Angelozzi
scene Laura Benzi
costumi Alessandro Lai
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino
foto di scena Pino Le Pera
produzione La Pirandelliana
in coproduzione con Fondazione Teatro Della Toscana
lingua italiano, napoletano
durata 1h 50’
Gubbio (PG), Teatro Comunale Luca Ronconi, 25 novembre 2019
in scena 25 novembre 2019 (data unica)

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