A cavallo tra la cultura elvetica e quella italiana, Hindermann ha nutrito i suoi versi di apporti dal tedesco, dal francese e dall’inglese, grazie alla frequentazione assidua delle diverse letterature e alle esperienze lavorative in Germania e in Inghilterra. Le sue poesie, oltre a utilizzare termini stranieri, evidenziano eredità culturali che dagli ermetici (Montale, soprattutto) risalgono a Dante, e si nutrono di apporti filosofici e scientifici.
Un’attenzione particolare è riservata alla natura, nei suoi elementi vegetali e animali, indagati e nominati con estrema precisione. Uccelli e insetti, con la loro alata e quasi angelica leggiadria, con la loro effimera, gioiosa e colorata esistenza, abitano i versi come messaggeri simbolici di significati “alti”, di doti morali: farfalle coccinelle libellule, fringuelli allodole colibrì gazze e pettirossi. Piccoli abitanti dei boschi e dei campi, celebrati nella loro innocente fisicità.
Giustamente Roberto Galaverni definisce Hindermann “poeta anzitutto di esterni, del vedere, dell’osservare, del capire”: con le creature più piccole vige un rapporto di francescana solidarietà e amicizia, talvolta velato da una pena leggera, dal senso di colpa di chi si riconosce artefice di violenza, padronanza e sopruso: “Perdóno / supplico per la farfallina bionda / che nel suo strano delirio / m’accarezzava la fronte e che uccisi, / senza saperlo, schiaffeggiando a tastoni / nella penombra; perdóno / per quest’altra vittima / del mio ottuso potere, / così infimo eppure sempre / così male usato”.
Un rapporto ancora più empatico, di intenso legame affettivo e di reciproca dipendenza, lo lega ai gatti, regali, flessuosi e indipendenti inquilini del tepore domestico. Il micio “impigrito” o “spampanato” che con lui ascolta una sonata di Schubert, o “il gatto che lungo / il vetro sonnecchia e cui scuote / un crampo le ganasce e freme / azzannando nel vuoto / voli lontani”; o ancora Beaux-yeux, il felino di casa, che torna con una piccola preda, rivelando sentimenti di gioia, fierezza e terrore quasi umani: “in uno / sguardo che uguale brilla / nel toporagno e in Beaux-yeux tigrata / che me lo porta in dono ancora vivo. / Forse le fusa e lo stridìo non sono / che voci di un'unica bontà”. Animali che patiscono e com-patiscono insieme a chi li osserva, in una comune fragile creaturalità: “I polpastrelli rosa del gatto / raccolti a mazzetto sotto il muso a dormire / come fossero grazia soltanto / e non forse angoscia, preghiera / fiori deposti / in sacrificio anche loro”.
Si nota, nelle poesie di Federico Hindermann, la ripetizione frequente del verbo “passare”, non solamente nel significato di trasmettere, mandare segnali da un essere all’altro, ma anche indicando la fugacità lieve di un transito nel vivere, di un tacito percorrere le ore e le giornate.
Sono versi, i suoi, nutriti di poche parole, di scarsi colloqui (“quanto silenzio bisogna / aver ascoltato, quanto cielo negli occhi...”), e invece pieni di sguardi, lunghi attenti e meditativi, che sanno transitare dall’osservazione incantata di un particolare a una riflessione più filosofica, cosmica, dall’impronta religiosa. Il “Tu” cui spesso il poeta si rivolge non sottintende però alcuna supplica, non richiede l’esaudimento di una preghiera; è piuttosto pura contemplazione dell’altro da sé (alla maniera dei mistici tedeschi citati, Eckhart, Böhme), che si confonde con una riflessione sul tempo e sulla fine del tempo: numerose sono infatti le poesie per i morti, ambientate nei cimiteri o durante un funerale.
La scrittura di Hindermann non sollecita nessuna confidenza, rimanendo algidamente classica, ponderata, discreta; pur nella linearità dello stile sa farsi abissale, concentrandosi nello scavo semantico e nell’interrogazione sospesa sul mistero dell’inspiegabile, del non misurabile, del tragicamente necessario: “Sull’uscio di casa, / appena giunto sull’uscio / già mi conturba il mondo”, “S’aggancia al cielo, trascina / in altre logiche che non so seguire / quest’episodio in eterno forse, / scrollando le spalle, riassesto / forse il respiro che rantola, stenta, / o faccio macerie del mondo / che debbo reggere, i piedi puntati / sui sismi, le ondate forse / riposeranno, il capriccio di un attimo basta / per credere che tutto sia”.
Nelle ultime raccolte in forme brevi chiuse (un quinario e due endecasillabi rimati), il tono si fa più sentenzioso e ironico con l’assumere le forme di mottetti o stornelli, nutriti di richiami biblici, danteschi e carnascialeschi medievali, rimanendo comunque pregno di pensosa malinconia: “Per me diffido / del bene: fatto, non voglio saperne; / del male no: ce l’ho già fin dal nido”, “In usufrutto / Dio dona la mela che mordo: perché / la gioia già col rimorso d’un lutto?”.
Fabio Pusterla nella prefazione al volume sottolinea quanto il ricorso costante alle antitesi metta in luce due caratteri fondamentali e opposti della scrittura di Hindermann: armonia e contrasto, così come sembrano essere riassunte dal titolo di una sua raccolta del 1980: Docile contro. La voce del poeta, sempre controllata a evitare sbavature emozionali, nutrita di una solennità asseverativa, è però anche pacata, ricca di pietas: docile, appunto, nella capacità di adeguarsi all’esistente, mantenendo però una sua consapevole e orgogliosa alterità.
Federico Hindermann
Sempre altrove
A cura di Matteo M. Pedroni
Introduzione di Fabio Pusterla
Marcos y Marcos, Milano, 2018
pp. 332