“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 13 September 2014 00:00

L'uomo solo

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La solitudine non è una condizione del presente, è una visione mistica e tragica del proprio futuro.
La solitudine è quel terrore che si prova ogni sera quando, soli nel proprio letto, si tirano su le coperte e si è entusiasti di scomparire. La solitudine non è mai stare soli, la solitudine è essere soli.
In fin dei conti la solitudine è quella diversità per cui, anche circondati dai migliori amici, non si smette la sera di essere felici di scomparire e si vorrebbe non risvegliarsi mai più. Perché?

Non ci sono spiegazioni logiche né pensieri deliranti, solo la calma ed affilata coscienza di una impossibilità intrinseca all'essere. Per questo così raramente l'uomo solo si uccide pur desiderandolo per tutta la vita. Perché non ha un male dal quale fuggire, un problema irrisolvibile, una sofferenza traumatica che lo porti alla pazzia; anche arrivato in paradiso l'uomo solo rimarrebbe tale.
Il nulla sembra dunque per lui l'unico lieto fine, ma questo nulla lo angoscia, perché il non-essere lui conosce già: lui già non è fra gli altri, non è dinanzi allo specchio, non essere è la sua quotidianità e la causa profonda della sua paura di vivere. Per questo motivo un uomo solo non si vanta mai di essere diverso, rimpiange con fiumi di lacrime di non essere tutto ciò che lo circonda: rimpiange la banalità, la mediocrità, tutto ciò che disprezza probabilmente solo perché sono tesori che egli non potrà mai avere per sé. La solitudine in questo è particolarmente ridicola: non sa esistere senza una infantile, o demenziale, avversione per tutto ciò che è “ovvio”. La vita dell'uomo solo, ogni giorno, in ogni momento, anche se allegro, è rovinata dalla coscienza dell'importanza del denaro, del corpo, del reciproco consumarsi, della futilità delle parole, dell'insignificanza degli altri, del bisogno, la debolezza, della normalità del reciproco ferirsi, ecc... Fatti per lui “assurdi”.
Egli disprezza persino il piacere che ritiene superfluo, rozzo, incurante, indifferente, alienante. Questo piacere infatti, in qualsiasi modo lo si procuri, cos'è se non lo scomparire della coscienza?
Ed ecco che così torna il problema dell'uomo solo: l'insostenibile peso dell'invisibilità e la paura di tornare al nulla. Egli ama scomparire ma non lo vuole, messo a tacere il suo pensiero egli si disintegra, non ha una identità sociale che possa resistere a questa deflagrazione, non ha una progettualità che giustifichi questa distruzione come un gesto atto a “perpetuare la propria vita”.
Cos'ha da guadagnarci a godere l'uomo solo? Vivere non vuole e morire in questa maniera gli pare il modo più crudele e umiliante. L'uomo solo non ha nulla, nulla gli apparterrà mai, egli ha solo la sua coscienza: il suo mondo nel mondo, il suo essere nel suo non-essere. Dovrebbe forse volere il piacere per cacciare via la tristezza? Follia. L'uomo solo è triste, lo è per definizione, è la sua normalità, così normale per lui da non essere tragico, se non è triste egli non è, se non fosse triste non sarebbe solo, e se non fosse solo chi sarebbe? Non sarebbe nessuno, l'unico uomo che conosce è sé stesso in quanto uomo solo. Questa sua tristezza è quella, incurabile, della lontananza.
L'uomo solo è lontano, vicinissimo e lontanissimo. Nessuno può afferrarlo, chiunque può dimenticarlo e sostituirlo con incredibile facilità. E l'uomo solo, proprio perché è triste, ne capisce bene il motivo: la sua tristezza perpetua, per quanto la censuri dietro i suoi sorrisi meglio dipinti, non può che essere un male per tutti coloro che lo circondano e che vogliono vivere e che vogliono essere felici. L'uomo solo lo capisce, lo sa, e proprio per questo tende egli stesso alla solitudine.
Conosce fin troppo bene il male da volerne essere uno, specie per quelle persone che ama come un lettore ama un personaggio: di un amore impossibile, già morto, che non avrà mai alcuna esistenza.
Così l'uomo solo abbandona e viene abbandonato, sempre, ineluttabilmente, con una straziante leggerezza per cui vede partire per sempre le persone care e non può che essere felice per loro.
Per questo ci sono milioni di uomini soli che non si aggregano mai e non si incontrano nemmeno. Qualche volta, è vero, nel folle tentativo di rimediare a questa difficile condizione essi amano, dividono in due il proprio corpo, la propria coscienza, il proprio tempo: danno via tutto di sé stessi nella speranza, ancora una volta, di scomparire. Nell'amore dell'altro l'uomo solo infatti esiste in una specie di terza dimensione fra l'infinito della sua solitudine e questo mondo in cui risiede ma del quale non fa parte.
Ma molto presto questi uomini ritornano soli, sono essi stessi a lasciare l'altra persona. Fantasmi di sé stessi, essi finiscono col capire di non essere amati, di non poterlo essere. Ma sopratutto essi non vogliono più ingannare l'altro, incatenare la persona che essi amano davvero ad una loro menzogna che non ha in fin dei conti altro scopo che aiutarli a sopravvivere. Che valore può mai avere la vita di ciò che non è? L'uomo solo così, che per conoscenza privativa sa meglio di chiunque altro cosa sia l'amore, alla fine vi rinuncia. D'altronde egli è solo tanto per strada in mezzo a milioni di persone quanto solo nella sua stanza dinanzi una finestra. I passanti lo affascinano, ma egli necessita l'eternità: solo il sogno di qualcuno per sempre al suo fianco sa dargli voglia di vivere per contrastare il suo infinito dolore. Ma nessuna idea quanto quella dell'eternità fa paura agli strani e normali umani che lo circondano. Lo si capisce, essi conoscono il mondo mutevole, essi sanno che l'eternità è solo una menzogna da adorare come una fantasia, essi in fondo temono più di ogni altra cosa la noia e solo l'estrema fatica e l'estremo cinismo li possono portare un giorno a non cedere dinanzi alla “novità”. L'uomo solo invece non fa esperienza del sistema in modo utile, lo fa in modo narrativo quasi leggesse ogni giorno una descrizione sempre più dettagliata e dolorosa della propria tortura. L'uomo solo è allo stesso tempo personaggio e lettore: vive un mondo d'immaginario che è suo ma nel quale egli è impotente. Vede il labirinto ma non cerca la via di fuga dal Minotauro, lo esplora con curiosità perché per lui non esiste fuga dal dolore ma solo la fuga dalla vita. E questa fuga, meschina, che senso ha cercarla fuori dal labirinto? Che differenza fa morire dentro o fuori il labirinto? L'uomo solo, sì, non ha speranza.
La sua vita è quella di un Dio impotente che vede nel sistema, sin nelle viscere e nella natura, il Nemico. Egli brama la rivoluzione perché solo lei potrebbe dargli una nuova identità, una nuova appartenenza. Ma questa rivoluzione che pensa e desidera è, a ben vedere, così totale da essere una distruzione spaventosa, da coincidere con l'apocalisse, da richiedere il mutamento di tutte le forme di vita, di tutte le leggi della fisica e della chimica. È culturale in un senso genetico. L'eden dell'uomo solo è la fine del mondo dove tutto è da ricostruire, ed il suo inferno è invece questo mondo pacifico dove molti vivono così felici nonostante tutto sia per lui da cambiare.
Ma come, pur dotato di una discreta intelligenza, è possibile che questo uomo non sappia accettare la materia prima della vita umana? Semplice, egli è solo in un universo infinito: egli è Dio.
Come può accettare l'umano? Come può crederlo suo? Egli è immerso nel mondo, non ne fa parte.
Il suo essere è un corpo estraneo immerso in una strana realtà agli occhi della sua stessa coscienza, un corpo estraneo legato a questo mondo da un solo oggetto a cui dedica tutto il suo odio: il corpo fisico. Egli non lo odia propriamente come lo odiano gli altri, per alcuni difetti che possono renderlo poco attraente o per il dolore e la malattia che esso procura. Lo odia come una corda, attorno al collo, alla quale egli è appeso ed immerso in una ingiusta opera di pupi dove egli non ha, come Pierrot, alcuna maschera e dunque nessun ruolo. Veri fra i falsi non si è altro che impostori. Guardandosi nudo l'uomo solo vede solo una prigione, e sui suoi polsi, sulla sua gola, sul suo petto a sinistra, egli ogni giorno vede tremare di rosso la parola “libertà”. Ma questa libertà, qual è? Quella di morire, di smettere cioè di essere, di essere nella non esistenza, e cioè in fin dei conti di tornare alla propria intimità: il nulla. Un cambiamento drastico per non cambiare nulla.
Questo l'uomo solo cerca per tutta la sua vita: l'amore per il nulla. Tutti i giorni nella sua testa dolorante giacciono le grida della nullità, della sua inettitudine all'atto respiratorio, e si dibatte in vano sul preferire un nulla insofferente ad un nulla vivente e doloroso. Morire o vivere, in qualsiasi caso, significa la stessa cosa.
Un ultimo tratto contraddistingue l'uomo solo, e cioè che nonostante la sua solitudine sia la diretta conseguenza del modo di essere delle altre persone egli non prova verso di loro nessun rancore. L'uomo solo non vive la propria solitudine come una condizione artificiale, né vive come un dramma la non accettazione da parte degli altri, perché è lui in primo luogo ad essere solo perché non li accetta all'interno di un sistema positivo di valori. Assurdo sarebbe dunque rimproverare agli altri il loro essere, quando è l'uomo solo che per primo non vuole rinunciare al suo e cioè al suo essere solo. In questo senso l'uomo solo non merita pietà, e nessuno d'altronde è veramente capace di compatirlo. Egli sceglie la propria sofferenza, seppur come necessità del proprio essere.
Quante volte infatti ha lasciato, compiaciuto da questo spettacolo romantico, la felicità disgregarsi dinanzi ai suoi occhi anziché coglierla e proteggerla? Quante opportunità ha rifiutato?
Difficile spiegare perché lo ha fatto, forse perché non vi credeva veramente e gli sembrava l'ennesimo inganno, o forse perché tutto ciò che voleva dalla vita erano quattro cose: verità, giustizia, un amico per sempre ed una donna da rendere felice giorno dopo giorno.
Fatto sta che l'uomo non solo non lamenta il suo dolore, perché in fin dei conti solo questo gli ricorda di essere qualcuno da qualche parte. Così l'uomo solo vive solo nel suo dolore, mentre nel piacere si disintegra ed egli non può che sentirsi chiunque in nessun posto. Il dolore gli è fratello, vi si rispecchia e riconosce, vi vede la sua Storia, e lo protegge da ciò che più teme: cambiare e sparire. Egli possiede la conoscenza, la coscienza, la volontà, e si ostina a rimanere solo ed ingenuo.
Mille maschere sono pronte lì per lui per farsi amare ed accettare, e nessuno lo ha mai escluso dalle feste a cui si dedica l'umanità dove più si è e più ci si diverte. Perché mai, dunque, dispiacersi della sua sorte? Del suo non divertirsi per i suoi gusti bizzarri? Odiosissimo questo individuo si avvinghia invece a questa vita che disprezza, e triste se ne va per le strade a deprimere gli onesti che lo incontrano. Qualche volta persino ad elemosinare l'amore! L'uomo solo non è “l'innocente”, al contrario è l'idiota, è il colpevole. Si crede Dio ma non è pazzo: è arrogante e presuntuoso. Egli è nemico dell'umanità che gli è nemica a sua volta ma con la quale egli si ostina a mantenere un rapporto di amicizia. Nessuno deve, nessuno può, perdonarlo o compatirlo. Nessuno, nessuno, nessuno, nessuno, nessuno: gli basterebbe essere nessuno, come tutti, per vivere contento.
Ma eccolo qui, farfalla di marmo in un acquario di sangue, l'uomo solo striscia verso la luna sul vuoto che taglia gridando nel silenzio la sua pena di sabbia: la sua identità.

 

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