Interno precario, quello abitato dai due, permeato dalla frustrazione del giovane contemporaneo, laureato, perennemente in cerca d’impiego, costretto a riempire giornate vuote con diversivi vari, guardando stancamente cartoni animati, consumando con rituale metodicità l’appuntamento con la prima colazione, in fin dei conti languendo nel proprio guano d’insoddisfazione. Il giovane contemporaneo ha il volto di Giulio Barbato, corpo spiaccicato abulicamente sul divano, pantaloni di tuta Adidas rossi sotto una giacca da camera e sopra un paio di pantofole. Accanto a lui, muta presenza che occupa un angolo di scena, Fulvio Gombos col suo contrabbasso, contrappunto musicale al monologo dell’altro.
Il monologo, che è traccia guida di tutta la rappresentazione, altro non è se non una riproposizione, anche piuttosto convenzionale, di tutta quell’ampia “fenomenologia della disoccupazione” – con frustrazioni annesse – che potrebbe fuoriuscire sotto forma di geremiadi (inoppugnabili e giustificate) dalla bocca di un qualsiasi precario degli anni ’10 dell’attuale secolo. Quel che gli conferisce un alito di vitalità e freschezza è solo quel contrappunto musicale che accompagna e cadenza i ritmi della geremiade, sottolineando dapprima la martellante routine quotidiana, esacerbata dai rumori dell’esterno, fino a declinarla come una sorta di jam session. Di poi è Born Slippy (quella di Trainspotting, per intenderci) a scandire la frenesia che accompagna il dramma della precarietà del nostro trentenne, dall’aria dimessa e un po’ stranita e dall’eloquio talvolta pencolante.
Per il resto, tutto viaggia sull’onda piana di un convenzionalismo che dimostra carenza drammaturgica, scadendo più e più volte nel luogo comune (“Essere precari è una condanna” o altre lapalissiane ovvietà del genere), incontrando di volta in volta il grugnito, il bofonchio, il mugugno dell’uomo al contrabbasso.
Anche quando, nella seconda parte dello spettacolo, il nostro povero precario allarga la panoramica sulla sua esistenza, raccontando della propria vita di relazione, di fidanzate, amanti e fattucchiere contattate alle due del pomeriggio con metodico fideismo, ci si trova dinanzi a qualcosa che somiglia tanto all’aria fritta e che, se non spicca per originalità testuale, nemmeno poggia su un qualche solido piedistallo teatrale che valga a sorreggere il ‘cosa’ col ‘come’.
Unica intuizione che si riesce ad apprezzare – ma che non vale da sola a salvare la messinscena – è il contraltare musicale fornito dal contrabbasso, che vale come sottolineatura ritmica dei diversi momenti del monologo, fino al crescendo finale, all’apice del quale il nostro precario svela l’arcana ambizione, il vagheggiato sogno suo, che è poi espressione del mito senza tempo del posto fisso, panacea esistenziale e soluzione radicale: “Voglio fare il postino!”.
Un po’ poco.
Nun maggio scurdato ‘e te
Vorrei fare il Postino
di Federico Longo
adattamento e regia Giulio Barbato
con Giulio Barbato, Fulvio Gombos
musica dal vivo Fulvio Gombos
arrangiamenti musicali Fulvio Gombos
disegno luci Claudio Benegas
produzione Ramblas a.p.s.
lingua italiano
durata 1h 5’
Napoli, Teatro Start/Interno5, 9 maggio 2014
in scena 9 e 10 maggio 2014