“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 22 March 2016 00:00

Michael Kohlhaas, ovvero Marco Baliani

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Chi ha assistito all’ennesima replica di Kohlhaas, monologo cult del Baliani dei primi Novanta, al teatro Lelio di Palermo, può sentire ancora il trotto dei cavalli, rivivere ad occhi aperti la malia di una narrazione squisitamente asciutta, rigorosa e urgente.

"Tanti anni fa in terra di Germania viveva un uomo a nome Michele Kohlhaas. Era allevatore di cavalli e come lui lo erano stati il padre e il nonno…". Questo l’incipit dello splendido testo scritto a quattro mani da Marco Baliani e Remo Rostagno nel 1990, tratto dal romanzo Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist: storia vera di un mercante di cavalli nella Germania imperiale del Cinquecento beffato dal destino che gli ha tolto i suoi più preziosi cavalli per gioco d’un uomo più potente di lui, la moglie per imprudenza di un altro uomo più potente del primo, la serenità offuscata dall’ansia di fare giustizia su chiunque arbitrasse una forza superiore alla sua. Una storia che stimola una domanda − può il capriccio d’un uomo solo decidere della libertà di un altro? − lasciandola storicamente senza risposta, soltanto con una richiesta di perdono la cui eco si può avvertire in tutte le epoche.
Marco Baliani è Kohlhaas stesso mentre lo racconta in terza persona ma ne vive, nel corpo, il moto dei sentimenti in prima persona: dalla fierezza dei suoi averi passando per il sussulto del suo cuore e l’incredulità dei suoi occhi, arriverà al fuoco che infiamma il suo spirito come il grido di guerra di un intero esercito che reca la bandiera della vendetta.
Seduto sulla corda intrecciata di una sedia di legno chiaro al centro del palcoscenico e con niente a fargli da sfondo, l’interprete capofila di quello che la critica definì il teatro di narrazione italiano, occhi lucidi, vispi, schietti, volto segnato dal tempo e dalle storie che nel tempo sono passate per la sua bocca, Baliani è il cantastorie e anche tutti i protagonisti. È Michele Kohlhaas, è il servo, il principe, la moglie pietosa, la zingara, l’imperatore, è l’esercito dei briganti di Kohlhaas; è le città saccheggiate e arse con lo stesso fuoco che forgiava i ferri dei suoi cavalli, è la Germania delle campagne ed è Berlino; è la pena, la bilancia del suo destino, è la libertà.
Come se fosse cresciuto osservando e studiando tutta la vita intorno a sé, l’immediatezza dell’approccio scaturitane, nonché l’intimità della sua narrazione, ci fa perdere, mentre si guarda Baliani giostrare le espressioni del volto e regolare il ritmo del galoppo con le ginocchia sollevate, il senso della realtà: come se troppa umanità ci lasciasse storditi e ubriachi, non sappiamo più dove siamo e perché ci siamo, non conosciamo l’ora, la stagione, il paese. La parola è ipnotica perché vera ed è vera perché è verosimile sulla lingua di un interprete attento, puntuale, che non circuisce i nostri pensieri attraverso soluzioni scenico/registiche, eppure assuefà i nostri sensi. Ed è per tutto questo che il palcoscenico lasciato vuoto alla fine dello spettacolo riverbera la vita che vi è appena passata e funge da calamita per lo spettatore reduce che ne conserverà per molto tempo – o anche di più – la suggestione.

 

 

 

Kohlhaas
di
Marco Baliani e Remo Rostagno
tratto da Michael Kohlhaas
di
Heinrich von Kleist
regia e interpretazione Marco Baliani
foto a corredo dell'articolo Enrico Febbo
Palermo, Teatro Lelio, 18 marzo 2016
in scena 18 marzo 2016 (data unica)

 

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